In Niger! Ma a fare cosa?

Nel XIX secolo molte potenze europee hanno avviato discutibili operazioni militari in Africa anche al fine distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni.

L’Italia, come il bambino che tenta di scimmiottare i “grandi”, lo ha fatto anche nella prima metà del XX secolo con la Libia e, soprattutto, con la sconclusionata operazione in Etiopia. Ora mi sembra di essere di fronte a un dejà vu!

Da giorni i media ci forniscono dettagli in merito all’Operazione “Deserto Rosso” in Niger, con numeri di soldati, loro dislocazione e loro equipaggiamenti. I giornali forniscono anche dettagli su tipologia di unità (genio, sanità, paracadutisti, numero  automezzi e mezzi da combattimento e numero di aeromobili , eccetera) e un sacco di altri dettagli insignificanti. Insignificanti, sì! Perché l’unica cosa che dovremmo sapere come cittadini e come contribuenti sarebbe quale missione gli viene assegnata e con quali regole d’ingaggio dovrebbero operare!

Dobbiamo sapere “quale missione” per renderci conto se è una missione che veramente possa giovare agli interessi nazionali. Dobbiamo sapere a “quali regole d’ingaggio” si conformerà il comportamento dei nostri militari, sia per sapere se tali regole d’ingaggio ne assicureranno l’incolumità in un teatro non scevro di rischi, sia soprattutto per essere certi che tali regole d’ingaggio (se troppo restrittive in merito all’uso della forza) non ne inficino l’efficacia e la credibilità, come troppe volte avviene ad esempio alle operazioni a guida ONU.

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Su tali punti essenziali vedo solo nebbia e contraddizioni. Incominciamo dal compito dei nostri soldati in Niger. Intanto in quale contesto internazionale opereranno? Non appare troppo chiaro, e ciò già preoccupa.

Il contesto di riferimento potrebbe essere la Risoluzione ONU n.2359 de 2017 che ha riconosciuto la “Force Conjointe du G5 du Sahel” di 5.000 uomini di Mauritania (paese pilota del progetto), Niger, Ciad, Burkina Faso e Mali (tutti paesi francofoni). Non è però chiaro cosa c’entri l’Italia.

Quindi gli italiani dovrebbero inserirsi in un contesto a guida francese (che da anni già hanno nella regione dai 3 ai 4 mila uomini, nell’ambito dell’operazione “Barkhane”) per supportare/addestrare i contingenti di questi paesi francofoni. Quanto ciò risponda più agli interessi di Parigi che di Roma lo ha già spiegato su questa testata Gianandrea Gaiani.

Diamo per scontato che andiamo lì per generosità nei confronti di Parigi, il ché in un’ottica di “do ut des” ci può decisamente stare (il “do” da parte nostra c’è sempre, in merito al “des” da parte degli altri abbiamo finora visto qualche défaillance, ma è colpa nostra!).

Andiamo ai compiti sul terreno. Il Presidente Gentiloni avrebbe indicato come obiettivi: “consolidare quel paese, contrastare il traffico di essere umani ed il terrorismo”. Ora mi sembra che contrastare il traffico di esseri umani e combattere il terrorismo richiedano assetti, procedure e regole d’ingaggio ben diverse. Nonostante le connessioni finanziarie tra i due fenomeni, non penso si possano adottare procedure simili per intercettare una colonna di migranti illegali o un team terroristico!

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Dal canto suo, il Capo di SMD avrebbe dichiarato che “non si tratterebbe di una missione combat” (allora non capisco perché non ci vadano i boyscout cari a Renzi) e che i nostri avrebbero solo compito di “addestrare le forze nigerine e renderle in grado di contrastare efficacemente il traffico di migranti ed il terrorismo”.

I membri del G5 del Sahel stiano mettendo in piedi una forza multinazionale per combattere il terrorismo ma non ho trovato riferimenti nei loro documenti pubblici al contrasto dei flussi migratori clandestini. Che si tratti di un qualcosa messo lì per rendere l’operazione più gradita al pubblico italiano?

Infatti, il senatore Latorre , presidente della Commissione Difesa del Senato, ha dichiarato: “lo scopo sarà di realizzare un’attività di training, che non avrà l’obiettivo di contenere i flussi migratori, ma di governare i confini di paesi che sono transito di flussi”.

Quindi non molto a che fare con il contrasto dei flussi migratori illegali (che comunque, a parere di chi scrive resta un’attività di competenza della polizia e non dell’esercito!)

Il Decreto del Consiglio dei Ministri, un po’ più tecnico delle dichiarazioni alla stampa, stabilisce che la missione si prefigge di “rafforzare le capacità di controllo del territorio delle autorità nigerine e dei paesi del G5 Sahel e lo sviluppo delle forze di sicurezza nigerine per lo sviluppo di capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza”.

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Viene ribadito che”il controllo delle frontiere rimarrà un compito delle forze di sicurezza nigerine”.  È ovvio, infatti, che nessuno Stato Sovrano sia disposto a delegare ad autorità esterne il controllo dei propri confini! Naturale, pertanto, che il controllo delle frontiere resti responsabilità nazionale, cui i nostri potrebbero concorrere eventualmente con apparati per il controllo di aree estese. Comunque, anche se i nostri intercettassero (volutamente o incidentalmente) dei terroristi non potrebbero che avvisare i nigerini per intervenire. Non potrebbero, infatti, arrestarli in quanto poi non saprebbero come gestirli: non sarebbe loro consentito, una volta arrestati, consegnarli alle autorità del Niger (ove è sia pure solo formalmente in vigore la pena di morte) né potrebbero inviarli in Italia per il processo (cosa che credo i terroristi gradirebbero).

Se nell’ambito degli apparati di polizia nigerina, come da molti sostenuto, vi sono stati casi non sporadici di collusione con i trafficanti, appare ovvio che l’addestramento da solo può servire a ben poco. A meno che si avvii un processo globale di Security Sector Reform (come avviato in Afghanistan e Iraq per l’intero apparato di sicurezza dei due paesi), di cui nessuno ha parlato per Niger e Mali, il problema non si risolve!

Si è detto anche che l’intervento serve a bloccare i foreign fighters di ritorno.  A parte il fatto che non ce li vedo i foriegn fighters che tornano in Europa mischiandosi a carovane  nel deserto, mi sembra che le aree da cui oggi stanno evacuando gli “ex – foreign fighters” siano essenzialmente Siria e Iraq. Perché mai per rientrare in Europa dovrebbero passar per il Sahel?

In conclusione, non appare ben chiaro che cosa si vada a fare in Niger né perché ci si vada.Purtroppo, ancor meno si sa in merito al comando (verosimilmente francese) sotto il quale opereranno i nostri soldati.

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Regole d’ingaggio? Queste ovviamente discendono dal compito e dal contesto in cui si opera. Se il compito è confuso, le regole d’ingaggio non potranno certamente essere efficaci.

Occorre tener presente che le regole d’ingaggio sono sì funzionali alla sicurezza dei nostri militari (e già ciò basterebbe a farle tenere nella massima considerazione), ma sono soprattutto funzionali all’assolvimento della missione (innumerevoli sono le operazioni militari, soprattutto a guida ONU, che sono fallite miseramente  a causa anche di regole d’ingaggio non adeguate: fallimenti che, come nel caso di UNPROFOR in Bosnia dal 1992 al ‘95, hanno avuto come conseguenza migliaia di vittime civili che avrebbero potuto e dovuto essere evitate).

L’insistenza sul fatto che sarà una missione “non-combat” mi fa temere che sia la foglia di fico per mandare soldati allo sbaraglio con compiti non chiari e con regole d’ingaggio non adeguate.

Inoltre, se i nostri non saranno combat, come si interfacceranno con chi combat lo è (francesi, ma anche statunitensi e poi, ovviamente, i nigerini).

Essere “non-combat” in un teatro dove gli altri combattono è come essere un vaso di terracotta tra quelli di ferro, come scriveva Manzoni. Per prima cosa vieni escluso da buona parte del flusso informativo (no need to know!) e ciò si riverbera sulla sicurezza dei nostri contingenti. Peraltro, mentre non si sa bene che cosa esattamente andranno a fare i nostri soldati in Niger, si sa che saranno al massimo 470 (quindi si stima una forza media annuale di 250) e, comunque, non da subito!

Tra l’altro, in un contesto d’impiego così lontano ed isolato, una componente non indifferente e poco comprimibile del contingente dovrà inevitabilmente essere connessa con l’assolvimento di compiti di supporto nazionale (National Support Element, collegamenti con l’Italia), di sostegno logistico e di sicurezza. Quindi per numeri piccoli, si rischia che l’output operativo o addestrativo diventi davvero marginale.  Ovvero, parafrasando Pierre De Coubertin, l’importante è partecipare, non fornire un contributo significativo!

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Ci si premura comunque di assicurare che saranno contestualmente ridotti i militari in Iraq (circa 1.500 uomini). Peccato! Non mi sembra che a Bagdad il compito di addestrare le FA irachene sia completato né che ad Erbil si possa abbassare già la guardia! Non capisco perché, se proprio l’aritmetica deve tornare, non si vadano a rivedere i nostri impegni militari in Kosovo (missione KFOR, più di 500 militari) o i pattugliatori che navigano al largo del Sinai (Multinational Force of Observers –MFO-circa 80 marinai)!

Ma non si vorrà mica andare a cancellare missioni che ormai sono di tutto riposo, senza rischio e che consentono di elargire benefit economici al personale (soprattutto sotto elezione)! Quindi, vada per la riduzione in Iraq.

Tra l’altro, ridurre il contingente in Iraq anziché quello della MFO al largo delle pericolosissime acque di Sharm el Sheik può essere gradito sia a pacifisti vari e sia al personale militare.

Se fosse una questione di numeri di soldati impegnati all’estero (ma non lo è) allora si potrebbe considerare che senso abbia continuare ad impegnare 900 uomini in Afghanistan (Operazione Resolute Support).
Non so chi possa ritenere tale operazione ancora funzionale alla sicurezza nazionale, dopo sedici anni dall’intervento (i primi soldati italiani vi si recarono a dicembre 2001). In Afghanistan mi pare che ci restiamo ancora solo perché ce lo chiedono gli USA. Legittimo?

Forse. Peraltro poi non siamo in grado di sfruttare a nostro favore tale impegno, perché ci inimichiamo Washington in mille modi (da ultimo con il voto alle Nazioni Unite con cui si condanna Washington in merito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele).

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Anche questo è perfettamente legittimo. Ma la politica di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte perché non sappiamo dove vogliamo arrivare non porterà certo vantaggi.

Inoltre, se, come viene detto, lo spostamento della gravitazione del nostro dispositivo all’estero verso l’Africa risponde agli “interessi nazionali italiani” non si capisce perché non sia avvenuto prima, dato che il “fronte sud” è da tempo percepito come estremamente vulnerabile. Analogamente, in tale ottica, non si comprende la nostra ritrosia ad un impegno militare serio in Libia, che finora non mi pare esserci stato.

Se il Niger è veramente una priorità strategica italiana, allora impegnarvi solo 470 uomini, di cui i primi 120 non prima di febbraio/marzo e i rimanenti non prima di giugno non mi sembra un grande sforzo! Ma tanto, mi si obietterà, che se ne inviino 100 o 2.000 i titoli sui giornali sono gli stessi e allora … perché sprecarsi?

Infine, viene ripetuto ossessivamente che l’intervento serve per “contare di più in Europa”.  Il ché significa che visto che non siamo in grado di esprimere una politica estera che sappia farsi valere in Europa (né altrove), tentiamo di compensare inviando soldati ovunque ce lo chiedano anche se non sappiamo a cosa serva. Tanto i soldati ubbidiscono!

Foto: AP, AFP e Ministero Difesa Francese

 

Antonio Li GobbiVedi tutti gli articoli

Nato nel '54 a Milano da una famiglia di tradizioni militari, entra nel '69 alla "Nunziatella" a Napoli. Ufficiale del genio guastatori ha partecipato a missioni ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul. E' stato Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI) e, in ambito NATO, Capo J3 (operazioni interforze) del Centro Operativo di SHAPE e Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Ha frequentato il Royal Military College of Science britannico e si è laureato con lode in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Trieste.

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