Guerra nelle città. I combattimenti urbani nel dopoguerra

Le città, in particolare le grandi metropoli costiere, saranno i teatri di guerra dei prossimi conflitti ma, nonostante le previsioni degli esperti, all’interno delle Forze Armate dei Paesi occidentali stenta a decollare la costituzione di unità dedicate a questa specifica forma di combattimento. Questo saggio ricostruisce settant’anni di guerre nelle città, dalle guerre arabo-israeliane del 1948, alle sanguinose battaglie nelle città vietnamite del 1968, alla missione in Somalia, fino ai recenti scontri nella Striscia di Gaza, e dall’analisi tattico-militare trae preziose considerazioni sulle guerre che gli eserciti regolari dovranno affrontare e sulle lacune che andrebbero colmate in termini di addestramento, risorse umane, mezzi, materiali e intelligence.
Un’analisi che sviluppa non solo attraverso la Storia ma seguendo anche l’evoluzione di tattiche e mezzi militari.

L’autore ha il merito di aver concentrato in un volume di agevole lettura anche per i non “addetti ai lavori” quasi 70 anni di battaglie urbane legandole a un filo logico e selezionando gli scontri che hanno avuto un impatto diretto anche sulle strategie e sulle dottrine militari, in pratica fino ai giorni nostri considerato che l’ultima battaglia presa in esame è l’operazione israeliana a Gaza del 2014. In attesa di un prossimo volume che dovrà necessariamente prendere il via dalle battaglie combattute nelle città irachene e siriane: Homs, Fallujah, Palmira, Ramadi, Aleppo e Mosul….a conferma di come le città siano destinate tendenzialmente anche in futuro a trasformarsi in campi di battaglia.

Andrea Lopreiato, nato a Bologna nel 1972, vive e lavora a Viterbo. Laureato in Scienze politiche con indirizzo economico internazionale, collabora con le riviste «Tecnologia & Difesa», «Panorama Difesa», «Uniformi & Armi» e «Rivista Militare», per cui scrive articoli di carattere tecnico-militare e aeronautico.

Dell’opera pubblichiamo la prefazione di Gianandrea Gaiani

PREFAZIONE

Uno degli aspetti più contraddittori del dibattito in corso negli apparati militari Occidentali ed in particolare europei è forse rappresentato dalla pretesa di “classificare” la tipologia dei conflitti attuali e che si presume di dover affrontare in un futuro a corto-medio termine per determinare su quale tipo di forze armate puntare. Dopo l’11 settembre 2001 la gran parte degli strumenti terrestri europei si è votato alle operazioni contro-insurrezionali richieste dai lunghi conflitti in Iraq e Afghanistan acquisendo mezzi specifici in grado di reggere all’esplosione degli ordigni improvvisati, riducendo o addirittura sacrificando, complice anche la crisi finanziaria che ha falcidiato i bilanci della Difesa, componenti un tempo considerate irrinunciabili quali l’artiglieria e i carri armati.
L’acceso dibattito intellettuale su quale modello di forze armate plasmare e addestrare per il futuro sembra aver dimenticato le lezioni della Storia. Come spesso accade, è probabile che la prossima guerra si rivelerà diversa dalle previsioni frutto di tanti studi e analisi ma, più probabilmente, dovremmo ricordarci che in passato le forze armate furono chiamate ad affrontare nella stessa epoca una vasta e diversificata serie di minacce e di nemici.

Per secoli gli eserciti europei hanno combattuto guerre convenzionali contro i rivali continentali e al tempo stesso hanno affrontato milizie irregolari in conflitti asimmetrici negli imperi coloniali. Più o meno quello che devono fare fanno anche oggi nelle missioni di stabilizzazione che qualcuno si ostina ancora a chiamare “di pace”. Nella seconda guerra mondiale la Wehrmacht combatté contemporaneamente campagne convenzionali sui diversi fronti che la vedevano opposta agli alleati e campagne contro-insurrezionali nei Balcani, in Francia o in Italia.

E’ quindi molto probabile che gli strumenti militari occidentali, ridotti nei ranghi e nelle capacità dai continui tagli finanziari, debbano far fronte a minacce multiple, anche nell’ambito dello specifico contesto dello scontro negli ambienti urbani. In questo ambito l’opera di Andrea Lopreiato ha il duplice merito di ricordarci le battaglie urbane del recente passato, combattute in alcuni casi da eserciti contrapposti e in altri da forze regolari opposti a milizie irregolari, e di ammonire circa l’assenza di una dottrina strategica specifica sulla guerra in città, che risente in Occidente (ma non in Israele dove le campagne urbane a Gaza sono ormai una costante per Tsahal) di un’impostazione prettamente tattica delle operazioni basata sul fatto che in ambiente urbano la guerra viene combattuta casa per casa, strada per strada, da unità a livello di plotone o addirittura squadra.
Settanta anni di pace in Europa ci hanno fatto dimenticare che le più aspre battaglie urbane si sono combattute da sempre nel nostro Continente, dagli assedi dell’antichità al canto del cigno del Terzo Reich consumatosi in una feroce quanto inutile battaglia a Berlino.

Una sorta di rimozione, “scienza” di cui noi europei sembriamo essere maestri considerato che in Iraq e Afghanistan abbiamo accettato di farci insegnare dagli statunitensi la “nuova” dottrina contro insurrezionale sviluppata dal generale David Petraeus e dal suo staff…..recuperando tecniche e tattiche adottate dai francesi in Indocina e Algeria e dai britannici in Kenya e Malesia.
Con quella dottrina contro-insurrezionale Petraeus ha vinto temporaneamente in Iraq e avrebbe probabilmente vinto anche in Afghanistan se il presidente Barack Obama non avesse compromesso il successo ritirando prematuramente le truppe da Baghdad nel 2011 e annunciando già nel 2010 che quattro anni dopo le forze alleate avrebbero lasciato Kabul.

Uno dei più brillanti “Petraeus’s boys”, l’australiano David Kilcullen, sostiene nel suo ultimo libro “Out of the Mountains: the Coming Age of Urban Guerrilla”(“Via dalle montagne: l’avvento dell’era della guerriglia urbana”) che i conflitti del futuro si svolgeranno nelle grandi città, in particolare le gigantesche metropoli costiere dove entro la metà di questo secolo si stima vivrà il 75 per cento degli oltre 9 miliardi di abitanti del pianeta.

Kilcullen parla di “un modello terzomondista di rivolta” che si sposterà dalle aree tradizionali dell’insorgenza (montagne, giungle, deserti) alle città e che “verrà esportato presto in Occidente”. Previsione più che credibile considerando la disinvoltura con cui in Europa e Nord America si favorisce un’immigrazione massiccia e incontrollata da parte di popolazioni che per religione o cultura sono in molti casi difficilmente integrabili o addirittura ostili alla nostra civiltà.

In questi vasti agglomerati urbani, nonostante l’ampio impiego di moderne tecnologie, è già oggi difficile mantenere il controllo del territorio al punto che situazioni d’emergenza come i disordini nelle banlieue parigine e di altre città francesi nel 2005 richiesero la mobilitazione dell’esercito in compiti di ordine pubblico. L’evoluzione delle forze di polizia in strumenti più e meglio armati è già in atto negli Stati Uniti che hanno sperimentato un assaggio del futuro immaginato da Kilcullen quando nel 1992, in alcuni quartieri di Los Angeles, dovettero impiegare 5.500 militari (Guardia Nazionale e Marines) e 2 mila agenti delle agenzie federali per affiancare il Dipartimento di polizia cittadino e sedare la rivolta degli afroamericani che provocò 54 morti, 2 mila feriti e 1.100 edifici distrutti.

Il ritiro delle truppe da Iraq e Afghanistan ha visto US Army e Corpo dei Marines dismettere un’ampia mole di mezzi blindati e pesantemente armati impiegati nelle operazioni contro-insurrezionali che sono stati in larga misura venduti all’estero e in parte acquisiti dai diversi dipartimenti di polizia di grandi e medie città. Una sorta di militarizzazione degli equipaggiamenti in dotazione ai corpi di polizia che, a titolo precauzionale, puntano a dotarsi di armi e mezzi da combattimento.

Benché su vasta scala, quelli di Los Angeles o di Parigi furono “riots”, disordini scatenati da bande, gruppi disorganizzati dediti soprattutto al crimine e al saccheggio. Il salto di qualità in forme di guerriglia o guerra urbana dipenderà dalle capacità di organizzare milizie su base etnica, religiosa o ideologica e dalle possibilità di accesso a consistenti quantitativi di armi. Si tratta di circostanze molto probabili già oggi considerando l’omogeneità culturale riscontrabile tra gli abitanti di alcuni grandi quartieri periferici delle metropoli occidentali e la crescente disponibilità di armi in circolazione attraverso i traffici clandestini gestiti da organizzazioni terroristiche o criminali (entrambe caratterizzate da ampie disponibilità finanziarie) ben evidente in Messico, Siria e in altri Paesi.

La sempre maggiore diffusione e potenza di fuoco delle armi portatili (tra cui i lanciarazzi anticarro e missili terra aria a corto raggio) potrebbero far assomigliare la prossima rivolta urbana più alle battaglie nelle città siriane di Kobane o Aleppo che ai riots di Los Angeles.
Immaginiamo cosa potrebbero scatenare in una città europea alcune centinaia di “foreign fighters” ben addestrati e veterani dei conflitti in Siria o in Afghanistan, spalleggiati da alcune migliaia di fiancheggiatori fanatici come quelli che negli ultimi tempi hanno ucciso per strada alcuni militari in Gran Bretagna, Francia e Canada. Uomini che potrebbero contare su una fitta rete di supporti e appoggi da parte di una larga fetta della popolazione di alcune aree urbane, motivata o costretta con le minacce a sostenere la rivolta.

L’ipotesi di un jihad proclamato in qualche banlieue non è poi così remota con la differenza che, non trattandosi di “semplici riots”, la risposta dovrebbe essere prettamente militare con tutto quello che ne consegue in termini di perdite, violenze sui civili e danni collaterali. Aspetti spinosi, rivelatisi negli ultimi anni inaccettabili per le opinioni pubbliche e le leadership politiche occidentali.

Andrea Lopreiato
Guerra nelle città. I combattimenti urbani nel dopoguerra
Pagine 266
Editore Ugo Mursia
Formato 21×14
Copertina brossura
Prezzo: 15.00 €

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