DONBASS: BATTAGLIA PER LA "NUOVA RUSSIA"

Donbass, Ottobre 2014

Nelle zone più calde della guerra civile che le due Repubbliche secessioniste di Lugansk e Donetsk stanno combattendo per la loro totale indipendenza da Kiev di fatto la legge dell’Ucraina non è più in vigore. In questi territori, che ora vengono chiamati “Novorossia”, anche i valichi di frontiera con la Russia non sono più in mano alle guardie ucraine. Sulle postazioni della dogana sventolano le bandiere della Novorossia: una croce diagonale blu bordata di bianco su sfondo rosso; poco più avanti si entra già in  Russia.

Sull’altro versante i confini delle due Repubbliche con il territorio dell’Ucraina non sono ancora ben definiti. Su quella linea scorre il fronte e ci sono postazioni militari da ambo i lati.

Questa frontiera  non solo è instabile e risente degli effetti delle operazioni militari in corso, ma è anche molto porosa. Piccole unità di combattenti possono muoversi da una parte all’altra delle linee per mettere in atto azioni di disturbo.

Conseguentemente, il transito sulle strade, specialmente quelle più importanti in prossimità del fronte, è ancora piuttosto pericoloso. Quando le percorrevo sulle auto con i miliziani filorussi, questi lanciavano i loro mezzi alla massima velocità per evitare di diventare un facile bersaglio per cecchini o mortai dell’esercito ucraino, nascosti nelle vicinanze.

Un dato è certo: la “famosa” tregua, tanto enfatizzata in Occidente, non c’è mai stata. Questo lo posso confermare direttamente, mi basta ricordare i bombardamenti, gli spari, le esplosioni che ho visto e sentito ogni giorno.

Lugansk da fiorente città, come la ricordavo solo qualche mese fa, appare ora semideserta, nonostante la ripresa di un discreto flusso di ritorno di profughi, soprattutto quelli che, con l’inizio delle ostilità, hanno trovato rifugio presso parenti o amici in altre regioni dell’Ucraina.

Il bus che ho utilizzato per il viaggio da Kharkov a Lugansk era stipato di passeggeri; ho dovuto prenotare il posto con un certo anticipo.

Nella Repubblica Popolare di Lugansk mi sono inoltre recato nella città di Pervomaisk (“Primo maggio”, nome dalla inconfondibile origine sovietica). La città (quel che ne è rimasto) ha un aspetto spettrale, non a caso è stata soprannominata la Stalingrado del Donbass.

Per le strade si aggirano solo alcune persone anziane, coloro che non hanno potuto trovare rifugio al di là del confine, in Russia.

Mi hanno portato davanti alle loro case distrutte per indicarmi, piangendo, la direzione di arrivo delle bombe che hanno sventrato le loro abitazioni: colpi partiti da postazioni in mano alle truppe ucraine.

È stato bombardato tutto: non solo abitazioni civili, ma anche scuole, asili, chiese… persino fabbriche, come ad esempio la stabilimento Carlo Marx che produceva motori elettrici, ora, ridotto a un cumulo di macerie.

La sensazione è che Kiev, rendendosi conto del punto di non ritorno della guerra civile in atto, voglia ora distruggere le infrastrutture del Donbass.

Le città dell’oblast di Lugansk sono difese dalla Guardia Nazionale dei Cosacchi del Don.

Sono tutti volontari, la loro età è varia. La maggior parte di loro viene dallo stesso Donbass: hanno lasciato la famiglia, il lavoro in miniera o in fabbrica per difendere, mi dicono “la loro terra”. Sono animati da una grande fede nella religione ortodossa, sulle loro postazioni si vedono molte icone.

Li ho visti privarsi del cibo pur di distribuirlo alla popolazione stremata. Queste razioni alimentari, vitali per la sopravvivenza dei civili, sono arrivate su quei camion di aiuti umanitari inviati da Mosca, che tanto scandalo hanno suscitato tra i politici e i media occidentali.

Ricordo che si urlava “all’aggressione da parte della Russia”, senza invece considerare che gli aiuti avrebbero evitato, e stanno evitando, la morte per stenti e malattia di molti civili tra le fasce più povere e più deboli.

Anche sul posto ormai si sono resi conto della vergognosa logica occidentale dei doppi standard, secondo la quale agli animali, in occidente, vengono riconosciuti più diritti degli anziani e dei bambini del Donbass.

Nella città di Pervomaisk mi sono inoltre recato sulla prima linea difensiva in mano ai cosacchi. Il loro armamento leggero consiste soprattutto nelle varie versioni di Kalashnikov, mitragliatrici PK e di lanciarazzi RPG-22.

In prossimità del fronte in un bunker ho incontrato il comandante dell’armata cosacca l’atman Nikolaj Kozitzyn (nella foto qui sopra). Occasione, mi dicono, assolutamente straordinaria.

Sul suo bunker sventolava la bandiera di “Tutta l’Armata del Don” (Vsevelikoe Vojsko Donskoe) che riunisce tutti i cosacchi di un ampio territorio che va dall’Ucraina sud-orientale alla regione di Rostov in Russia.La bandiera, che consiste in tre fasce orizzontali con i colori: rosso (i russi), giallo (i calmucchi) e blu (i cosacchi), indica l’unione di tutte queste genti.
Dopo il transito di innumerevoli post blok, sono giunto a Donetsk.
In città, nel centro, tra le vie limitrofe al palazzo dell’Amministrazione statale, nei pressi della Piazza con il grande monumento di Lenin, dietro il quale è stata innalzata la bandiera della Repubblica Popolare di Donetsk… la vita “sembra” scorrere normale: ci sono banche che lavorano, qualche bar e ristorante aperto, circolano auto e taxi..

Ma fino alle dieci di sera quando inizia il coprifuoco, allora tutto precipita nel più totale cupo silenzio interrotto solamente, in lontananza, dal fragore delle esplosioni verso la linea del fronte.

Mi sono recato, accompagnato dalla “opolcènie” (la milizia) fino in prossimità dell’aeroporto di Donetsk, l’epicentro dei combattimenti, ormai ridotto a un ammasso di macerie. Tutto il perimetro è costantemente sottoposto ai tiri di artiglieria, di mortai e al fuoco dei cecchini.

Il crepitio delle armi leggere e i botti delle armi pesanti sono una costante.

Tutta la zona in prossimità dell’aeroporto è disabitata: le case distrutte e bombardate, gli alberi sradicati, le linee dell’energia elettrica divelte… Non c’è né acqua, né gas, né energia elettrica.

A Donetsk sono state bombardate non solo abitazioni civili, ma anche mercati.. addirittura il museo cittadino. Questa, attualmente, è la “normalità di guerra” di Donetsk: capoluogo dell’omonima oblast’ con oltre un milione e mezzo di abitanti, fino a qualche mese fa una delle città più ricche e più belle di tutta l’Ucraina.
Sono stato a Storoveshevo a sud-est di Donetsk.

La località nel mese di agosto è stata teatro di cruenti scontri; sono ancora visibili i rottami dei blindati ucraini distrutti e le trincee abbandonate.

Anche la città di Ilovaisk porta ancora i segni dei recenti combattimenti: anche qui ho visto scuole fabbriche e case bombardate.

Sempre accompagnato dai miliziani della opolcènie mi sono successivamente recato sulle trincee in prima linea. Sul fronte a Donetsk, come a Lugansk, i combattenti sono tutti volontari, non solo del Donbass, ma addirittura di Kiev e di altre regioni dell’Ucraina, oltre che dalla Russia.

Lo sottolineo onde evitare possibili ambiguità di significato: i russi che ho incontrato sono tutti “dobrovòl’tsy” (volontari) arrivati dalla Siberia, dal Caucaso, dalle regioni più disparate della immensa Federazione russa. Scelte individuali di persone che hanno lasciato tutto: lavoro, carriera, famiglia, benessere per accorrere in aiuto, mi dicono, dei loro “fratelli russi del Donbass”, e aggiungono: “gratuitamente, per la nostra Ròdina (Patria), non siamo “najòmniki” (mercenari)”.

Sulle uniformi portano cucito il nastro di San Giorgio dai colori nero-arancione, il simbolo della Vittoria della Grande Guerra Patriottica  (il modo in cui nell’ ex-Urss è chiamata la Seconda Guerra mondiale).

Ci sono anche volontari stranieri. Personalmente ho incontrato un tedesco e un afgano, arrivati a Donetsk per combattere contro “l’aggressione occidentale”.

Sono animati da forti motivazioni ideologiche: “la difesa del Donbass dall’attacco orchestrato dall’occidente per colpire la Russia”.

Sempre in riferimento alla simbologia messa in campo, ho notato, sia nelle città che sulle postazioni in prima linea, bandiere che ritraggono l’icona ortodossa di Cristo; sul suo sfondo rosso si legge:  “per la fede, lo zar e la Santa Trinità” (in questo caso intesa come unità tra i tre popoli slavi orientali: russi, ucraini e bielorussi).

La vita al fronte è durissima: vivono in trincea, “dormono” (uso un eufemismo) in bunker improvvisati, mangiano una volta al giorno, di sera, e sono sempre sotto la costante minaccia dei colpi da parte delle forze ucraine.

Mi hanno mostrato, conficcati nel terreno: razzi inesplosi Grad (grandine) e Uragan, i primi lanciati dal lanciarazzi multiplo BM-21, i secondi dal BM-27 (BM significa Boevaja Mashina – veicolo da combattimento, corrisponde al MLRS – Multiple Launch Rocket System), persino i grandi missili Tochka U (nella terminologia NATO: SS-21 Scarab).

Non serviva un esperto di balistica per capire la direzione di provenienza  dei razzi, bastava semplicemente vedere l’angolazione di penetrazione nel terreno. Oltre alle solite armi leggere sulle postazioni ho visto anche mitragliatrici pesanti russe KORD (versione moderna della mitragliatrice UTES), calibro 12,7.

Di notte le temperature scendono già sotto lo zero e diminuiranno presto, l’inverno è vicino. Ho visto anche delle donne, molte non si fanno né filmare né fotografare, hanno la loro famiglia in Ucraina al di là del confine, temono vendette verso i loro cari.

Alla mia domanda: “Cosa ci fa una donna al fronte?”, una di loro mi ha risposto: “Donna? Io mi sono dimenticata del significato di “donna”. Sono solo una combattente al fronte! Come le nostre nonne che hanno combattuto contro i nazisti”.

Tra i miliziani della opolcènie i parallelismi con la Grande Guerra Patriottica sono numerosi, la simbologia sovietica è ampiamente utilizzata sia nei manifesti, che nelle insegne: dai ritratti di Lenin, alla bandiera dell’Unione Sovietica.

Non si vuole ricostruire l’Urss, ma l’Urss viene indicata, nella storia, come il momento di massima potenza. I riferimenti all’Unione Sovietica sono frequenti anche nei loro discorsi, mi assicurano che continueranno a combattere:“fino alla Pabèda (vittoria), fino alla totale liberazione della loro patria dalle truppe di occupazione naziste” (è il modo con cui chiamano le truppe di Kiev).

Si rendono conto di vivere la storia da protagonisti in un momento cruciale per il loro futuro, per il futuro della loro terra.

L’obiettivo finale, affermano, sarà la creazione di una nuova entità statuale, la “Novorossia”, che, ideologicamente, dovrebbe includere oltre alle due Repubbliche autonome di Lugansk e di Donetsk, anche tutto il territorio da Kharkov fino a Odessa.

In sostanza, da un punto di vista storico, una versione in chiave attuale di quella parte di impero zarista (la costa settentrionale del Mar nero), conquistata da Caterina II alla fine del XVIII secolo.

Mi hanno mostrato carte geografiche con l’Ucraina raffigurata secondo questa ripartizione. Parliamo quindi non solo di operazioni militari, ma di un ben preciso progetto politico che mira alla formazione di un nuovo Stato slavo-orientale, ortodosso e russofono.

In effetti, il giorno 8 ottobre il leader della Repubblica Popolare di Donetsk, Aleksandr Zakharčenko, in conferenza stampa, ha toccato non solo questioni di tipo militare, ma soprattutto tematiche di tipo economico e politico su come organizzare la nuova Repubblica.

Foto di Eliseo Bertolasi

Eliseo BertolasiVedi tutti gli articoli

Laureato con lode in Lingue e Letteratura straniere araba e russa all'Università di Sassari e in Scienze antropologiche ed etnologiche all'Università di Milano Bicocca. Ha conseguito un Diploma in Emergenze e interventi umanitari all'ISPI. E'ricercatore associato e analista all'Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) di Roma, redattore della rivista Geopolitica. Corrispondente dal Donbass per "Voce della Russia – Italia". Ex-parà della Folgore ha inoltre conseguito la qualifica di Paracadutista alla Scuola Superiore delle Aviotruppe russe a Rjazan. Pilota privato d'aereo, pilota commerciale d'elicottero.

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