Siria: il rebus delle armi chimiche

da Il Mattino del 13 aprile

Nessun osservatore neutrale ha potuto finora raggiungere Douma, dove i miliziani salafiti filo sauditi di Jaysh al-Islam hanno denunciato un attacco chimico da parte delle forze di Damasco. L’area è già sotto il controllo degli uomini di Bashar Assad dopo che i ribelli hanno accettato di consegnare le armi pesanti e di venire evacuati in altre zone sotto il controllo degli insorti ma finora solo militari e reporter siriani e russi hanno raggiunto Douma, riferendo di non aver trovato prove di tale attacco né civili che ne fossero stati colpiti o avessero informazioni in proposito.

In queste ore dovrebbero giungere sul posto i team dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Nonostante l’assenza di riscontri oggettivi sul terreno o comunque resi pubblici il 12 aprile il presidente francese Emmanuel Macron ha detto di avere “le prove che armi chimiche, quanto meno cloro, sono state utilizzate dal governo di Bashar Assad” aggiungendo che la Francia vuole “togliere la possibilità di utilizzare armi chimiche” al regime siriano

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La stessa convinzione riscontrata in ambito Ue dove Maja Kocijancic, portavoce della Commissione europea, ha dichiarato che “in base ai nostri rapporti la maggior parte delle prove indicano che siano state usate armi chimiche” mentre, 24 ore prima del blitz missilistico anglo-franco-americano,  anche il cancelliere tedesco Angela Merkel riteneva  “evidente che la distruzione delle armi chimiche siriane non è stata completa”.

Damasco ha posseduto per decenni un ampio arsenale di armi chimiche comprendenti molti tipi di aggressivi, dai più rudimentali yprite e fosgene fino ai più letali nervini tipo Sarin e VX. Armi concepite come deterrente nei confronti delle testate nucleari di Israele ma che il regime siriano ha sempre negato di aver impiegato durante la guerra civile.

Come arma di rappresaglia contro i civili l’impiego più massiccio di armi chimiche ai giorni nostri risale al 1988 quando i jet di Saddam Hussein uccisero in pochi munti circa 6mila curdi nella cittadina di Halabja.

Sui campi di battaglia l’impiego più recente su vasta scala si registrò invece durante la guerra Iran-Irak (1980-88) mentre nel conflitto in Siria e Iraq degli ultimi anni l’utilizzo è stato sporadico e di tipo tattico, solitamente con l’obiettivo di impedire al nemico di avanzare o per indurlo ad abbandonare postazioni o centri urbani.

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La discussa strage di Ghouta, nell’agosto 2013, denunciata dai ribelli jihadisti e in cui morì un numero imprecisato di persone (stime variabili tra 280 a1.700) rischiò di provocare un intervento armato di Usa, Francia e Gran Bretagna. In quel caso le Nazioni Unite accertarono l’impiego di gas Sarin ma non fu possibile attribuirne la responsabilità.

L’ipotesi che non si trattasse del gas in dotazione all’esercito siriano sembrò suffragata dalle immagini (ricorrenti anche nelle successive denunce di attacchi chimici) di soccorritori privi degli indumenti necessari a sopravvivere in ambienti contaminati dalle armi di distruzione di massa.

Cinque anni or sono Mosca riuscì a scongiurare l’intervento militare degli Usa e dei loro alleati impegnando Damasco a consegnare i suoi arsenali chimici (tutti?) che vennero portati fuori tutti dal paese, come certificò l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimich, per essere smaltiti in alcuni centri specializzati in Europa e a bordo di una nave americana specificatamente allestita nel Mediterraneo.

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L’ipotesi che la strage di Ghouta fosse una montatura o provocata dagli insorti per addossarne la colpa a Damasco è risultata credibile. Nel novembre 2015 il deputato del Partito popolare repubblicano turco Eren Erdem, rivelò che la strage era stata effettuata dai ribelli qaedisti che avrebbero ricevuto il materiale per produrre il gas dalla Turchia. Erdem mostrò in Parlamento il fascicolo aperto dalla procura di Adana, poi archiviato, accusando il governo di Ankara di aver insabbiato il caso.

Da quanto è emerso alcune milizie salafite hanno avuto a disposizione aggressivi chimici e precursori, cioè gli elementi che miscelati da tecnici esperti permettono di disporre di armi letali.

Inchieste giornalistiche hanno evidenziato come cloro e precursori sarebbero stati forniti a diverse milizie ribelli, mentre in alcune interviste comandanti salafiti ammisero di avere la possibilità di produrre agenti nervini in laboratori artigianali grazie al supporto di Riad e anche della Turchia secondo quanto riferito nel 2015 dal Dipartimento per la non proliferazione delle armi di distruzione di massa del ministero degli Esteri russo.

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Il conflitto siriano ha visto quindi l’impiego soprattutto di sostanze chimiche a elevata concentrazione, come il cloro che evapora in tempi rapidi, più che di vere e proprie armi chimiche.

I governativi sono stati accusati più volte di aver lanciato dagli elicotteri barili esplosivi pieni di cloro per sloggiare i ribelli da alcune aree urbane (come sarebbe avvenuto la scorsa settimana a Douma) ma anche molte milizie hanno impiegato armi simili in diversi contesti.

Jaysh al Islam ha colpito col cloro i curdi nell’aprile 2016 mentre cinque mesi dopo i caccia americani individuarono e distrussero vicino a Mosul, nell’Iraq settentrionale in mano al Califfato un’ex impianto farmaceutico in cui i jihadisti producevano armi chimiche a base di cloro e gas mostarda, che ebbe il battesimo del fuoco nelle trincee francesi durante la Prima guerra mondiale.

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Non è chiaro se l’Isis avesse recuperato materiale chimico idoneo all’uso bellico in depositi segreti appartenuti alle forze di Saddam Hussein (molti combattenti del Califfato erano ex militari del raìs) o se i prodotti chimici venissero reperiti in Turchia, dove lo Stato Islamico vendeva il petrolio estratto dai pozzi occupati in Iraq e Siria.

Di certo tra le diverse milizie jihadiste che hanno utilizzato aggressivi chimici (inclusi i qaedisti del Fronte al-Nusra), l’Isis è quella che le ha impiegate su scala più vasta e sul campo di battaglia, come hanno denunciato i peshmerga curdi iracheni e come confermò, dopo la cattura da parte delle forze speciali americane, Suleiman Daoud al-Afari, il responsabile del programma dell’Isis per la produzione del gas mostarda.

L’intelligence statunitense rivelò che lo Stato Islamico non era in grado di sviluppare armi chimiche più evolute come il gas nervino ma è evidente che aggressivi chimici, pur se rudimentali ma in mano a tutti i contendenti, possano costituire anche una formidabile arma di propaganda per accusare gli avversari di crimini di guerra.

@GianandreaGaian

Foto: US DoD, Reuters, Stato Islamico e AP

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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