Siria: Il Pentagono presenta le opzioni militari

da Il Sole 24 ore
Il capo di stato maggiore delle orze armate statunitensi,il generale Martin Dempsey, ha comunicato le opzioni militari che Washington potrebbe applicare nella sempre più complessa crisi siriana. In un rapporto riservato inviato al Congresso e successivamente declassificato e reso (almeno in parte) pubblico, Dempsey (nella foto durante una visita alle truppe in Afghanistan) evidenzia cinque opzioni: La più “morbida” e la meno costosa è rappresentata dalla fornitura di armi e addestramento ai ribelli che combattono il regime di Bashar Assad che potrebbe costare al contribuente statunitense 500 milioni di dollari annui secondo il Pentagono. Le altre quattro opzioni prevedono un coinvolgimento diretto delle forze militari statunitensi sul campo di battaglia. Si va dai raids aerei e missilistici limitati contro obiettivi di rilievo strategico, all’istituzione di una no-fly zone e di “aree cuscinetto” a ridosso delle frontiere con Turchia e Giordania. Queste tre opzioni, in parte legate tra loro e potenzialmente consequenziali, richiederebbero per essere attuate l’annientamento preventivo delle difese aeree siriane (batterie missilistiche, radar e aerei da combattimento) come è accaduto in operazioni simili effettuate in Serbia e Libia. Sarebbe necessario mobilitare centinaia di aerei e missili con un costo stimato intorno al miliardo di dollari al mese.

Un’ulteriore opzione prevede che truppe statunitensi assumano il controllo delle armi chimiche in dotazione alle forze regolari siriane  attraverso “l’assalto via terra e la messa in sicurezza dei depositi”. Secondo le valutazioni del generale Dempsey tutte le opzioni che contemplano l’uso anche se “limitato” della forza avrebbero un costo di almeno un miliardo di dollari al mese. La scelta finanziariamente più conveniente, cioè armare e addestrare i ribelli, sembra divenuta difficilmente praticabile sul piano politico dopo il progressivo rafforzarsi delle milizie islamiste che rappresentano oggi una fetta consistente delle forze ribelli e di certo la più efficace sul piano militare grazie agli aiuti in armi e denaro provenienti da Qatar e Arabia Saudita. In giugno l’amministrazione Obama aveva promesso un incremento dell’aiuto militare ai ribelli ma fino a oggi tale assistenza non si è concretizzata. Un ripensamento che coinvolge anche Gran Bretagna e Francia che pure avevano premuto sulla Ue per abrogare, nel maggio scorso,  l’embargo sulle forniture di armi alla Siria impegnandosi però a non inviare armi ai miliziani fino ad agosto.

Il 18 luglio Parigi ha seguito Londra annunciando che “non fornirà armi ai ribelli siriani” come ha dichiarato il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius. A influenzare il cambio di rotta delle potenze europee non pesa solo il rischio che le armi finiscano nelle mani dei jihadisti ma anche i frequenti scontri all’interno degli insorti tra gruppi laici e islamisti e i rapporti dell’intelligence che segnalano una crescente presenza di combattenti europei (per lo più di origine araba ma con passaporto Ue) tra i gruppi islamisti attivi in Siria e si teme che il loro rientro in Europa possa portare a un’escalation di azioni terroristiche.
Tornando alle opzioni militari presentate dal Pentagono il generale Dempsey ha ammonito che “una volta decisa e messa in atto un’iniziativa, arriveranno le conseguenze e un coinvolgimento sarà difficile da evitare”. Non a caso il generale sottolinea, in modo formalmente superfluo ma politicamente significativo che “a decidere non sono i militari ma i leader civili”. Una frase interpretabile anche come un’espressione di contrarietà dei vertici militari statunitensi all’ipotesi di un attacco alla Siria considerato da molti ambienti militari come una guerra senza prospettive che porterebbe il gelo nei rapporti con Mosca e Pechino, potrebbe forse far cadere il regime di Assad ma consegnerebbe il Paese al caos o agli estremisti islamici ingigantendo la destabilizzazione del Medio Oriente.

Nei giorni scorsi il capo di stato maggiore britannico, generale David Richards, in un’intervista al Daily Telegraph aveva ammonito chiaramente che un intervento militare in Siria non potrebbe essere limitato. “Se si vuole avere un impatto rilevante sui calcoli del regime siriano, non basta una no-fly zone ma bisogna essere in grado, come abbiamo fatto con successo in Libia, di colpire obiettivi a terra. Bisogna neutralizzare le loro difese aeree e creare una zona di territorio sotto il nostro controllo e neutralizzare le loro difese aeree. Dovremmo anche assicurarci che non abbiamo margini di manovra, ossia neutralizzare i loro carri armati e i loro mezzi di trasporto così come tutti gli altri armamenti. Se si vuole avere un impatto bisogna colpire gli obiettivi a terra e quindi essere pronti ad andare in guerra”. “Questa è una decisione importante – ha concluso  Richiards –  e ci sono molti motivi per farlo, ma anche per non farlo”.  Valutazioni sulle quali sembrano concordare gli statunitensi considerata la riluttanza dell’amministrazione Obama a farsi coinvolgere in nuove operazioni militari ad ampio respiro. . Una guerra su vasta scala richiederà “centinaia di aerei, missili, navi e sottomarini – ha sottolineato  Dempsey –  e costerà miliardi”.

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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