DISOBBEDIRE PER COMBATTERE: NEL DONBASS CON I PRAVYI SEKTOR

Dopo il reportage di Eliseo Bertolasi tra le linee dei filorussi all’aeroporto di Donetsk pubblichiamo quello realizzato da Valentina Cominetti nello stesso settore del fronte ucraino ma nelle postazioni tenute dai volontari del movimento nazionalista “Pravyi Sektor”. ANALISI DIFESA è tra i pochi media a raccontarvi la pima linea della guerra ucraina vista da entrambi i lati della barricata.

REPORTAGE DAL FRONTE UCRAINO

A Peski non c’è tregua, non ci sono amici, non ci sono regole: ci sconsigliano tutti di andare. Ma non ho voglia di rinunciare perché Peski è la posizione strategicamente più importante per l’esercito ucraino nella guerra del Donbass: da questa dipende il controllo del Novo Terminal dell’aeroporto di Donetsk, o di quello che ne rimane. E Liosha, il volontario con cui viaggio, è pronto a rischiare pur di essere influente nella soluzione del conflitto; sa che delle sue mimetiche bianche e dei suoi visori notturni lì c’è bisogno più che mai.

Così ci fermiamo al posto di blocco ai limiti della cittadina, ultimo punto in cui possiamo sentirci più o meno protetti, scendiamo dal furgone e indossiamo giubbotto antiproiettile ed elmetto. Da qui in avanti i combattenti di entrambi i fronti sparano indistintamente su chiunque passi: non serve avere un contrassegno di una parte o dell’altra, perché tutti sono troppo stanchi e troppo spaventati per farci caso e perché un colpo in meno può voler dire perdere la vita.

Il percorso dal posto di blocco alla base che dobbiamo raggiungere è brevissimo: passiamo su un ponte che divide il territorio che è in mano alle forze ucraine da quello dei separatisti. Centoventi chilometri orari a meno diciotto gradi sul ghiaccio. Più velocemente si muove il mezzo meno sono le possibilità di essere colpiti.

E così è; solo un proiettile prende la coda del nostro furgone ma ce ne accorgiamo a mala pena perché il rumore delle esplosioni e delle mitragliatrici è fortissimo.

Fuori dal rifugio ci aspetta Tank, che ci fa segno di scendere dallo sportello che dà verso l’abitazione e ci invita a entrare subito, mentre lui si occupa di svuotare il mezzo. Nella sala ci sono uomini di tutte le età, in divisa, seduti, quasi sdraiati, su dei divani addossati alle pareti. Ci stringono la mano, ci fanno spazio e ci invitano a sedere. Non conviene stare in piedi perché dalle finestre, pur coperte con dei pesanti tappeti, potrebbe entrare qualche proiettile.

Una ragazza, anche lei in divisa militare, ci offre un caffè mentre gli uomini continuano a discutere tra loro, senza troppo curarsi di noi, come se fossimo lì da sempre. Questa atmosfera ci aiuta a distenderci, nonostante le esplosioni non si interrompano. Su uno dei muri due bandiere, una ucraina, l’altra nera.

Nonostante la mia scarsa (quasi nulla) conoscenza del cirillico, riesco a leggere: “V Battaglione Pravyi Sektor. Slava Ukraina”.

Passano pochi minuti, Tank entra carico delle scatole di Liosha in sala. Con lui qualcuno che già conosco, che proprio non mi aspettavo di incontrare, che mi fa sentire a casa e che mi farà da interprete per tutta la mia permanenza. È Valeryi Bondarenko, detto Franzusk perché ha militato per 14 anni nella Legione Francese. Valeryi parla un perfetto italiano, dopo la vita da legionario ha trascorso dieci anni in Italia.

Lo avevo incontrato a Kiev qualche mese prima, in un campo di addestramento di riservisti volontari, dove insegnava il mestiere delle armi. Mi spiega che poi è passato a fare il trainer per Pravyi Sektor, ma che ora ha deciso di venire a combattere dove più c’è bisogno.

Finalmente arriva anche il comandante delle operazioni, Valeryi Chobotar, detto Gatilo (il picchiatore), numero tre di Pravyi Sektor. È lui che mi accorda il permesso di rimanere altri due giorni e di visitare tutte le postazioni; fosse stato per Franzusk sarei dovuta tornare indietro subito con Liosha, “perchè qui non possiamo garantirti nulla, nemmeno da ora a dieci minuti”.

Con Gatilo facciamo il punto: “Noi siamo qui a combattere illegalmente – mi spiega – perché non siamo autorizzati dal Ministero della Difesa a usare le armi. Fino al 9 gennaio con noi c’erano alcuni reparti dell’esercito regolare ucraino, ma era come se non ci fossero perché non ricevevano ordini di contrattaccare. Gli accordi di Minsk sanciscono una tregua rispettata unilateralmente e comunque non sono chiari. Poi è arrivato l’ordine di demilitarizzare la zona, i soldati se ne sono andati. È rimasto solo qualche disertore, che incontrerai, e dei volontari”.

Sono le nove e mezza, le esplosioni si intensificano, alcuni combattenti indossano i giubbotti antiproiettile e gli elmetti, imbracciano i kalashnikov, mettono qualche granata in tasca ed escono con le radio in mano.

Franzusk si rivolge a me: “Noi abbiamo una riunione, ti accompagno di sotto, tu dormi lì, che è più sicuro. Per uscire mettiti l’elmetto”. Usciamo dal retro dell’abitazione, camminiamo al buio per 40 metri, niente torce perché potrebbero individuarci e sparare.

Entriamo in una cantina di un’altra casa: “Questo è un blindage – dice Valeryi – come lo chiamate voi? Rifugio anti bomba, anche se proprio a prova di bomba non è”.

Poi, in ucraino, mi introduce ai presenti, capisco solo: “Valentina, una giornalista italiana e un’amica”. Mi saluta e se ne va. Intorno a un tavolo bevono un tè e fumano dei ragazzi molto giovani, che indossano le divise scure della Guardia Nazionale.

Uno di loro, Andreyi, studente di economia di Kiev, per fortuna parla un po’ di inglese. Mi spiega che con alcuni dei suoi colleghi ha deciso di rinunciare al congedo natalizio e di rimanere a Peski, perché l’aeroporto è troppo importante e perché i loro comandanti sembrano proprio avere voglia di perderlo.

I giovani sono stanchi di ordini che ritengono insensati e stanno anche pensando di rinunciare alla mostrina e allo stipendio della Guardia Nazionale per entrare nel V Battaglione di Pravyi Sector. “A noi non interessano soldi e medaglie. Non siamo qui per questo, ma per difendere la nostra terra e le nostre famiglie. Vogliamo liberare il Donbass e tornare a fare una vita normale. Sembra invece che il Governo e i generali vogliano allungare i tempi della guerra. È inutile seguire le loro direttive”.

Dormiamo tutti vicini, saremo venti, su dei materassi per terra, coperti da sacchi a pelo, con un sottofondo di mitragliatrici, di mortai e di una radiotrasmittente delle cui parole, purtroppo o per fortuna, io non capisco davvero nulla.

La mattina dopo a svegliarci è la voce del comandante Gato, un uomo sulla quarantina, di Luhansk, che non vuole dirci il suo nome perché la sua famiglia è ancora in una città in mano ai separatisti. Impartisce gli ordini della giornata. Un uomo intanto prepara la colazione per tutti su una stufa a legno in ferro battuto.

Di andare in bagno nessuno ha molta voglia, perché l’unica latrina è fuori, al freddo e per raggiungerla bisogna mettersi quantomeno l’elmetto. In breve tempo mi raggiunge Franzusk, per portarmi a vedere la postazione principale di quel settore del fronte. Saliamo in macchina e facciamo poche centinaia di metri, tra gli edifici distrutti del villaggio.

A Peski, fino a qualche mese fa vivevano 2mila persone. Adesso non c’è più gas, né acqua, né energia elettrica (la base di Pravyi Sektor è alimentata da generatori). Sono rimaste a vivere qui una dozzina di persone, che proprio non hanno modo di fuggire. I combattenti portano loro pane e beni di prima necessità. Alcune donne per sdebitarsi, a turno, vanno nel rifugio a fare le pulizie e a cucinare qualcosa.

Accanto alle rovine della chiesa del paese, due postazioni tenute dai volontari di Pravyi Sektor: dall’alto si vedono chiaramente le due torri di controllo dell’aeroporto, distanti poco meno di 2 chilometri. Di stanza qui ci sono dieci persone in tutto, tra cui due ragazze di 26 anni, Iryna e Zhenya, di Dniepropetrovsk.

Mi spiegano che all’inizio nessuno le voleva a combattere, nessuno voleva mettere a rischio le loro vite. Poi, col passare dei mesi, è aumentato il bisogno di capitale umano della guerra e anche loro sono state chiamate. Ci mostrano i punti da cui sparano con i lanciagranate AGS, con i mortai e con le mitragliatrici.

Di colpi ne arrivano tanti, le protezioni servono a poco, spesso è solo la fortuna a fare la differenza. “Stamattina è morto un ragazzo sulla posizione Sky, e ieri sempre lì ne abbiamo portato via uno col cervello fuori dalla scatola cranica”, dice Iryna.

Sky è la posizione più importante perché la più alta, ma la più pericolosa perché senza mura di protezione. Nessuno si prende la responsabilità di farcela visitare, anche perché foto da lì non se ne possono scattare. I combattenti che incontriamo sono tutti molto provati, fanno turni di 24 ore.

“Sono tante, troppe – spiega Franzusk – ma siamo pochi e poi la benzina per portare avanti e indietro i ragazzi costa. Il prezzo del petrolio si è abbassato in tutto il mondo, ma in Ucraina si è alzato.

Spesso devo vendere gli aiuti che arrivano per comprare la benzina. Perché  i volontari sono impegnatissimi, ma non sempre sanno di cosa abbiamo bisogno. Così magari ci troviamo pieni di sapone, disinfettanti e garze, quando avremmo bisogno di carburante per spostare i mezzi”.

Andiamo a trovare i carristi, sono cinque disertori dell’esercito ucraino. Non vogliono foto, non ci dicono i loro nomi, né il reparto in cui prestavano servizio. Quando hanno ricevuto l’ordine di ritirarsi, mentre tutti i loro compagni si affrettavano ad andarsene, hanno deciso di rimanere indietro con tre carri armati. “Servivano qui” – si giustificano.

Vivono in un capannone in cemento armato, colpito mezz’ora prima del nostro arrivo da un razzo. Con leggerezza, ci mostrano il buco nel muro e il razzo conficcato nel suolo.

Prima di tornare alla base aspettiamo mezz’ora, seduti per terra: i combattimenti sono troppo intensi e noi dobbiamo spostarci a piedi. Quando le esplosioni si placano Franzusk mi spiega come seguirlo, mi fa da scudo col corpo. “Se mi sparano, rimani a terra, prendi la radio premi il bottone e chiedi aiuto”. Facciamo quasi un chilometro nella neve, in silenzio. Incontriamo solo un uomo con due vacche.

Alla base sono tutti intorno al tavolo, ci servono del borsh (tipica zuppa di barbabietola) caldo. L’atmosfera è tesa, le cose non vanno bene e probabilmente, per ragioni di sicurezza, bisognerà spostare indietro alcune delle postazioni.

L’assistente del comandante è un lettone di Riga. È arrivato il 15 novembre. Si è messo in contatto con il V Battaglione tramite un’organizzazione non governativa lituana “SOS Ukraine”.

Ha deciso che questa è l’occasione giusta per combattere in prima persona il tanto temuto imperialismo russo.

“Quello che succede qui ora, tra pochi mesi o anni potrebbe avvenire a casa mia. Prevenire è meglio che curare. Rimarrò finché ci sarà bisogno di me. A differenza di tanti altri che vorrebbero venire a fare lo stesso, ho la fortuna di potermelo permettere”.

Ma Janis Katkevics non è l’unico straniero che combatte con Pravyi Sektor: ci sono anche un bielorusso, un polacco e uno svedese. Queste persone non sono arrivate qui tramite organizzazioni associate al movimento politico a livello internazionale, ma come singoli individui che hanno preso contatto con il battaglione  e hanno avuto il permesso di aggregarsi.

Allo stesso modo arrivano aiuti dal Canada, dagli Stati Uniti, dalla Svezia e, talvolta, anche dalla Russia: conoscenti e amici mandano scarpe, macchine fotografiche, coltelli, maglie termiche, radio, divise invernali.

La tensione a tavola è alta. Capisco poche parole, ma a quanto pare la situazione si sta aggravando. Franzusk mi spiega che partirò col comandante Gatilo e con il suo fido amico Bars (Tigre siberiana), che devono andare rispettivamente a Kiev e Cernivci, dove trascorreranno due giorni, prima di tornare a combattere.

L’attesa di un momento di allentamento dei bombardamenti per partire sarà snervante. Bars, che ha dormito poco e che dovrà guidare per oltre mille chilometri,  berrà molti chifir, un thè fortissimo (tra le 5 e le 8 bustine per una tazza) che dà lucidità e tiene svegli, ma che a differenza del caffè non agita e non dà tachicardia.

Chiedo a Franzusk, che di guerre ne ha viste tante, se questo conflitto gliene ricorda qualcun altro e se pensa che perderanno Peski: “Questa guerra mi ricorda quella in Jugoslavia, solo che lì di mezzo c’erano davvero dissidi etnici e religiosi, oltre ai soldi. Qui invece si tratta solo di interessi.

La differenza poi è che là i soldati sapevano combattere, c’erano ordine e disciplina, mentre in Ucraina la maggior parte della gente che imbraccia le armi non ha mai nemmeno pensato di farlo prima.

Riguardo a Peski, non possiamo perdere quello che non abbiamo. Questa zona per il Presidente non esiste, è demilitarizzata, è già persa. Ma noi rimaniamo qui, perché qui abbiamo le nostre vite”.

E così è, anche oggi che l’aeroporto di Donetsk sembra perso. Le forze ucraine il 23 gennaio si sono volontariamente ritirate dal Novo Terminal, come dichiarato da Vladislav Seleznyov, portavoce dell’esercito: “L’edificio è stato distrutto completamente e abbiamo deciso di far indietreggiare i nostri combattenti”.

Ma l’aeroporto non è stato abbandonato del tutto come confermano il colonnello Andriy Lysenko e il V Battaglione di Pravyi Sektor a Peski. La pista di atterraggio e la torre di controllo sono ancora in mano agli ucraini, o almeno a quelli che disobbediscono e  resistono.

Foto: Valentina Cominetti (nell’immagine a sinistra)

Mappe: FOI, BBC

 

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Nata a Roma nel 1989, si laurea con Lode in Scienze Politiche e della Comunicazione alla Luiss Guido Carli. Ha frequentato diversi master di giornalismo e collaborato con diverse testate e con Radio Vaticana. Si occupa di sicurezza e geopolitica, ha seguito sul campo il conflitto ucraino e ha realizzato reportage nell'area balcanica. Attualmente vive in Israele dove è ricercatrice presso l'International Institute for Counterterrorism.

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