QUANTI FOREIGN FIGHTERS SI AGGIRANO LIBERI PER L’EUROPA?

da Il Mattino del 14 ottobre 2016

L’ultimo allarme viene da Londra: dei 400 foreign fighters britannici tornati sull’isola dopo aver militato nelle file dell’Isis, del Fronte al-Nusra (al-Qaeda) o di altri gruppi jihadisti in Siria o in Iraq, solo 14 risultano essere stati arrestati.

Lo ha denunciato domenica, non smentito, il Mail on Sunday citando fonti governative: di fatto sarebbero quindi almeno 380 i “veterani” liberi di muoversi in Gran Bretagna, di pianificare o effettuare attentati o di addestrare i tanti simpatizzanti della causa del jihad.

Secondo il ministero dell’Interno di Londra sarebbero almeno 850 i foreign fighters britannici (erano 700 nella primavera scorsa) individuati negli ultimi anni fra Siria e Iraq, una settantina almeno sono stati uccisi e quasi la metà sono rientrati nel Regno Unito.

Secondo Europol sarebbero poco più di 5 mila i foreign fighters europei (per tre quarti provenienti da Belgio, Francia, Germania e Gran Bretagna), cittadini o residenti di fede islamica (immigrati, figli di immigrati ma anche europei convertiti) recatisi a combattere il jihad in Siria e Iraq e che hanno cominciato a rientrare in Europa, si teme organizzati in cellule terroristiche pronte a colpire.

Identificarli ha richiesto un faticoso e lungo lavoro ai servizi di sicurezza di tutti i Paesi europei anche perché quando a migliaia partirono per combattere contro il regime di Bashar Assad in Europa non vennero colti i potenziali pericoli. Ci si cullava ancora nel sogno della “primavera araba” che avrebbe rovesciato i tiranni per portare democrazia e libertà.

Il risveglio è stato traumatico e poco decoroso per le nazioni europee che avevano chiuso le relazioni diplomatiche con Damasco salvo poi doversi rivolgere ai servizi segreti siriani per ottenere l’ampia mole di informazioni raccolte sui campi di battaglia e fare luce sul fenomeno dei foreign fighters.

Oggi che l’Europa ha le idee chiare sulla pericolosità di uomini votati anche all’estremo sacrificio per la causa islamista, sembra non avere volontà e strumenti per perseguirli adeguatamente e prevenire la minaccia.

Nel giugno scorso il coordinatore antiterrorismo dell’Ue, Gilles De Kerchove, suscitò scalpore dichiarando che dovremmo “essere pronti ad affrontare i numeri importanti di combattenti stranieri che oggi si trovano in Iraq e Siria e che poi torneranno in Europa. Dovremo inevitabilmente poterli reintegrare poiché non potremo chiuderli tutte nelle carceri o perché non avremo prove a sufficienza o perché bisognerà offrire loro un’alternativa di vita”.

In realtà a quasi due anni e mezzo dalla proclamazione del Califfato l’Europa ha fatto ben poco per la sua sicurezza. Le sue frontiere vengono ancora attraversate da chiunque paghi i trafficanti e anche ai posti di confine ufficiali i controlli non sono certo sistematici.

La proposta di varare una legge che definisca il concetto di “combattente straniero” e ne sancisca la punibilità in tutta la Ue è rimasta una semplice ipotesi.

L’International Center for Counter-Terrorism (ICCT) dell’Aja, in un rapporto del maggio scorso evidenziava le difficoltà degli europei a perseguire i foreign fighters: non esiste una definizione univoca e comune di “combattente straniero”, i singoli Stati sono riluttanti a fornire informazioni sui “propri” jihadisti ai partner Ue, c’è confusione tra foreign fighter e terrorista e su come discriminare il “volontario” che combatte con il Califfato da quello che va in guerra al fianco dei curdi.

E poi non ci sono le idee chiare neppure sul numero dei combattenti rientrati in Europa.

Nel luglio scorso Europol stimava che fossero tra 1.500 e 1.800, qualche centinaio in più rispetto ai circa 1.250 contati dall’ICCT in maggio mentre in Italia Marco Minniti, sottosegretario con delega ai servizi segreti, ha riferito di un migliaio.

Non è noto quanti siano stati messi in carcere ma tutto sembra confermare si tratti di un’esigua minoranza.

Come de Kerchove, anche Minniti ha espresso la necessità di “conciliare i controlli di sicurezza con la possibilità di far uscire chi è entrato in un percorso radicale” perché qualcuno di loro potrebbe “dissociarsi e aiutare le indagini”.

I foreign fighters partiti dall’Italia sarebbero un centinaio anche se solo una minoranza di loro ha passaporto italiano.

“Numeri relativamente bassi rispetto ad altri Stati europei” sostiene Francesco Marone autore nell’estate scorsa di un rapporto pubblicato dall’ICCT in cui si stimava il numero complessivo di foreign fighters europei i tra 3.900 e 4.300.
Anche la Svizzera si interroga sulla mancanza di regole generali per affrontare il problema dei jihadisti di ritorno.

Queste persone “non possono essere lasciate sole e abbandonate a sé stesse”, afferma André Duvillard, della Rete integrata Svizzera per la sicurezza, proponendo l’abbinamento di misure quali la sorveglianza a provvedimenti socioeducativi. A suo avviso “l’approccio ‘hard security’ non può essere il solo, perché “comporta costi e richiede mezzi che non abbiamo”.

Un approccio forse inadeguato se rivolto a uomini abituati a confrontarsi sul campo di battaglia con le truppe russe e di Bashar Assad e che non avranno nessuna difficoltà a eludere la sorveglianza e i programmi di reinserimento sociale della Ue.

Foto: AP, Stato Islamico, Ansa, Esercito Italiano, AFP e Reuters

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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