L’Iraq a dieci anni dalla cattura di Saddam Hussein

Adnkronos/Aki – Tensioni etniche alle stelle, disoccupazione, corruzione da record, crisi politica e violenze ancora diffuse su tutto il territorio, con attentati quotidiani anche a Baghdad. A 10 anni dalla cattura dell’ex dittatore Saddam Hussein, l’Iraq appare in difficoltà e soprattutto diviso, frantumato in una miriade di clan tribali. Il sogno di creare uno Stato baluardo della democrazia in Medio Oriente – alimentato da immagini simbolo di quel conflitto, come l’abbattimento della statua di Saddam in piazza Ferdousi davanti a centinaia di iracheni in festa – ha dovuto fare i contri con un’aspra realtà. Il 13 dicembre 2003, Saddam veniva catturato dai soldati americani in una botola all’interno di una fattoria nei dintorni di Tikrit. Si concludeva così l’operazione militare americana ‘Alba Rossa’, ma anche la storia di quello che era stato uno degli uomini più potenti del Medio Oriente. La sua condanna a morte, eseguita il 30 dicembre 2006, non ha però liberato l’Iraq dai suoi problemi, che anzi oggi sembrano moltiplicarsi. A tenere banco dentro e fuori il Parlamento è lo scontro tra sciiti e sunniti, con questi ultimi che accusano il premier sciita Nuri al-Maliki di essersi accanito contro di loro.

La sua condanna a morte, eseguita il 30 dicembre 2006, non ha però liberato l’Iraq dai suoi problemi, che anzi oggi sembrano moltiplicarsi. A tenere banco dentro e fuori il Parlamento è lo scontro tra sciiti e sunniti, con questi ultimi che accusano il premier sciita Nuri al-Maliki di essersi accanito contro di loro. Approfittando dello stallo a Baghdad, intanto, i curdi ampliano di giorno in giorno l’autonomia della loro regione, dove si trovano i più importanti giacimenti di petrolio. Il 2013 è stato per Maliki un vero e proprio ‘annus horribilis’. Una legge approvata a gennaio gli impedisce di correre per un terzo mandato nel 2014. Lui definisce la legge incostituzionale e si dice pronto a sfidarla e a ricandidarsi, nonostante molti suoi alleati gli abbiano voltato le spalle. Nei primi mesi dell’anno, inoltre, migliaia di manifestanti sunniti sono scesi ripetutamente in piazza per protestare contro il governo. Le proteste hanno raggiunto un tale grado di partecipazione e di violenza da far parlare tanti analisti di un colpo di coda della Primavera araba del 2011.

A scatenare le proteste sono stati gli arresti a dicembre 2012 delle guardie del corpo del ministro delle Finanze, il sunnita Rafa al-Essawi, con l’accusa di terrorismo. Più tardi le stesse accuse sono state rivolte al vice presidente Tariq al-Hashemi, anche lui sunnita. Fuggito all’estero, al-Hashemi è stato colpito da un mandato d’arresto internazionale, con l’accusa di aver favorito la nascita e lo sviluppo di una rete destinata a mettere a segno attacchi terroristici in tutto il Paese. Placatesi le proteste, il paese è stato scosso da un’ondata di attentati che per intensità e numero di vittime è seconda solo a quella dell’immediato dopo-Saddam. Autobomba, agguati, attacchi alla polizia, omicidi mirati, tutti su base etnica, sono all’ordine del giorno in tutto il paese. Solo nel mese di novembre, sono state uccise 659 persone, secondo dati delle Nazioni Unite. Il mese precedente, le vittime sono state 979. L’area interessata dalla violenze, inoltre, si allarga a macchia d’olio e a settembre Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, è stata colpita da un attentato mortale, per la prima volta da sei anni.

Anche il sostegno dell’Iran a Maliki non sembra più così deciso come in precedenza. A Teheran si è insediato un presidente moderato, Hassan Rohani, che sembra interessato alla soluzione delle conflittualita’ regionali in cui il suo paese e’ coinvolto. Secondo la stampa della Repubblica Islamica, gli ayatollah sono preoccupati dalla possibilità di un ulteriore peggioramento della sicurezza in Iraq, che aumenterebbe la pressione su Teheran, già alle prese con dossier delicati come la crisi in Siria e soprattutto i delicati negoziati sul suo programma nucleare. Secondo un recente dossier dell”Independent’, Teheran non è più convinta che Maliki sia la figura giusta per guidare l’Iraq e auspica una sua uscita di scena prima delle elezioni del 2014. L’Iraq, a 10 anni dalla cattura di Saddam, appare in difficoltà anche sul piano economico, malgrado l’impennata del prezzo del greggio abbia garantito la tenuta dei conti pubblici negli ultimi anni. Come si legge nel rapporto congiunto ‘Ambasciate/Consolati/Enit’ del 2013 sull’Iraq, a fronte di un alto tasso di disoccupazione e di un Pil pro-capite che colloca l’Iraq al 125mo posto nella classifica del Fondo Monetario Internazionale, i redditi delle famiglie restano depressi. La disoccupazione è particolarmente avvertita al sud, dove sempre più imprenditori sono costretti a licenziare i dipendenti anche a causa dello stop degli investimenti iraniani.

 

In molte zone del Paese la corrente elettrica è disponibile per sole 6-7 ore al giorno. Scarseggia anche l’acqua per irrigare i campi e negli ultimi mesi si è registrato un netto aumento dei generi di prima necessità.  Al contrario del sud, il nord curdo è in continua crescita economica grazie alle sue risorse energetiche. Ma questo contribuisce a inasprire lo scontro con Baghdad. La tensione è arrivata alle stelle dopo che, all’inizio del mese, Erbil ha firmato un contratto per la fornitura di petrolio alla Turchia. Un contratto che il governo di Baghdad non accetta di riconoscere, perché si considera l’unico legittimato a sottoscrivere accordi internazionali in materia di petrolio e gas. .Un altro problema atavico del paese è la corruzione, come dimostrano i rapporti di Trasparency International, che da anni vedono l’Iraq agli ultimi posti della classifica mondiale.

Nel rapporto di quest’anno, il paese è precipitato al 171esimo posto, tra i 177 paesi presi in esame. Rimane ancora molto da fare anche sul piano dei diritti umani, come ha denunciato di recente Amnesty International. L’Iraq resta intrappolato in un orribile ciclo di abusi, tra i quali gli attacchi contro la popolazione civile, la tortura nei confronti dei detenuti e i processi irregolari”, si legge nel dossier dell’ong che mette in luce il “costante venir meno delle autorità irachene all’obbligo di rispettare i diritti umani e lo stato di diritto nella risposta agli incessanti attacchi mortali dei gruppi armati”. “Dieci anni dopo la fine del repressivo regime di Saddam Hussein – conclude il rapporto di Amnesty – molti iracheni godono di maggiore libertà, ma i traguardi fondamentali che avrebbero dovuto essere conseguiti nel campo dei diritti umani devono ancora diventare realtà”.

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