Sfide geoeconomiche

A inizio anni ’90, la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS vennero celebrati da molti politologi come l’avvio di una nuova epoca di collaborazione internazionale. Il tempo ha purtroppo disatteso le aspettative ottimistiche di coloro che vedevano nel nuovo millennio un’era di pace: la fine della guerra fredda, lungi dall’aver portato alla fine dei conflitti, ne ha piuttosto sancito la riallocazione dalla sfera politica a quella economica. Il presente saggio, sulla base degli schemi analitici elaborati dagli studiosi raccolti attorno all’École de guerre économique, fornisce una lettura circa l’attuale competizione fra gli Stati mettendo in luce soprattutto il ruolo che hanno oggi le strategie comunicative. Prefazione di Carlo Jean. Introduzione di Arduino Paniccia.
Giuseppe Gagliano si è laureato in Filosofia presso l’Università Statale di Milano. Attualmente è Presidente Cestudec (Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis) ha collaborato con la “Rivista Marittima”, “Notizie Geopolitiche”,”Rivista aereonautica” la Società italiana di Storia militare, il Cenegri (Brasile),il Centre Français de Recherche sur le Renseignement,il Sage International australiano,il Terrorism Research §Analysis Consortium americano e l’ International Journal of Science ,Geopolitica.ro(Romania). E’ autore di numerosi saggi -fra i quali- Guerra psicologica,disinformazione e movimenti sociali ,Aracne,2012,Nicolas Moinet ,Intelligence economica (a cura di Gagliano Giuseppe),Fuoco,2012 Problemi e prospettive della ecologia radicale e dell’ecoterrorismo,Aracne,2012,Guerra economica e intelligence Fuoco,2013,La Geoeconomia nel pensiero strategico contemporaneo,Fuoco,2015 ,Stato,potenza e guerra economica Fuoco,2016; Guerre et intelligence économique dans la pensée de Christian Harbulot,Va Press,2016; Desinformation,desobeissance civile et guerre cognitive,Va Press,2017;Sfide geoeconomiche,Fuoco,2017; Les racines des totalitarismes communistes, de la dictature jacobine au gnosticisme marxiste,Va Press,2018.

 

Sfide Geoeconomiche

di Giuseppe Gagliano

Editore: Fuoco Edizioni

Collana: Incroci

Data di Pubblicazione: maggio 2018

EAN: 9788899301569

ISBN: 8899301565

Pagine: 314

Formato: brossura

Euro 15

 

 

INTRODUZIONE

L’École de Guerre Économique (EGE) nasce in Francia, nell’ormai lontano 1997, su raccomandazione della Commission Intelligence Economique et Stratégie des Entreprises, presieduta da Henri Martre, manager legato al mondo dell’industria aerospaziale francese, in seno al cosiddetto Commissariat Général au Plan (CGP), l’istituzione governativa fondata nel 1946 per la pianifcazione economica francese, dal 2006 Centre d’analyse stratégique (CAS). Il principale fautore della EGE è il generale Jean Pichot˗Duclos, ideatore dell’agenzia di intelligence economica Intelco.

Al suo fanco Christian Harbulot, primo vero stratega della guerra economica. La riflessione della Ecole de guerre économique è molto interessante, perché costituisce un’alternativa, accademicamente impeccabile dal punto di vista metodologico e scientifco e perciò assolutamente non assimilabile a certe tesi cosiddette “cospirazioniste”, alla narrazione mainstream della mondializzazione a guida americana e a tutte le riflessioni politologiche e giuridiche sulla global governance.

Come ha scritto molto lucidamente Henry Kissinger, anche se non pensano di confrontarsi militarmente, anche se cooperano quotidianamente in decine di organizzazioni internazionali, gli Stati rimangono tra loro profondamente antagonisti. Edward Luttwak ha più tardi introdotto il concetto di “economia da combattimento”, poi ripreso e defnito compiutamente dalla EGE. Per meglio inquadrare il pensiero e le riflessioni della Scuola di guerra economica francese, è opportuno compiere un breve excursus storico sulla genesi del sistema globale odierno.

Di fronte a due guerre mondiali scatenate dalla volontà germanica di dominare l’intera Europa, gli Stati Uniti, costretti loro malgrado ad intervenire,

decisero nel 1945 di dare vita ad un nuovo sistema di governance globale, attraverso una serie di istituzioni internazionali, che fosse in grado di evitare ulteriori conflitti. Usciti dalla guerra come la maggior potenza economica e la sola dotata di armamento nucleare, agli USA spettava essere i garanti della pace, con la collaborazione di altre potenze regionali (Regno Unito, Francia,Unione Sovietica, Cina), mentre gli altri Stati sarebbero stati smilitarizzati.

Roosevelt riconobbe nella autarchia e nel protezionismo, a seguito della grande crisi del 1929, la causa prima della guerra e si adoperò quindi per un mondo liberoscambista, creato tuttavia ad immagine e somiglianza degli Stati Uniti, il cui principale scopo avrebbe dovuto essere quello di deviare all’estero l’enorme surplus commerciale e fnanziario americano, che altrimenti avrebbe potuto generare una nuova grande crisi.

A Bretton Woods, il disegno americano riuscì nel suo primo obiettivo, quello di smantellare l’area della sterlina e di fare del dollaro la moneta mondiale, ma non nel secondo, quello di legare al sistema l’Unione Sovietica, che invece per ragioni ideologiche e geopolitiche scelse un suo percorso autonomo. Da qui il “bipolarismo” e la Guerra Fredda.Il crollo del muro di Berlino è stato per tutti coloro che l’hanno vissuto un momento di liberazione: per decenni gli europei erano vissuti all’ombra del possibile confronto nucleare, anche perché l’URSS sfruttò sempre la pressione militare sull’Europa Occidentale come mezzo di pressione politica

sugli USA. Ma già allora agli osservatori più attenti era possibile capire che le armi atomiche erano effcaci proprio in quanto non venivano usate (la strategia, diceva Sun Tzu, è la via del paradosso) e che il conflitto tra i due blocchi si combatteva con ben altri mezzi: guerre per procura, spionaggio, disinformazione.

Con il crollo dell’URSS, gli Stati Uniti intravvidero la possibilità di tornare al loro piano iniziale del 1945, un mondo interconnesso dove essi sarebbero stati la potenza economica e politica di riferimento, dirigendo un processo di mondializzazione basato sul loro modello politico, economico e sociale, considerato il migliore possibile secondo l’idea, intimamente radicata nella cultura politica USA, del Manifest Destiny. Non solo non potevano esservi “vie al socialismo”, ma nemmeno “vie al capitalismo” che non fossero quella americana.

Si apriva così il “ventennio unipolare”, nel quale gli Stati Uniti, ora divenuti “iperpotenza”, detenevano il monopolio dell’hard power con la loro capacità di intervento militare a livello globale. Né la Russia né la Cina si trovavano in condizione di opporvisi: la prima era nel caos dopo il crollo del socialismo reale, e la seconda aveva da troppo poco tempo imboccato la strada che la avrebbe portata ad essere il colosso economico che è oggi: la fabbrica del mondo.

Il portavoce intellettuale di questa nuova era è stato sicuramente Francis Fukuyama, politologo legato agli ambienti della RAND, con la sua idea di “fne della storia”: la democrazia capitalistica occidentale come forma defnitiva del governo del mondo e culmine dello sviluppo sociale e culturale dell’umanità. Ironicamente, chi aveva parlato in precedenza di una “fne della

storia” come culmine dello sviluppo sociale e culturale dell’umanità era stato Karl Marx riguardo il comunismo.

Fukuyama pensava ad uno scenario di pace perpetua dove il libero scambio delle merci e dei capitali avrebbe unito il mondo sotto l’egida del modello universale della democrazia capitalistica. La globalizzazione a guida statunitense avrebbe portato ad un’integrazione sempre più stretta dei players economici dei vari paesi sempre meno legati ad un territorio di riferimento,

e ad una drastica riduzione del ruolo dello Stato, in accordo con la vecchia teoria liberale dello “Stato minimo”. Si iniziava così a parlare di “Stato post˗Westfaliano”, non più monopolista delle relazioni internazionali, ma attore tra altri attori, come le imprese transnazionali e le organizzazioni non governative. Paradossalmente, Fukuyama pubblicò questo suo articolo in una famosa rivista intitolata The National Interest.

Negli anni Ottanta e Novanta il neoliberismo imperante considerò lo Stato esclusivamente come un ostacolo allo sviluppo economico, alla globalizzazione fnanziaria, alla transnazionalizzazione delle imprese e all’intensifcazione degli scambi internazionali.

Sempre nei Novanta, l’Unione Europea fu concepita e salutata come la prima entità politica “post˗westfaliana” del nuovo millennio globalizzato, centrata su una moneta unica gestita da una banca centrale privata.

Ma gli Stati Uniti in realtà sono rimasti sempre fedeli al loro “interesse nazionale”, del quale il nuovo ordine mondiale doveva essere un’emanazione. Iniziarono anzi a parlare di sè stessi come di “nazione indispensabile” per questo ordine mondiale. Ma anche altri Paesi non avevano alcuna intenzione di cedere sovranità alla nuova global governance, a partire dai grandi Stati eurasiatici – Russia, Cina, India – e dall’Islam politico.

Fukuyama fu messo rapidamente da parte dopo l’11 settembre 2001, mentre emergevano Samuel Hutington e lo “scontro di civiltà”: non era detto che la cultura mondiale liberale ed anglofona avrebbe naturalmente vinto,

anzi, le millenarie culture tradizionali avrebbero reagito anche violentemente a questa pretesa occidentale di universalità.

La risposta della cultura politica neo˗con americana fu semplice: far accettare il Manifest Destiny a colpi di hard power. La strategia della “guerra al terrore” era ambiziosa: costruire artifcialmente uno stato democratico flo˗occidentale in Iraq (che sostituisse la poco fidata Arabia Saudita) e che premesse sull’Iran, accerchiato anche ad est dalla presenza occidentale in Afghanistan. Presenza che da una parte avrebbe dovuto influenzareble repubbliche centroasiatiche ex˗sovietiche e dall’altra avrebbe dovuto

convincere l’India della sua “alleanza naturale” con gli Stati Uniti, isolando il Pakistan, la cui connivenza con Al˗Qaeda era facilmente identifcabile. Il risultato di questa “frontiera avanzata” fu nei fatti disastroso.

Altrettanto fatale la crisi dell’agosto 2007: il mercato fnanziario non si autoregolò e la mancanza delle vecchie norme legislative, abolite nel nome del liberismo, fece sì che la crisi fnanziaria investisse in modo catastrofco l’economia reale. La grande fnanza chiese immediatamente il soccorso degli Stati, fno al giorno prima considerati dall’ideologia economica dominante il male assoluto, ed essi hanno salvato (e continuano a salvare) le banche con

i soldi dei contribuenti. Questo tentativo, riuscito, di scaricare sulla società civile i costi della crisi attraverso il denaro pubblico, insieme ai molti altri fattori connaturati alla globalizzazione, ha eroso la capacità di acquisto delle popolazioni occidentali, provocando una sempre maggiore competizione allo scopo di accaparrarsi mercati sempre meno ricettivi.

La visione irenica di un liberoscambismo basato su una cavalleresca competizione delle aziende sulla base della qualità del prodotto e della convenienza del prezzo, ha lasciato il campo alla dura realtà di una nuova tendenza neomercantilista basata sulla competizione economica tra gli Stati, senza esclusione di colpi anche profondamente sleali. Di fronte alla crisi di domanda causata dalla crisi economica, soprattutto in Europa, i mercati sono diventati una risorsa da accaparrarsi con ogni mezzo, lecito o illecito. Non è perciò un caso che le contraddizioni dell’Unione Europea siano esplose proprio con la crisi.

A questo punto è facile prevedere che in futuro le guerre economiche siano destinate ad intensifcarsi: il rallentamento dell’innovazione, la penuria di materie prime, la stagnazione del risparmio, le delocalizzazioni, l’esplosione delle ineguaglianze, l’accelerazione della fnanziarizzazione delle economie, le migrazioni di massa, porteranno a nuovi scenari di grave e ripetuta conflittualità.

È svanito per sempre il sogno presentato per tutti gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso dalla scuola economica prevalente negli Stati Uniti, quello dell’economia di mercato svincolata e autonoma rispetto gli Stati e naturalmente autoregolantesi (la “mano invisibile” di ricardiana memoria) fonte di benessere universale, che avrebbe portato alla creazione di un villaggio globale i cui abitanti sarebbero stati consumatori apolidi di prodotti transnazionali.

In verità, gli Stati Uniti non hanno mai rinunciato al carattere nazionale della loro economia. Se gli americani sono sempre stati contrari all’intervento diretto dello Stato nell’economia, hanno pur visto in esso il principale difensore del loro National Interest, che gli permette di favorire lo sviluppo delle proprie imprese tramite la costruzione di un ambiente giuridico, fscale e infrastrutturale adeguato in patria, e di una rete di appoggio all’estero. Il contrasto con l’ideologia del laissez˗faire e dello “stato minimo”, portate avanti a livello teorico, non potrebbe essere più stridente.

Anzi, proprio negli anni Novanta gli USA hanno fondato la attuale superiorità sul loro complesso militare˗industriale, sul dollaro come moneta degli scambi internazionali e sulle nuove tecnologie informatiche, mescolando abilmente retorica liberista e pratiche mercantiliste a seconda degli interessi in gioco.

Nonostante l’enorme defcit del saldo delle partite correnti, Washington è comunque scrupolosamente attenta alla protezione di alcuni ambiti produttivi strategici, primi tra tutti quelli legati all’aerospaziale, alla difesa e al software.

Certo, il fenomeno della “dedollarizzazione” del commercio mondiale, di cui si parla da qualche anno, ad opera del blocco eurasiatico che si è coagulato attorno all’asse Russia˗Cina, resta un grave pericolo per gli Stati Uniti (per ora in embrione) poiché renderebbe insostenibile l’immenso debito pubblico

(ad oggi quasi 20 miliardi di USD) e li costringerebbe a riposizionarsi in modo drastico.

Ma la manipolazione della moneta, considerata in Italia un peccato mortale, è invece una pratica utilizzata spesso e volentieri dai grandi players economici, che negli anni scorsi hanno scatenato vere e proprie guerre valutarie. La svalutazione è un potente mezzo di stimolo alle esportazioni in periodo di recessione, basti pensare alla politica della Bank of England fra il 2008 e il 2009 in favore della sterlina nei confronti dell’euro. I paesi export˗led hanno la necessità di tenere artifcialmente bassa la propria moneta, che altrimenti schizzerebbe: la Cina tiene da anni basso il valore dello yuan; il Giappone ha svalutato anch’esso lo yen e, in quanto alla Germania, vive di rendita grazie all’euro, che le garantisce una “svalutazione competitiva” strutturale.

La moneta fa sia da scudo, diminuendo la competitività dell’avversario, sia da spada, perché favorisce la penetrazione nei mercati esteri. Si tratta di realtà ben note, ma che vengono sistematicamente ignorate dalla narrazione corrente sulle cause della crisi italiana.

L’esistenza di aziende “multinazionali” non modifca il quadro geo˗economico proposto dalla EGE. Si capisce subito qual è il paese di origine delle grandi multinazionali, lo stesso paese che esse appoggiano e dal quale vengono appoggiate. Le cosiddette “multinazionali” sono molto più nazionali di quello che sembrerebbe a prima vista. I vari stati, nella loro politica economica, cercano di promuovere aziende leader in particolari settori strategici: basti pensare, nell’aerospaziale, alla Boeing e alla Lockheed˗Martin americane, ma anche alla stessa Francia con Dassault, Airbus ed Arianespace. Gli Stati Uniti sono sempre stati consapevoli che lo Stato può farsi carico di compiti che le imprese, legate ad una logica di proftto immediato, non possono assumere. Si citano a tal proposito DARPA,

la “madre” di Internet e le mosse riguardo la vendita di sistemi e armamenti dei primi mesi di presidenza Trump. Gli Stati assumono però sempre più ruoli ambivalenti di partner/ concorrente e sempre meno quelli di alleato/avversario. Si pensi, ad esempio,

alla complessità del rapporto Cina˗USA: rivali nell’Africa subsahariana, dove si affrontano in una guerra per le risorse naturali senza esclusione di colpi, ma reciprocamente dipendenti a causa dei buoni del Tesoro americano posseduti dalle banche cinesi, senza dimenticare i consistenti investimenti diretti americani in Cina.

A Pechino interessano essenzialmente i due classici obiettivi della politica economica all’estero: l’accesso alle materie prime e il posizionamento nei mercati. La presenza cinese in Africa è diventata talmente opprimente che in molti Stati africani si verifcano sempre più forti segnali di rivolta rispetto questa pervasiva invasione economico˗fnanziaria. Riguardo l’Europa, è noto il progetto della “Nuova Via della Seta”,

una serie di grandi arterie terrestri e marittime per far affluire nel nostro continente le merci cinesi. La cosa che merita comunque di essere notata è che, alle faraoniche e farraginose organizzazioni internazionali tanto care agli occidentali, i cinesi preferiscono i rapporti bilaterali tra Stati, oppure operare attraverso le nuove organizzazioni internazionali da essi promosse o guidate,

come la Banca di sviluppo multilaterale dei Paesi BRICS e la AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank). La battaglia prosegue dai territori alla rete. Non è diffcile rendersi conto che il World Wide Web non è universale, ma intimamente statunitense. Il Web è un modo potentissimo per veicolare nel mondo la lingua e la cultura

anglosassoni. Gli informatici sono sottoposti ad un vero e proprio social learning, che fa considerare loro naturale il fatto che il settore dove lavorano sia monopolizzato da colossi privati americani. I più geniali tra loro, poi, potranno lavorare negli Stati Uniti. L’immigrazione di lusso, considerata dal politically correct segno di accoglienza e di democraticità, è in verità un sistema per rafforzare la propria “economia della conoscenza” e indebolire quella degli altri paesi.

La quasi totalità dell’informatica popolare (Apple, Microsoft, Google/

Android) è monopolizzata dagli Stati Uniti: l’hardware è prodotto in Asia (Cina, Taiwan, ecc.), ma il software è rigorosamente statunitense. Le attuali norme internazionali nel campo delle comunicazioni e dell’elettronica sono americane o perfettamente modellate sulla base delle esigenze delle imprese americane, che hanno imposto la propria governance e le proprie regole in quasi tutti i settori delle scienze informatiche (si veda il caso eclatante di Internet è diventato il maggior campo di battaglia per la guerra informativa:

i casi di Anonymous e WikiLeaks sono solo la punta dell’iceberg. In questo ambito, il fatto che tutti i principali motori di ricerca, Google in testa, e tutti i grandi social networks, come Twitter e Facebook, siano americani dà agli Stati Uniti un potere globale enorme. È noto che queste aziende collaborano con l’NSA e gli altri servizi d’informazione americani, pertanto non è un caso che Russia e Cina stiano cercando di sostituire Windows con sistemi operativi nazionali basati sul sistema open˗source Linux, e che soprattutto la Cina utilizzi social networks autoctoni. La spiegazione americana è che questo sia dovuto al carattere dittatoriale dei regimi cinese e russo, ma si tratta di una spiegazione a dir poco superfciale.

Quindi si parla molto di cyberwarfare, ed a ragione. Nel 2010 fu identifcato Stuxnet, un malware “militare” avente lo scopo di danneggiare le centrifughe iraniane per l’arricchimento dell’uranio, di provenienza Siemens.

Nel 2013 “DragonFly”, un gruppo di hacker russi, è riuscito a penetrare nei computer di diverse centrali elettriche occidentali, tra cui centrali nucleari, anche americane. Gli attacchi degli hacker avvengono ormai quotidianamente su scala globale con accuse reciproche e colpiscono sia entità pubbliche che aziende private, anche di modeste dimensioni e perfno gli ospedali.

Così la EGE è nata come progetto destinato soprattutto allo sviluppo dell’intelligence economica. L’esempio da seguire è sempre quello degli Stati Uniti, che dopo la caduta del Muro di Berlino hanno riconvertito la CIA proprio su questo fronte. Una migliore conoscenza dell’ambiente in cui ci si trova ad operare e dei concorrenti da battere è indispensabile per potersi assicurare commesse importanti all’estero e meglio posizionarsi nei mercati.

I nuovi equilibri che si stabiliscono tra concorrenza e cooperazione fanno sì che le strategie industriali ormai poggino essenzialmente sulle attitudini delle imprese ad accedere alle notizie strategiche e riservate, per anticipare le strategie dei concorrenti, le loro tattiche e le mosse future.

La nuova frontiera dell’intelligence è comunque certamente quella che gli americani chiamano “information warfare” ed i francesi “guerra cognitiva”.

Come scrive Gagliano, quest’ultima fa parte della più ampia nozione di guerra economica, ossia una forma di rapporti di forza non prettamente militare.

John Arquilla e David Rundfeldt, esperti RAND della guerra in rete (netwar), hanno affermato che non sarà chi ha la bomba più grossa a prevalere nei conflitti di domani, ma chi racconterà la storia migliore. In quest’ottica, fn dal 1997 gli americani hanno iniziato a parlare di “information dominance”.

La disinformazione opera attraverso la deformazione dei messaggi informativi: fatti autentici vengono presentati in modo da alterarne il signifcato. Il fne è quello di sfruttare le percezioni e i pregiudizi del target per falsarne le opinioni e perciò condurlo a prendere decisioni che danneggiano i suoi stessi interessi.

Se la disinformazione ha lo scopo di impedire che il target abbia una visione del mondo adeguata e veritiera, la propaganda ha invece lo scopo di infondere una visione del mondo eterodiretta. Fondamentali in questo ambito sono le organizzazioni preposte agli scambi culturali. Lungi dal diventare quella forma di “privatizzazione” delle relazioni

internazionali che, aggirando la ragion di stato, avrebbe dovuto portare ad un nuovo avvenire di pace, solidarietà e prosperità, le ONG si sono spesso rivelate per gli Stati ottimi “contractors” a cui delegare azioni di vario genere, tra cui la propaganda. Un esempio di queste è, secondo gli studiosi francesi, la National Endowment for Democracy (NED, Fondo Nazionale per la Democrazia), organizzazione privata non˗proft avente lo scopo di diffondere il modello politico statunitense all’estero.

Anche la Cina è attentissima alla propria immagine all’estero, soprattutto tramite gli “Istituti Confucio”, dipendenti direttamente dal Ministero dell’Istruzione di Pechino, che hanno lo scopo di diffondere la lingua e la cultura cinesi, ma sono allo stesso tempo considerati centri di intelligence, anche economica, nei Paesi ospitanti. La guerra informativa sta invadendo qualsiasi campo della vita occidentale, dalla politica (i famosi spin doctors) all’economia (basti pensare a quante risorse sono spese dalle grandi aziende per gestire le “crisi” del loro brand sui social network), alla grande informazione che è diventata negli ultimi anni sempre più omologata e manipolativa, utilizzando tecniche che puntano alla reazione emotiva piuttosto che alla riflessione razionale.

L’accostamento superficiale e specioso di determinate idee o gruppi ad altri, di cui sia generalmente condivisa la negatività oppure la non credibilità (come la vasta galassia “complottista”) è un vecchio mezzo di lotta politica ridiventato di grande attualità nei mass media. La stessa campagna contro le fake news, in sé correttissima, può diventare un comodo mezzo per mettere a tacere notizie autentiche, ma che non corrispondono alla narrazione in voga.

Il danno più grave dato dalla guerra informativa illimitata è quello patito dalla società civile, che viene sempre più manipolata. Senza una corretta informazione non può esistere democrazia. La guerra informativa sta provocando un’entropia culturale di narrazioni e contronarrazioni, tutte parziali, che rende i cittadini sempre più spaesati e sempre meno in grado di partecipare alla vita sociale della propria nazione, non essendo più capaci di discernere ciò che è vero da ciò che non lo è.

Insomma se un tempo l’informazione veniva occultata, ora viene soprattutto manipolata o, per dirla alla Sun Tzu, “trasformata”. L’idea cardine dell’EGE è che la Francia, dopo aver vissuto secoli di splendore, ha iniziato un penoso declino da grande potenza a media potenza, che non si potrà arrestare se non si passerà ad un deciso “patriottismo economico”. La causa è identifcata nella dittatura culturale e linguistica anglosassone. L’inglese da lingua di emigranti è diventata la lingua dei manager e il francese, che per secoli era stata la lingua veicolare delle élites europee, non è più utilizzata, soppiantata perfno dal tedesco.

Un osservatore esterno potrebbe invero pensare che la Francia non sia affatto in condizioni così pessime, che non possa considerarsi una indifesa vittima della globalizzazione, ma un vero e proprio attore di quest’ultima. In verità, il Paese transalpino ha una serie di ottime carte da giocare: è potenza nucleare, è membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è da secoli presente in Africa. Ha un suo complesso militare˗industriale che, anche se non raggiunge le dimensioni di quello statunitense, è comunque di tutto rispetto.

Non è un caso che oggi per i tedeschi la collaborazione della Francia sia l’unica strategia vitale. Si ha così l’asse Berlino˗Parigi, dove i tedeschi contribuiscono con la potenza economica e i francesi con la potenza politica.

Germania e Francia si sentono, senza nemmeno farne troppo mistero, i padroni dell’Eurozona, ed infatti non si preoccupano molto, quando questi vanno contro il loro interesse, dei vincoli europei. La risposta da parte inglese è stata la famosa Brexit, che al di là delle favellazioni mediatiche, altro non è che la riproposizione della vecchia strategia churchilliana del “Gran Largo”. Alla Gran Bretagna conviene rinsaldare i rapporti economici con l’Anglosfera, della quale è la progenitrice, piuttosto che puntare su un continente avviluppato in una spirale di contraddizioni, dalle quali non è capace di uscire e dominato da due avversari.

L’approccio assolutamente anticonformista dell’EGE porta ad alcune considerazioni molto importanti per quanto riguarda la guerra economica e le sue conseguenze. La coopetition mette in crisi la classica dicotomia “amico˗nemico” così genialmente descritta da Clausewitz, però fa risplendere la sua grande intuizione secondo cui l’obiettivo della guerra, di qualsiasi genere essa sia, non è tanto di annichilire l’avversario, quanto di piegarlo alla propria volontà.

Per concludere, la guerra economica è soprattutto, come il conflitto tradizionale, uno scontro tra Stati nazionali. Le imprese, sia pure grandi, giocano un ruolo subordinato. L’evoluzione dei rapporti post guerra fredda, scrive Gagliano nel suo saggio, e le alleanze non più solo militari consentono oggi di non sentirsi vincolati per sempre ai propri partner, ma invece considerarli perfno e, quando occorre, dei concorrenti ed agire così di conseguenza.

Gagliano, prendendo le mosse dal noto concetto Clausewiziano di “duello15 di volontà” afferma che “nel mondo post bipolare, il mondo dominato da più potenze, non è lo scacchiere dove due giocatori (i duellanti) muovono di volta in volta le loro pedine, ma è su scacchiere sovrapposte e nell’ambito di partite diverse, eppure assolutamente legate le une alle altre”.

Così vivremo in un mondo governato da un multipolarismo a tre blocchi con una preponderanza asiatica, quello che nel saggio “Trasformare il futuro” è stato defnito “la Triade: Usa Russia Cina” mentre tutti gli altri, Europa compresa, afferma profeticamente Gagliano, sono sempre più vicini ad un nuovo, ipotetico “Terzo Mondo”.Per chi, come molti di noi, non è ancora rassegnato a questo fnale, resta come antidoto la interessante e assai istruttiva lettura del brillante saggio di Giuseppe Gagliano.

Arduino Paniccia

 

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