LE TANTE GUERRE COMBATTUTE IN SIRIA

Mi sono ritrovato tra le mani una bella guida turistica sulla Siria di Jean Hureau che avevo acquistato a Damasco nel 1985. Iniziava così: “Syria is a remarkable country: it is both little known and misunderstood”: la Siria è un paese straordinario: è poco conosciuto e, quel poco, è frainteso!

Direi che tale definizione appare ancora più calzante se, tralasciando il millenario retaggio storico e culturale cui l’autore faceva riferimento, si tenta di affrontare la conflittualità che oggi sta’ dilaniando questo bellissimo paese.

Leggendo quanto viene scritto al riguardo e quanto ci viene riportato dai media, l’impressione (almeno la mia) è di trovarsi di fronte a una rissa da saloon tipica degli “spaghetti western” degli anni ‘60. Non si riconoscono due schieramenti ben definiti, tutti sono contro tutti e tutti sparano al pianista (l’ONU?).

È vero che in una situazione di guerra civile non ci sono mai “fronti” ben definiti e a volte, fingendo di voler colpire il nemico comune, ci si concentra con maggior accanimento sull’eliminazione dell’alleato momentaneo che si teme possa divenire ingombrante in futuro (anche la nostra resistenza, per quanto breve nel tempo, ci ha fornito degli esempi in tal senso).

Peraltro, penso che l’immagine confusa che abbiamo della situazione siriana potrebbe schiarirsi leggermente se tentassimo di scomporre i diversi conflitti sovrapposti che si stanno combattendo in contemporanea sul territorio siriano. Sono certo di dimenticarne almeno un paio, ma ritengo che oggi la Siria sia il terreno di scontro perlomeno dei seguenti conflitti:

1.    Vi è, sicuramente, una guerra civile, avviata sull’onda di quelle “primavere arabe” lodate (e forse anche foraggiate) al loro primo apparire nel 2011 da un Occidente miope e presuntuoso che non ha veramente mai compreso né il mondo arabo né l’Islam (che non sono assolutamente la stessa cosa!). Rivolta popolare, quindi, innescata da un anelito alla libertà, in un paese che ha vissuto nella paura sotto gli Assad dal 1970 (ma anche prima, perlomeno dall’ascesa al potere del partito Ba’ath nel 1963, quando entrò in vigore la “legislazione di emergenza”, di fatto mai revocata).

Un paese che ha vissuto per mezzo secolo in una specie di orwelliano “1984”. Un paese dove tutto era controllato dal “Socing” (appunto, il partito “Ba’ath”). Questo è un conflitto ben noto, sul quale si sono poi innestate tutte le altre situazioni latenti.

Come in ogni guerra civile, qualsiasi tentativo di semplificazione/schematizzazione (soprattutto di natura confessionale) in merito a chi stia dalla parte del governo e chi stia contro è, a mio avviso, fuorviante.  Ci sono Sunniti che combattono per Assad e Alawiti che combattono contro Assad.

Non la maggioranza, certamente, ma ci sono. Più significativo è a mio avviso il fatto che chi combatte (soprattutto dalla parte governativa) ha tutto in gioco. Non sono in gioco solo la posizione sociale ed economica, ma la vita e, soprattutto, quella dei propri familiari.

Entrambi i contendenti sanno che per chi perde non ci sarà e non potrà esserci pietà. È ovvio che in questa situazione nessuna delle parti sia disponibile ad attenersi a “regole” che potrebbero danneggiarle. Soprattutto quando queste “regole” sono percepite come imposte da potenze esterne o da burocrati che parlano di “guerra disumana”, magari dai loro comodi uffici newyorchesi, ma che non devono combattere per salvare la vita dei propri figli.

2.    Vi è un conflitto confessionale, innescato dalla guerra civile. Infatti, come successo anche altrove (Tunisia ed Egitto in primis), la spontanea e laica richiesta di libertà e di diritti civili ha creato condizioni di vulnerabilità dell’apparato statale di cui hanno approfittato forze a marcata connotazione confessionale e (spesso) legate alla “Fratellanza Mussulmana”.

Forze che non potevano certo avere simpatia per un governo (quello di Bashir Al-Assad) che era autenticamente laico e (per i parametri regionali) sicuramente rispettoso di tutte le tante fedi religiose presenti da sempre in Siria: Mussulmani (Sunniti, Drusi, Alawiti, Ismailiti, Sciiti), Cristiani (Ortodossi, Siriaci, Cattolici, Caldei, Maroniti, Nestoriani) ed Ebrei.

Rispettoso sia per ideologia sia per convenienza. Per “ideologia”, perché quella di riferimento del governo era quella laica del nazionalismo arabo del Ba’ath.

“convenienza” non tanto perché Assad sia un alawita (peraltro, è sposato con una sunnita, nella sua veste presidenziale partecipa ai riti sunniti e ha sempre goduto di un certo supporto anche dalla comunità cristiana), ma perché cosciente che l’enfatizzazione del fattore confessionale avrebbe inevitabilmente portato alla disgregazione un paese così composito.


Nel 2011, comunque, i Sunniti rappresentavano circa il 74% della popolazione siriana. Anche se la maggior parte di loro poteva essere impermeabile alla propaganda fondamentalista sunnita (quale quella della Fratellanza Musulmana), il potenziale bacino di cultura per il fondamentalismo sunnita c’era e, con lo Stato che andava a pezzi, poteva essere alla portata di movimenti che volessero approfittarne.

Gli “islamisti sunniti” inoltre avevano vari conti in sospeso con gli Assad. Si pensi solo al massacro di Hama, nel 1982, ordinato dal presidente Hafez Al-Assad, padre di Bashir, e comandato dal generale Rifaat Al-Assad, suo zio. Dopo l’insurrezione promossa dalla Fratellanza Mussulmana, la città fu assediata e bombardata per 27 giorni.

L’azione segnò la dine del conflitto interno tra gruppi islamisti sunniti e il Ba’ath (conflitto che durava dal 1976). Il conto delle vittime varia tra i 10 e i 40 mila, a seconda della fonte (e del suo orientamento politico).

Peraltro, come già detto, occorre tener presente che le diverse parti di questo conflitto interno non si sovrappongono esattamente a quelle della guerra civile (la “rivolta politica” per ottenere maggiori libertà e maggiori diritti e, eventualmente, abbattere la dittatura di Assad)

. Sarebbe semplicistico dire che i sunniti si siano schierati tutti contro il governo e che minoranze islamiche e i cristiani si siano schierati tutti a suo favore.
3.    Molti pensano che in Siria la “comunità internazionale” (espressione tipica cui si fa ricorso quando si vuole “lanciare il sasso e nascondere la mano”) ci sia andata per combattere l’ISIS. In effetti, l’ISIS, o Daesh, ha sempre cercato di abbinare alle forme terroristiche di guerra la visibile assunzione del controllo di un territorio. È ovvio che abbia cercato di dimostrare questa tangibile potenza territoriale là dove le strutture statuali non erano in grado di controllare il proprio territorio e garantire l’efficace “rule of law”.

Ovvio, pertanto, che abbia facilmente acquisito tale dimensione territoriale in Iraq (dove nel 2003 “noi” occidentali avevamo decapitato la struttura statuale lasciando il Paese nel caos delle faide tra sunniti, sciiti e curdi), in Siria (dove “noi” occidentali avevamo il terrore di sporcarci le mani dando un aiuto seppure indiretto al “sanguinario” dittatore Bashar Al-Assad) e più recentemente in Libia (dove, non  avendo compreso la lezione irachena, abbiamo nuovamente giocato a fare gli “esportatori di democrazia” nel 2011, decapitando lo stato dittatoriale che governava da  più di 40 anni e, ovviamente,  andandocene subito dopo, lasciando nuovamente il paese in preda  al caos e alla guerra civile!).

È naturale che in una situazione confusa e in continua evoluzione come quella siriana, Daesh non abbia problemi a trovare ora questo ora quel compagno di viaggio. In realtà, poi, nessuno veramente ha come priorità combattere l’ISIS (tranne forse Assad per la propria sopravvivenza) e Daesh ne approfitta.

4.    La lotta d’indipendenza curda. Nel 2011 a Siria non era solo un coacervo di religioni, era anche un coacervo di etnie (Arabi in maggioranza, è vero, ma con significative minoranze Druse, Curde, Circasse).

Il secolarismo e il nazionalismo del Ba’ath facevano sì che i diversi credi religiosi fossero accettati senza problemi, peraltro, la matrice nazionalista araba del partito lo rendeva particolarmente circospetto nei confronti di coloro che non si ritenevano Arabi.

Da sempre guardati da Damasco con maggior diffidenza rispetto alle altre minoranze etniche (per ovvie ragioni: non si è mai fantasticato di entità statuali druse o circasse, anche per la distribuzione a macchia di leopardo di tali comunità) e sull’esempio dei curdi iracheni (che dal 2003 in poi erano riusciti a guadagnarsi una certa autonomia) i curdi di Siria non potevano non cogliere l’occasione d’oro offerta dalla situazione conflittuale che travagliava la nazione.

Peraltro, non potevano non trovarsi a combattere sia contro i lealisti di al-Assad sia contro l’ISIS e varie altre formazioni islamiste.

E torniamo a quella situazione (tipica delle guerre civili) dove non necessariamente “il nemico del mio nemico è mio amico”.

Il futuro del popolo Curdo sembra uno di quegli argomenti tabù che ci si rifiuta da troppo tempo di affrontare in nome del mantenimento dello status quo e dell’inviolabilità dei confini invocati con un’intermittenza che è decisamente imbarazzante.

5.    Vi sono anche conflitti meno evidenti, per i quali può essere necessario andare indietro nel tempo per meglio capire di cosa stiamo parlando.

Mi riferisco alla competizione egemonica regionale tra Iran e Turchia. Con i Trattato di Sèvres (1920) e la creazione dello Stato Iracheno si era, di fatto, posto un’unica grande entità statuale araba a contatto con l’impero persiano.

L’Iraq copriva la frontiera occidentale persiana dalla Turchia sino al Golfo Persico, rappresentando, di fatto, un solido “bastione” nei confronti di qualsiasi mira espansionistica persiana a oriente (come dimostrato anche dal conflitto Iran-Iraq 1980-88).

Con lo sfaldamento prima dall’Iraq (a partire dal 2003) e poi della Siria (a partire dal 2011) l’Iran ha esteso le proprie mire su tali paesi, facendo perno sulle consistenti comunità sciite presenti in Iraq (62,5%) e su varie comunità non sunnite presenti in Siria (Alawiti, ma non solo). Dall’altra parte, la Turchia di Erdogan all’interno ha imboccato un percorso d’islamizzazione forzata delle strutture statuali, di limitazione delle libertà.

All’esterno, appare evidente il progressivo allontanamento dall’Europa e la ricerca di un ruolo egemonico nella regione. Lo scontro per l’egemonia regionale tra Iran e Turchia non può non essere accentuato dalle matrici confessionali rispettivamente sciita e sunnita dei due paesi. Ovviamente, le due potenze regionali stanno giocando la loro guerra per procura nel “campo da gioco” siriano.
6.    Il conflitto più importante è però quello, di natura bipolare, tra USA e Russia che si sta giocando nella regione (per motivi egemonici delle 2 potenze, per le quali la Siria e la sua gente sono solo un’ottima scusa). Ci stupisce, forse, perché è un ritorno al passato.

La Russia vede nel suo successo in Siria la possibilità non solo di sancire il ritorno di tale regione nella sua sfera d’influenza (come ai tempi dell’URSS) ma anche di mantenersi un’importante porta aperta sul Mediterraneo.

Inoltre, supportando Assad e trovandosi sullo stesso lato della barricata dell’Iran, si assicura un rapporto non conflittuale con quella che è sicuramente la potenza regionale più influente a sud delle repubbliche caucasiche ex-sovietiche.

Gli interessi russi sono molteplici (geo-politici, energetici e militari, per citarne solo alcuni). Stante il deterioramento della situazione in questi cinque anni, la caduta di Assad porterebbe inevitabilmente a un governo di matrice sunnita in Siria.

In tal caso la Russia (troppo compromessa con Iran e Hezbollah) perderebbe qualsiasi speranza di accesso al Mediterraneo attraverso la Siria.  La posizione USA appare forse meno logica e meno chiara nei suoi obiettivi. Qual è l’obiettivo politico-strategico USA in Siria?

A un osservatore probabilmente superficiale come lo scrivente sembra che la politica USA in Siria sia esclusivamente finalizzata a contrastare l’eventuale egemonia russa nella regione. Pertanto, giocano di rimessa e, forse, in maniera poco coerente.

Peraltro, può essere per noi irrilevante il motivo per cui le due grandi potenze si stiano oggi confrontando in Siria. Più rilevante per noi potrebbe essere cosa succederà a seconda di chi predominerà. Quali sarebbero i risultati finali nei due casi sono oggi difficili da prevedere, anche perché la situazione nel paese è gravemente deteriorata.

Comunque,in caso di supremazia russa si potrebbe ipotizzare:
a.    La salvaguardia dell’integrità geografica della Siria di oggi;
b.    Il mantenimento di una forma di governo dittatoriale in Siria, probabilmente ancora multi-confessionale, sotto influenza iraniana e russa;
c.    L’incrementata influenza di Hezbollah in Libano;
d.    L’incrementata presenza politico-militare russa nel Mediterraneo;
e.    Un possibile incremento di tensione tra Israele e Siria (su mandato iraniano);
Nel caso si affermasse una supremazia statunitense, si potrebbe ipotizzare:
a.    La sostituzione del governo attuale con altre forme di governo, comunque non democratiche, probabilmente islamiste e sicuramente d’ispirazione sunnita,
b.    L’incrementata influenza turca (e forse anche saudita) nella regione;
c.    La possibile riapertura di mai sopiti contenziosi di confine tra Turchia e Siria (a vantaggio della prima);
d.    Potrebbe essere a rischio il rispetto della multi-confessionalità in Siria e, di converso, in Libano.

Quale sarebbe l’impatto delle due opzioni sulla stabilità del mediterraneo in generale? Sulla crisi in Libia, dove Haftar già fa l’occhiolino a Putin? Sulla persistente tensione tra Israele e palestinesi?

Nell’ottica di quanto abbiamo detto, quale delle due opzioni potrebbe essere meno dannosa per noi italiani, che siamo proiettati nel Mediterraneo e che abbiamo sempre dichiarato di avere rilevanti interessi strategici nella regione?

In merito ai rilevanti interessi strategici italiani, ritengo che se non ci fossero non si spiegherebbe com’è che negli ultimi 10 anni siamo stati il maggior contributore di truppe a UNIFIL in Libano e abbiamo preteso d reggerne il comando per ben 7 degli ultimi 9 anni.

•    Ci sarebbe anche un altro conflitto, se così si può chiamare. Quello mediatico, il cosiddetto “CNN effect”.

Per decenni molti ufficiali statunitensi si sono lamentati del fatto che alla base degli interventi militari a “stelle e strisce” non ci fosse una seria ed approfondita analisi strategica degli interessi nazionali, ma che Segreteria di Stato e Dipartimento della Difesa operassero come una centrale di vigili del fuoco inviando di volta in volta contingenti militari là dove la CNN aveva fatto uno scoop.

Perché la situazione delle popolazioni assediate con bambini e anziani ad Aleppo è sicuramente criminale. E non la “comunità internazionale” (che non si sa bene chi sia e rappresenta un trito alibi per non assumersi responsabilità) ma tutti noi, individualmente, abbiamo il dovere morale di fare subito qualcosa!

Dovere morale che abbiamo o avevamo anche nei confronti delle:
•     popolazioni del Sud Darfur (che hanno subito violenze inenarrabili da parte del governo sudanese),
•    popolazioni dello Yemen (dove, nell’indifferenza della “comunità internazionale”, dal 2014 l’aeronautica Saudita bombarda obiettivi anche civili al fine di fermare l’avanzata dei ribelli sciiti Houthi nel paese),
•     comunità yazide (su cui si è abbattuta la follia genocida dell’ISIS, di  fronte ad un Occidente che si indigna ma non agisce!) o
•    comunità curde … .. ecc.

La guerra dell’informazione (che è qualcosa di più sofisticato della vecchia propaganda) viene usata (un po’ da tutte le parti) per instillare nel pubblico distratto l’idea che le vittime causate dal mio avversario siano più vittime di quelle cadute sotto il mio fuoco o quello dei miei alleati. Ovviamente, c’è chi sa usare quest’arma meglio di altri. Nessuna critica: loro sono capaci e fanno il loro interesse. sta al pubblico saper leggere al di là di quello che può apparire.

Questi punti non hanno alcuna pretesa di essere neanche lontanamente esaustivi, né mi proponevo in questa sede di analizzare in tutte le loro sfaccettature i diversi conflitti in atto sul suolo siriano. Vorrei solo evidenziare come i diversi conflitti si sviluppino su piani differenti e che non vi siano linee continue di alleanze che attraversino questi diversi piani.

Non si possono applicare le regole a noi familiari della geometria euclidea (quella in cui due rette parallele s’incrociano solo all’infinito) alle geometrie “non euclidee”.

Analogamente, in relazione alla Siria, così come per le molteplici altre complesse crisi di oggi, occorre tentare di scomporle in elementi più semplici, che siano per noi comprensibili, e alla fine decidere in definitiva quale tra i potenziali ”end state” può essere meno dannoso per noi.

Consci che per raggiungere tale end state dovremo, comunque, in uno dei tanti conflitti paralleli, appoggiare anche qualcuno che magari ci fa schifo.

Scegliere se sostenere chi colpisce gli ospedali o chi utilizza bambini come scudi umani, se sostenere al-Nusra (che oggi ha cambiato nome ma non ideologia) o gli Hezbollah, se sostenere al-Assad oal-Baghdadi, e via dicendo.

Infatti, qualsiasi sia l’end state che vorremmo, se non vogliamo solo stare a guardare sperando nell’italico “stellone”, dovremmo associarci con qualcuno con cui non vorremmo essere associati.

Certo, ci sporcheremmo le mani! L’alternativa è continuare nella passività colpevole che ha caratterizzato il nostro atteggiamento sino ad ora nei confronti della crisi siriana, così come di quella del Darfur, dello Yemen, della Somalia, ecc.
Passività che ci rende, quella sì, corresponsabili delle centinaia di migliaia di vittime di conflitti che lasciamo degenerare nella barbari

Foto: AP, AFP, SANA, Reuters, TASS, Getty Images e Fronte al-Nusra

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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