LE NUOVE ACROBAZIE DEL GOVERNO CON L'F-35

Il Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa (brevemente DPP) per il triennio 2015 – 2017 presentato in Parlamento qualche settimana fa dal ministro Roberta Pinotti (vedi l’articolo di Giovanni Martinelli del 24 maggio) contiene aggiornamenti e precisazioni sui piani di acquisto dell’aereo d’attacco statunitense Lockheed Martin F-35 che vale la pena di esaminare con attenzione.

Nella scheda di approfondimento dedicata a questo programma si enunciano le ultime decisioni del Governo, che consistono nell’avviare “due precise fasi di razionalizzazione e riduzione della spesa, che saranno valutate tecnicamente nel prossimo futuro”.

Significa che sarà lo Stato Maggiore della Difesa, il cui vertice è nominato dal ministro, a stabilire quando, quanti e che tipo di aerei comperare, attraverso l’elaborazione entro la fine dell’anno di un documento che quantifichi esigenze e strumenti sulla scorta delle linee guida contenute nel “Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa” apparso in aprile.

A proposito dell’F-35, il documento ribadisce chiaramente la volontà già dichiarata tempo addietro dal Ministro della Difesa di “efficientare gli acquisiti e ridurre la spesa (…) nel rispetto anche degli impegni previsti dalle mozioni parlamentari”.

Mozioni votate nel settembre 2014 che, si ricorderà, proponevano alcune cose e il loro contrario – comunque il dimezzamento tout court degli oneri finanziari del programma – e il cui rispetto richiederà acrobazie legislative da far vergognare i burocrati bizantini di antica memoria.

Ma il ministro Pinotti, in risposta alle proteste levatesi dalla sinistra, il 25 maggio ha pensato bene di twittare il seguente messaggio: “F-35: scelte sensate nel pieno rispetto delle mozioni della Camera. Azioni ministro @robertapinotti sempre improntate a massima trasparenza”.

In un’altra parte, il documento ministeriale mette in chiaro che “con particolare riferimento ai prossimi anni, il programma necessita una stabilità in termini finanziari che è funzionale ad evitare di perdere le risorse sino ad oggi investite, alla credibilità internazionale delle capacità produttive nazionali e alla dimostrazione pratica di saper gestire un’eventuale futura manutenzione e aggiornamento del velivolo a livello europeo”. Quell’ “eventuale” lascia perplessi, visto che nel dicembre scorso Washington ci ha già affidato quelle gestioni, e questo DPP riporta le date 2015-2017. Questione di refusi, forse.

Cameri ancora “al rallentatore”
Messo in moto un meccanismo governato da Ministero e Stato Maggiore e concepito nel rispetto delle volontà espresse dalle parti politiche, per queste ultime risulterà (ancora più) difficile mettere in discussione quei “quando e quanti”.

Quello che su cui di sicuro il Parlamento dovrà pronunciarsi sarà la proposta di bilancio sessennale introdotta dal Libro Bianco, che metterà nero su bianco i futuri numeri di questo come di altri programmi.

Ma vediamo quelle due fasi. “La prima, di breve-medio periodo,” recita il DPP, “limiterà fino al 2020, ovvero nel sessennio di pianificazione, le acquisizione degli F-35 a quelli strettamente necessari a sostituire le capacità che saranno perse nei prossimi anni a seguito della dismissione di un certo numero di velivoli oggi in servizio”. Gli aerei in questione saranno 38, fra F-35A a decollo convenzionale e F-35B STOVL a decollo corto e atterraggio verticale.

Andiamo con santa pazienza a rileggere i numeri delle due diverse tabelle pubblicate da Analisi Difesa nel luglio 2013 (“Lo strano pasticcio dei contratti”, pagina 4).

La prima, rilasciata i primi di dicembre del 2012 in un’audizione parlamentare dall’allora Capo di Segredifesa generale Claudio Debertolis, indicava in 46 gli esemplari di F-35 da ordinare nel cosiddetto “buy year” dal 2012 al 2020, e in 36 in particolare quelli del sessennio 2015-2020; una nota del Ministero della Difesa del 28 maggio scorso chiarisce però che “il piano ipotizzato a livello tecnico da Debertolis prevedeva di ‘acquistare’, entro il 2020, 46 velivoli e di averne ‘consegnati e disponibili’ 34”.

La seconda tabella – una bozza di lavoro ottenuta in via riservata da chi scrive e ora riportata da giornali e siti con la citazione “Ministero della Difesa” – mostrava invece un rallentamento della spesa, con 39 aerei da acquistare nel periodo 2012-2020 e 31 nei sei anni. “E’ ipotizzabile”, prosegue la nota ministeriale di una settimana fa, “che i velivoli consegnati e disponibili saranno, nel 2020, almeno un terzo di meno rispetto a quanto comunicato nel 2012 dal generale Debertolis”.

Insomma sulle nostre basi fra 5 anni ci sarà appena una dozzina di Joint Strike Fighter. Ma restiamo alla “spesa”: che cosa significano 38 aerei fino al 2020? Dal punto di vista industriale, che la FACO italiana, partita con gli assemblaggi nel luglio 2013, per 8 anni avrà montato meno di 5 aerei ogni 12 mesi, ai quali dal 2018 avrà aggiunto i primi dei 29 F-35A per l’Olanda.

Il tutto si tradurrà in una cadenza produttiva di non più di 6-7 aerei all’anno, lontanissima dalla ben nota capacità a regime di 24, e in un andamento della learning curve che non potrà non generare perdite industriali almeno per gran parte della prima metà del ciclo produttivo completo, che copre 14-15 anni. Perdite che non è dato sapere di quale entità sono/saranno, ma soprattutto chi, poi, dovrà ripianare.

Confermati gli STOVL anche per l’Aeronautica

E dal punto di vista operativo? I 38 aerei comprenderanno anche una parte degli esemplari della versione B a decollo corto e atterraggio verticale attesi dalla Marina Militare ma ancora, si scopre nella scheda, dall’Aeronautica.

Molti osservatori avevano arguito che Palazzo Aeronautica avrebbe finito per rinunciare alla sua componente STOVL, con la (malcelata) promessa di essere ripagata di questo sacrificio con la fornitura di altri esemplari della versione a decollo convenzionale, che costano meno e stanno accusando meno problemi tecnici.

Se le parole scritte hanno senso e valore, non è così, e la conclusione è che la nostra sarà la sola forza aerea “terrestre” fra la dozzina di attuali clienti del JSF a utilizzare la versione B destinate all’imbarco su piccole portaerei e portaelicotteri da assalto anfibio, nell’ambito di una difficile, contestata ma tuttavia indispensabile integrazione con la componente STOVL attesa dai marinai. I quali vedranno svanire la speranza di ottenere qualche aereo in più che sarebbe nata dalla rinuncia dell’Aeronautica .

La seconda fase, di medio-lungo termine, che copre cioè gli ulteriori e (per ora) ultimi 6 anni di contratti di acquisto vincolanti, ossia dal 2021 all’ultimo attualmente pianificato, il 2026 (in altra parte del DPP si parla però del 2027), prevede una “rimodulazione della pianificazione dell’intero programma per generare ( …) un ulteriore efficientamento della spesa”.

“Decidere ora in modo ultimativo”, recita ancora il documento a firma del ministro Pinotti, “sui volumi complessivi di un programma che si estende per i prossimi 15-20 anni non è né saggio né utile al Paese”.

Il rapido mutare degli scenari non esclude insomma che, acquistati 90 Joint Strike Fighter, se ne possano poi comperare altri. Con grande soddisfazione degli Americani, che a quel punto non avrebbero forse alcuna remora nel confermarci per il lungo periodo come sede delle attività MRO&U.

Acquisiti “a fisarmonica”

La scheda di cui dicevamo a un certo punto ricorda come “nel 2012 l’allora ministro (l’ammiraglio Di Paola; ndr) prospettò la riduzione (…) della flotta italiana da 131 a 90 aerei”.

Prospettò solo? Più avanti si legge che “un’analisi successiva aveva verificato che tale numero (131; ndr) potesse essere ridotto a 90 velivoli totali”. Ma nel 2013 (Governo Monti) non era stata presa una decisione precisa e (osiamo dire) definitiva sul taglio di 41 aeroplani, suffragata da allora in poi dagli stessi documenti americani di fonte industriale e governativa?

Restiamo a quella che corre l’obbligo di chiamare ancora “ipotesi dei 90 aerei” Come riuscire in quell’ “ulteriore efficientamento della spesa” per i rimanenti 52 aerei, il DPP non lo spiega ma neppure lo prospetta. La cosa più banale che viene in mente è ordinarne la massima parte negli ultimi due-tre anni, quando il loro prezzo, grazie alle dinamiche finanziarie dei nuovi contratti pluriennali che scatteranno nel 2018, sarà sceso più di quanto non accada oggi.

Ma questa continua “fisarmonica” di acquisti non farà bene agli standard di operatività dei reparti, alle economie di scala da realizzarsi nella logistica come nella pianificazione degli upgrade, dell’integrazione di nuovi sistemi d’arma, dello stesso addestramento. Per non parlare della necessaria armonizzazione/integrazione di questo assetto innovativo per l’attacco al suolo con quelli convenzionali attuali, e cioè con le linee Tornado, Eurofighter – recentemente sperimentato (alla buon’ora) anche nell’ “air-to-ground” – e AV-8B Plus.

Abbiamo escluso una quinta linea, quella degli AMX, che pur se oggetto di imminenti aggiornamenti nella componente Intelligence Surveillance Reconnaissance, sarà radiata a cominciare dal 2018; data quest’ultima del previsto raggiungimento della capacità operativa iniziale per gli F-35 a decollo convenzionale destinati ai clienti extra-statunitensi (sempre che, con la prevista riprogettazione e relativo collaudo di alcune parti dell’aereo e l’ormai sistematico slittamento in avanti delle performance richieste alle varie release del software, tutto il calendario del programma non subisca nuove variazioni).

Cinque diverse linee di caccia contemporaneamente non se le permette neppure la “Perfida Albione”, ma la vetta più alta verrà raggiunta – sic stantibus rebus – con la messa in campo di tre (!) componenti diverse di JSF: l’aliquota terrestre e quella navale di F-35B STOVL, in parte differenti per impieghi, armamento e procedure e cicli di addestramento, e la flotta di F-35A convenzionali per l’Aeronautica, in generale ben differente dalle prime due.

L’integrazione, verbo sacro per ogni forza armata, resterà un pio desiderio, così come non si hanno ancora notizie certe o almeno ufficiali su quella che dovrà stabilirsi fra i “tre” F-35 italiani e l’Eurofighter.

Terreno sul quale invece la Gran Bretagna (industria in testa), avendo a suo tempo acquistato esemplari di prova dello strike americano, ha già cominciato a lavorare, raggiungendo preziosi risultati. Tra questi, da segnalare l’evidenza (almeno nelle missioni al simulatore) che nell’aria-aria il JSF se la deve dare a gambe se incontra il caccia multiruolo europeo, e che, comunque, non potrà mai essere impiegato da solo.

Così come per lo meno in una parte dello spettro aria-suolo, l’Eurofighter sarà più efficace se potrà godere dei vantaggi offerti da un “accompagnatore” più comunicativo e manageriale come l’F-35, in grado per esempio, come promette di essere, di fornire al collega una priorizzazione dei bersagli in un battibaleno.

Obiettivi inconciliabili

Trentotto aeroplani entro il 2020, si osserva nel Documento di Programmazione Pluriennale, sono parecchi meno dei 101 che si pensava di comperare entro la stessa data quando l’impegno di acquisto ne prevedeva 131 in totale. Numero al quale corrisponde un ritorno industriale stimato (nel 2006) in 14,4 miliardi di dollari.

Di questi, si precisa che 1,6 sono già stati conseguiti, ma (tolta la riduzione nella produzione di ali) non si fa neppure una stima di quanto lavoro non andrà alle nostre imprese con la commessa tagliata a 90 aerei. Il documento riporta invece una previsione sui ritorni occupazionali a regime, desunta da uno studio dell’industria di un anno fa: 6.400 addetti (oggi sono 1.200).

Quello di confrontare i 38 aerei pianificati con i 101, ha tutta l’aria di essere una maniera un po’ furbesca per far intendere che si riduce, si efficienta; a meno che, come si diceva, quella dei 90 aerei sia effettivamente ancora qualcosa solo (poco più che) “prospettata”. I 38 aerei andrebbero invece confrontati ai 46 e ai 39 contemplati dalle due famose tabelle, che prevedevano già il taglio di 41 aerei. Un’altra cosa che lascia perplessi nel documento è l’insistenza sugli sforzi per portare a casa sempre più lavoro e trasferimenti tecnologici, “sì da ridurre (ma a vantaggio delle imprese!; ndr) il costo complessivo per il Paese”.

Continua a essere incomprensibile/inconcepibile la pretesa di far convivere un efficientamento dei nostri investimenti nel programma – ripetiamo, il dossier della Pinotti parla espressamente di “riduzione della spesa” – con una richiesta di maggior lavoro per le nostre aziende. Alenia, anche con la costruzione delle ali, ha lavoro assicurato per vari anni, ma per dirla con una recente dichiarazione del presidente del Distretto Aerospaziale Lombardo ingegner Carmelo Cosentino, “per ora le piccole e medie imprese aerospaziali italiane hanno visto ben pochi ritorni industriali”.

Resta un dilemma di fondo, nel quale il principale cliente dello stealth di Lockheed Martin, gli Stati Uniti, si sta dibattendo in queste settimane: conviene di più ordinare nell’unità di tempo quanti più F-35 possibile (il Pentagono vorrebbe dotarsene di 450 nel giro di tre anni), pagandoli così di meno ma a costo di dover poi investire più capitali nel loro aggiustamento/aggiornamento, oppure ordinarne di meno, con un maggiore esborso di danaro ma risparmiando i costi degli “esami di maturità”?

Di sicuro, come ha osservato il Government Accountability Office nel suo ultimo rapporto – ma questo lo capirebbe anche un bambino – al programma non fa bene aumentare i ratei di produzione con i collaudi ancora in corso e non conclusi prima dell’inverno 2017-2018.

Molto più in piccolo e con effetti meno penalizzanti, la questione riguarda anche noi. Ma nessuno, neppure nel Bel Paese, ha ancora deciso se sia più importante l’uovo o la gallina. Di sicuro, anche nel programma Joint Strike Fighter non si possono avere l’uno e l’altra.

 

Foto: Lockheed Martin e Finmeccanica Alenia Aermacchi

Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli

Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.

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