Quale politca europea per i Balcani Occidentali?

Nelle ultime settimane i Balcani sembrano tornati ad essere una delle aree di maggiore interesse per l’Unione Europea. Il 6 febbraio scorso Commissione ha adottato un documento di indirizzo strategico intitolato “Una prospettiva credibile di allargamento e un migliorato impegno dell’Unione Europea per i Balcani Occidentali” con il quale Bruxelles intende rilanciare il processo di espansione verso sud-est, ormai fermo da anni. Salutato con velata soddisfazione dai diretti interessati, il progetto ha il merito di evidenziare con relativa chiarezza gli ambiti su cui la UE ritiene che i candidati membri debbano lavorare, nonché di indicare delle tempistiche credibili per l’accesso all’Unione.

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Come si può leggere sul sito della Commissione e come ribadito più volte anche dallo stesso presidente Jean Claude Juncker, Serbia e Montenegro dovrebbero riuscire a raggiungere i prerequisiti richiesti entro il 2025, mentre dovrebbe essere più lento il processo per Albania e Macedonia e, soprattutto, Bosnia Erzegovina (BiH) e Kosovo.

Proprio l’aspetto delle scadenze è stato uno dei più discussi in questi anni in quanto tra i diretti interessati vi era, e vi è in qualche modo tutt’ora, la diffusa percezione che quello dell’ingresso nell’Unione Europa sia un traguardo costantemente spostato in avanti al fine di rimandare l’integrazione dei sei paesi balcanici a quando ci sarà finalmente un reale accordo in seno alla UE per procedere a questo nuovo allargamento e l’Unione si sarà ripresa dal contraccolpo rappresentato dalla Brexit.

Al di là di quanto scritto sopra, comunque, resta irrisolto il problema dell’assenza di una posizione europea comune sui principali temi che, ad oggi, ostacolano l’euro-integrazione dei Balcani occidentali e, precisamente: il futuro della Bosnia Erzegovina, i rapporti fra Serbia e Kosovo e la denominazione della FYROM (Macedonia).

Sebbene venga dato largo spazio “all’iniziativa per supportare la riconciliazione e le relazioni di buon vicinato”, a causa della differenza di vedute fra gli stessi Stati membri, Bruxelles non riesce ad avanzare delle proposte concrete e risolutive o, per lo meno, a dare delle linee di indirizzo chiare che permettano di superare l’impasse in cui si trova la regione.

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Nonostante gli sforzi profusi sin dal periodo della guerra civile, ad esempio, il contributo europeo alla stabilizzazione della BiH non è ancora stato sufficiente a rendere funzionale il paese.

La distanza tra le diverse “etnie titolari”, infatti, anziché ridursi nel corso degli anni sembra essersi addirittura accresciuta, in parte a causa dell’influenza dei diversi attori interessati ad aumentare il proprio peso sui singoli gruppi nazionali, in parte a causa delle diverse posizioni su temi cruciali per il futuro dello Stato.

In aggiunta a ciò, ad oggi mancano ancora delle risposte chiare a tre grandi interrogativi politici: la predominanza della comunità musulmana in termini di popolazione (mal digerita da ortodossi e cattolici), la volontà di ciò che resta della componente croata di ottenere una propria entità territoriale autonoma (aspetto direttamente collegato al punto precedente) e la costante insofferenza dei serbi per la permanenza in uno Stato in cui non si sono mai riconosciuti.

Il secondo macro-tema su cui sarebbe fondamentale che la UE trovasse una voce comune è quello dei rapporti fra Serbia e Kosovo. Ad oggi infatti non è assolutamente chiaro cosa significhi la frase standard ripetuta da Juncker, Mogherini e Hahn, ossia che “Belgrado deve risolvere le proprie questioni con Pristina”.

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Anche in questo caso, l’ambiguità di fondo dipende sia dall’impossibilità di trovare il consensum degli stati membri (Slovacchia, Romania, Grecia e, soprattutto, Spagna e Cipro non riconoscono il Kosovo), nonché dalla oggettiva difficoltà di chiedere ai serbi di fare un sacrificio che, ad oggi, sarebbe unilaterale.

Pristina del resto non si è resa parte fino in fondo diligente in quanto sa di poter rispedire al mittente buona parte delle richieste che le vengono fatte grazie al supporto incondizionato dell’Albania e ad una discreta protezione da parte degli USA. Ecco perché, sarebbe opportuno ricorrere al realismo e approfondire l’ipotesi, già avanzata negli ultimi anni da diversi esperti, di trovare una soluzione di compromesso che contempli la possibilità di far ritornare alcune zone sotto l’amministrazione serba in cambio del riconoscimento, da parte di quest’ultima, dell’indipendenza kosovara.

Tale soluzione, per quanto spinosa e chiaramente rischiosa (non è da escludere un effetto domino), potrebbe però permettere di risolvere uno dei principali autogol compiuti dalla politica balcanica degli anni ’90 e 2000, quella per intendersi basata più sulla punizione della Serbia che sull’adozione di strategie di largo respiro.

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Il terzo e ultimo aspetto su cui l’Europa dovrebbe fare più attenzione è quello della querelle fra Grecia e FYROM circa il nome di quest’ultima. Da quando si è insediato il Governo del filo occidentale Zoran Zaev si sono ripetute le voci di un possibile negoziato fra Skopje e Atene, facilitato anche dal fatto che l’esecutivo macedone è sostenuto dai partiti albanofoni, meno interessati alla disputa. Il risultato più immediato di ciò sono state numerose manifestazioni, da entrambe le parti del confine, contro qualsiasi forma di accordo.

L’opposizione popolare, dipinta in alcuni casi in toni farseschi, non è però frutto di una forma di militanza anacronistica dei due popoli, ma la dimostrazione che il tema va a toccare la stessa storia e identità delle parti in gioco. Ecco perché, senza la capacità di mettersi nei panni di chi si sta spingendo a fare un accordo a qualsiasi costo, si rischia solamente di ottenere un risultato che scontenti tutti.

Infine se l’Europa vuole realmente rafforzare il proprio fianco sud, deve necessariamente sviluppare anche un progetto solido volto al contenimento dei principali competitors attivi nell’area. A differenza di quanto sostenuto da molti, la minaccia principale non è rappresentata dalla Russia (osservata speciale per la Ue e “nemico” per Usa e Nato), ma dalla crescente penetrazione nei Balcani di attori ben più combattivi e concorrenziali alla Ue come la Turchia, i regni del Golfo Persico e la Cina.

Foto: AFP, Reuters, K-FOR, EPP e Fox News

 

Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.

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