Mosca si rafforza nell'Artico

Lo scorso 1 dicembre la Russia ha reso operativo un nuovo Comando Interforze Strategico  per la regione artica (OSK, Obedinyonnoye Strategicheskoye Kommandovaniye), per ora incentrato sul comando della Flotta Settentrionale con sede a Severomorsk, nelle vicinanze di Murmansk (penisola di Kola). Il nuovo comando dipenderà direttamente dal Centro di Controllo della Difesa Nazionale della Federazione Russa, una sorta di sala operativa integrata permanente, anch’esso reso operativo lo scorso 1 dicembre.

Se la creazione di un comando per l’Artico costituisce per le forze armate russe una novità, in concreto non è altro che la naturale trasposizione in termini militari dell’attuale politica russa che, come ha ribadito in varie occasioni il presidente Putin, pone l’Artico e la difesa degli interessi in quest’area a livello di priorità strategica. Come già riportato da Analisi Difesa in un precedente articolo,
nel 2014 si è infatti assistito alla progressiva militarizzazione delle regioni polari con la riapertura di sette aerodromi dell’era sovietica, la costruzioni di due basi permanenti (Wrangel e Capo Schmidt) e l’allestimento di altre tre (isola di Kotelny, arcipelaghi di Francesco Giuseppe e Novaja Zemlya).

Più di recente, il ministro della difesa russo Sergej Shoigu ha annunciato che a breve verrà completato la rete di controllo dell’intera frontiera terrestre circumpolare (circa 6.200 km) con l’installazione di 10 stazioni radar. -“Siamo stati molto attivi ultimamente nell’Artico”- ha detto Shoigu “ed entro quest’anno disporremo di un certo numero di Unità dislocate lungo il circolo polare, praticamente da Murmansk a Chukotka (dai confini con la Finlandia a quelli con l’Alaska, ndr)”-

E’ comunque in atto un dispiegamento ancora più articolato, che prevede di portare a 13 il numero degli aerodromi nonché l’approntamento di una rete di difesa aerea di ultima generazione. In particolare, sono già operative nell’area dell’isola di Kotelny batterie missili anti-aerei a corto raggio “Pantsir S-1”ed è anche già iniziato il dispiegamento di missili anti-aerei “S-400 Triumph”, per ora nelle penisole di Kola e Kamchakta.

Non si tratta di misure con finalità “show the flag” bensì del dispiegamento di un difficile e costoso dispositivo militare di fissazione dei confini che, evidentemente, i russi hanno motivo di ritenere in qualche modo sotto potenziale minaccia o comunque che si rende necessario presidiare in via permanente.

La ragione per cui la Russia sta predisponendo tante “Fortezza Bastiani” polari non è per far la guardia al ghiaccio bensì per le enormi risorse  nascoste nei fondali del Mar Glaciale Artico, stimate rispettivamente nell’ordine del 13% e del 30% delle riserve mondiali di petrolio e di gas rimaste ancora intatte. Finora sono stati individuati 60 giacimenti, di cui 43 entro il limite territoriale russo di 200 miglia (ZEE, Zona Economica Esclusiva) per una stima di 106 miliardi di tonnellate di petrolio e circa 70 trilioni di metri cubi di gas.

La Russia ha comunque già richiesto all’ONU l’estensione della propria ZEE fino a 350 miglia sul presupposto del prolungamento sottomarino della piattaforma continentale siberiana, peraltro in accordo ai trattati internazionali (Convenzione ONU sul Diritto del Mare del 1982). Si tratta di una superficie di circa 1,2 milioni di km/q. o, per dirla in altri termini, di giacimenti per circa 5 miliardi di tonnellate di idrocarburi.

La questione si presenta spinosa dato che gli altri Stati rivieraschi a cominciare da USA e Canada – oltre a Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia – hanno interessi altrettanto enormi e del tutto antagonisti a quelli della Russia, con cui vengono inevitabilmente a scontrarsi.

Si può dunque dire che la questione energetica, dopo la destabilizzazione delle regioni medio-orientali, sembra emergere ancora una volta come scenario di tensioni internazionali. Il confronto tra gli Stati Uniti ed i suoi alleati con la Russia non è più un’ipotesi futuribile ma una realtà già in atto anche se per ora, non valutando la pericolosità di una escalation, la si considera ancora molto blandamente perché limitata ad una dimensione di tipo economico.

Si tratta comunque di atti di ostilità che sono certamente efficaci nel colpire e provocare danni alla parte avversaria, come peraltro sta avvenendo proprio in questi giorni con il prezzo del petrolio. Dallo scorso mese di giugno ad oggi il greggio è infatti calato da 115 agli attuali 67 dollari (la media quadriennale è 103 USD), con una previsione per tutto il 2015 tra i 60 e gli 80 dollari.

Ora, di norma i paesi produttori fissano i bilanci statali basandosi sul prezzo di previsione stimato dalla IEA (International Energy Agency). Poiché i reports di quest’ultima avevano indicato una media di 140 dollari, alcuni paesi, tra cui spiccano Iran e Venezuela, si trovano improvvisamente esposti a situazioni di crisi.La Russia, le cui esportazioni energetiche valgono il 10% del Pil, avendo preventivato in bilancio introiti ad un prezzo medio di 105 dollari, si trova anch’essa pesantemente esposta ad una recessione, peraltro già stimata dal governo russo nell’ordine dello –0,8%  per il 2015.

Oltre a questo la Russia si trova inoltre a dover fronteggiare un colossale deprezzamento del rublo (svalutato dall’inizio dell’anno del 40% sull’euro e del 60% sul dollaro) ed un’alta inflazione (attualmente all’8% ma in progressivo aumento), tutti fattori destabilizzanti, aggravati dal protrarsi delle sanzioni USA/UE e dal tracollo dell’interscambio commerciale.

Il crollo del prezzo del petrolio è stato approssimativamente spiegato con incrementi di produzione da parte degli USA (shale oil) e dell’Arabia Saudita unitamente a una diminuita domanda cinese. Ma se è pur vero che questo può dar luogo ad oscillazioni di mercato, è altrettanto vero che di per sé non è sufficiente a provocare una flessione senza precedenti del 50% nell’arco di 6 mesi, salvo che questo non sia esattamente uno scopo voluto per colpire a fondo l’economia russa e iraniana.

Tutto questo ha naturalmente un costo anche per chi l’ha provocato, ma considerato accettabile se in grado di determinare il crollo dell’avversario e la sostituzione della sua classe dirigente.

Questo il traguardo che sembra esser stato fissato ed a cui bisogna giungere in tempi brevi perché la strategia del logoramento colpisce tutti. Nel frattempo, come ha annunciato il Segretario della NATO Jens Stoltenberg -“all’est la Russia sta cercando di sostituire la legge con l’uso della forza… Non viviamo in tempi di pace… Bisogna dire basta ai tagli ed aumentare le spese per la difesa”- Non si trattava di un’intervista a un quotidiano bensì del suo intervento davanti alla 60^ Sessione Plenaria dell’Assemblea Parlamentare NATO dello scorso 24 novembre.

Foto: RIA Novosti, Ministero Difesa russo, New York Times

Padovano, classe 1954, è Colonnello dell'Esercito in Ausiliaria. Ha iniziato la carriera come sottufficiale paracadutista. Congedatosi, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza ed è rientrato in servizio come Ufficiale del corpo di Commissariato svolgendo incarichi funzionali in varie sedi. Ha frequentato il corso di Logistic Officer presso l'US Army ed in ambito Nato ha partecipato nei Balcani alle missioni Joint Guarantor, Joint Forge e Joint Guardian.

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