La radicalizzazione islamica nelle carceri europee

Mentre l’Europa non smette di piangere le vittime del terrorismo islamico, allo stesso tempo trascura l’emergenza della radicalizzazione islamica nelle carceri del Vecchio Continente. Neanche l’ultima aggressione al grido di “Allahu Akbar”, a Liegi, ha smosso i sistemi di giustizia che dovrebbero essere lo strumento per contenere i terroristi poiché è proprio nelle carceri – oltre che nelle moschee e sui social media – che l’islam s’infiltra nei cuori e nelle menti di individui permeabili.

Le antenne già erano state rizzate tempo addietro, quando nel 2014 un rapporto del Daily Caller con l’allora direttore dell’FBI Robert Mueller denunciò al comitato del Senato l’emergenza carceri per la radicalizzazione in Occidente. Provando così a scoperchiare un vaso di Pandora in realtà già ben noto e dovutamente ignorato: è la galera il nuovo terreno fertile per i jihadisti che indottrinato e reclutano altri detenuti al progetto politico dell’islam. E se negli Usa le cose iniziano a cambiare, è in Europa che la situazione è quanto mai tragica.

 

Il disastro delle carceri francesi

Le carceri francesi sono in subbuglio da tempo e a inizio 2018 gli agenti della polizia penitenziaria hanno vissuto, per circa due mesi, uno dei momenti peggiori tanto da scioperare per le continue aggressioni che erano costretti a subire da islamici reclusi per reati di terrorismo. Detenuti che al grido di “Allahu Akbar” minacciavano muniti di coltelli gli altri reclusi e continue aggressioni agli agenti stessi hanno contraddistinto l’inizio dell’anno.

A prison guard walks at the Fresnes prison in Fresnes on January 11, 2018. / AFP / STEPHANE DE SAKUTIN

Eppure era tutto fin troppo prevedibile. Nel 2015 un rapporto ufficiale sulle carceri del senatore francese Jean-René Lecerf citava uno studio secondo il quale in quattro dei più grandi penitenziari francesi, oltre il 50 per cento dei detenuti è musulmano.

Secondo il ministero della Giustizia, erano già 500 i musulmani detenuti per reati legati al terrorismo e altri 1200 erano i criminali identificati come islamici radicali. E se la popolazione carceraria dietro le sbarre viene abbandonata a se stessa, che gli agenti di custodia diventino le prime vittime di quella stessa violenza per la quale quei soggetti hanno conosciuto la galera non è che uno scontato effetto collaterale.

E che il passo successivo sarebbero stati i civili – vedi Liegi – non era un azzardo di qualche malpensate. Entro il 2020 poi il 60 per cento dei jihadisti detenuti nelle carceri uscirà di prigione.

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Già entro qualche mese di 50 terroristi e 400 pericolosi radicalizzati che avranno scontato la loro pena torneranno a piede libero. Un’inchiesta del giornale “Le Parisien” rivela che a tutt’oggi sono 510 i detenuti in Francia condannati per fatti legati al terrorismo, ai quali si devono aggiungere i 1.200 detenuti per reati comuni che risultano “radicalizzati”.

Buona parte dei 50 che saranno liberati a breve termine non hanno commesso veri e propri atti di terrorismo ma sono risultati legati a filiere di reclutamento per la jihad in Siria o in Iraq o sono stati individuati come fiancheggiatori.

Ma se i veri dati della radicalizzazione dietro le sbarre sfuggono, gli infiniti segnali che hanno decretato anche il fallimento del programma di de-radicalizzazione dei jihadisti, fiore all’occhiello del nuovo governo francese, non sono passati invece inosservati. Le conclusioni iniziali della commissione parlamentare d’inchiesta già a gennaio 2017 chiedevano di aggiornare urgentemente i piani di de-radicalizzazione visto il naufragare di ogni buon proposito.

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Il piano ha investito 40 milioni di euro nella costruzione di 13 centri per la de-radicalizzazione dei jihadisti sul suolo francese: uno in ogni area metropolitana della Francia. L’emergenza è tale che il progetto voluto dal governo aveva tentato di isolare ben 3.600 individui per due anni in modo che il pericolo di radicalizzare i colleghi detenuti venisse evitato. Ma il ministro della Giustizia, Jean-Jacques Urvoas, ha ammesso poco più tardi che ospitarli in carceri separate li ha resi anche più violenti.

Il rapporto ha inoltre denunciato, come accaduto già per l’accoglienza degli immigrati illegali, la creazione di un “business” anche per la de-radicalizzaione: associazioni e organizzazioni non governative – prive di qualunque esperienza in materia – si sono aggiudicate lucrosi appalti pubblici per sanare la piaga nazionale. “Diverse associazioni, in cerca di finanziamenti pubblici si sono orientate senza reale esperienza verso il settore della de-radicalizzazione”, ha ammesso la senatrice Benbassa.

Propaganda jihadista nelle carceri britanniche

A svelare come avvenga la radicalizzazione dietro le sbarre sono invece le notizie che arrivano dalla Gran Bretagna, ove la minaccia è forse ancor più grave che in Francia.

Anjem Choudary, uno dei più famosi esponenti del mondo islamico nel Regno Unito, per oltre vent’anni ha cercato in tutti i modi di promuovere i movimenti islamici più radicali, annunciando tranquillamente, “se mi arrestano e mi mettono in prigione, proseguirò in prigione, radicalizzerò là”. Una promessa che poi ha mantenuto continuando quanto già iniziato da altri.

Whitemoor Prison in Cambridgeshire houses Britains most dangerous prisoners. It is one of the most secure prisons in the country holding many inmates convicted of terrorism offences. Whitemoor has a disproportionately large population Muslim population. 19.09.08

La normale prigione è l’ultimo posto dove dovrebbero essere inviati tutti coloro che hanno affiliazioni terroristiche e radicali. Nell’aprile 2016, una revisione ordinata dal ministero della Giustizia di Michael Gove rivelò il materiale estremista era stato trovato in oltre dieci carceri nel solo novembre 2015.

Fu il Telegraph a pubblicare estratti del rapporto in cui si leggeva che “la letteratura sull’istinto islamico estremista è disponibile sugli scaffali delle prigioni britanniche e distribuita ai detenuti dai cappellani musulmani”. Le librerie degli imam che lavorano in prigione sono, infatti, riempite da opuscoli misogini e che approvano l’uccisione di apostati.

L’esistenza di frange radicali tra i cappellani islamici autorizzati a entrare nelle prigioni britanniche e impegnati a reclutare nuovi adepti nel progetto politico dell’islam, non sorprese più di tanto. Gli innumerevoli collegamenti con le organizzazioni radicali come Hizb ut Tahir, Jamaat-e Islami, Al-Hikma Media e molti altri erano stati denunciati già nel 2009 dalla Quilliam Foundation in un rapporto dal titolo “Unlocking al-Qaeda”, che tra le altre cose metteva in evidenza proprio gli stretti legami con al-Qaeda identificati tra cappellani musulmani e detenuti.

Nel rapporto veniva chiesta la rimozione di tutti i libri, giornali, opuscoli e trasmissioni televisive volti all’islamizzazione e alla radicalizzazione. Eppure, veniva chiesto di farlo con estrema cautela, visto e considerato che la qual cosa avrebbe messo una certa “fame” ai prigionieri che, già altamente alfabetizzati e pienamente consapevoli di ogni cosa, non avrebbero voluto esser privati del loro pane quotidiano.

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Quasi dieci anni più tardi i rapporti del governo rivelano che la famosa “letteratura radicale” è tranquillamente a disposizione dei detenuti. E dietro le sbarre ai detenuti viene proposto l’islam politico come “nuovo inizio”, come estensione del modus vivendi che li aveva portati al carcere, capace, però, di cambiare ancor più drammaticamente la destinazione e lo scopo dei loro gesti.

Nel momento in cui si avvicinano per la prima volta al nuovo credo, da perfetti neofiti, iniziano infatti a seguire pedissequamente le regole dell’islam. Aiutati dalla letteratura messa loro a disposizione e dalla convivenza con individui già islamici fino al midollo e che fungono da modelli esistenziali, le carceri inglesi sfornano i terroristi di domani.

Coadiuvati, inoltre, da quella correttezza politica che “permette all’estremismo di prosperare perché le guardie hanno troppa paura di affrontare i musulmani”, come denunciava ancora nel 2016 Peter Dominiczak, sul Telegraph, e citando un rapporto redatto dall’ex governatore della prigione, Ian Acheson, per il Ministero della Giustizia britannico.

Acheson, nel 2016, avvertiva che il personale di supervisione veniva – e da allora nulla è cambiato – “spinto” a lasciare le sale di preghiera in nome di una libertà di culto e di espressione alla quale lo staff carcerario non poteva sottrarsi, temendo lo stigma sociale del razzismo.

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Il rapporto concludeva, poi, che la “sensibilità culturale” nei confronti dei prigionieri musulmani “si estendeva oltre i requisiti di base dell’osservanza della fede, e poteva inibire ogni tentativo di smorzare le opinioni estremiste”.

Il rapporto aveva provato a mettere in guardia, inoltre, sul fatto che “i prigionieri estremisti islamici carismatici agiscono come ‘emiri’ sedicenti e esercitano un’influenza radicalizzante nella più ampia popolazione carceraria”. Segregazione volontaria e incoraggiamento a “conversioni aggressive”, l’ovvia conseguenza.

Secondo la BBC, i detenuti musulmani rappresentavano già nel 2015 il 14,4% della popolazione carceraria del regno rispetto al 7,7% nel 2002. Nei dieci anni tra il 2004 e il 2014, il numero di musulmani nelle carceri è passato da 6.571 a 12.106.

La prima reazione delle autorità inglesi rispetto a simili percentuali di islamici in carcere fu dare fiducia agli imam: saranno loro a offrire un aspetto dell’islam più “morbido”, sostenevano. O sono forse loro parte del problema?

Il 12 maggio la BBC ha trasmesso un’indagine sulla radicalizzazione dei detenuti. Il documentario ha mandato in onda anche interviste a ex detenuti come Michael Coe, che “è andato in prigione come un gangster e l’ha lasciata come Mikaeel Ibrahim, convertito all’Islam”.

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Coe, nel reportage, attribuisce la sua conversione alla sua amicizia in prigione con il terrorista di al-Qaeda Dhiren Barot, incarcerato a vita da un tribunale britannico nel 2004 per aver complottato diversi attentati terroristici con bombole a gas.

Ma a fare compagnia in carcere al signor Coe c’era, per esempio, anche Mizanur Raham, arrestato nel 2007 con l’accusa di “aizzare all’omicidio” la folla durante una manifestazione contro i vignettisti danesi in cui chiedeva “un altro 11 settembre in Danimarca, e poi in Spagna, in Francia … in tutta Europa”. “O Allah”, continuava, “distruggili tutti. Non vogliamo vederli a Baghdad e in Iraq mai più. Vogliamo vederli tornare a casa come cadaveri nei sacchi, vogliamo vedere il loro sangue scorrere a Fallujah”.

Il rapporto della BBC faceva notare poi che i terroristi britannici come Richard Reid – passato alla storia come “l uomo delle scarpe bomba”, Jermaine Grant e Abdul Muah, si erano tutti radicalizzati in prigione.

Secondo Ahtsham Ali, il consigliere musulmano per il servizio carcerario, “203 cappellani musulmani sono stati assunti dal servizio carcerario nel 2009”. Mentre un documento del Ministero della Giustizia del 2013 denunciava oltre 80 imam che a tempo pieno predicavano dietro le sbarre. Oggi sono molti di più.

 

Le migliori menti del jihad

Ma quel che va detto con più forza è che dietro l’islamizzazione d’Europa e allo scopo di radicalizzare i criminali in carcere non lavorano degli sprovveduti. Se l’accademica britannica Sophhie Gilliat-Ray denunciava come in Gran Bretagna venissero spediti i soggetti migliori usciti dai seminari Deobandi, movimento indiano wahhabita noto per controllare le più eccellenti scuole giuridiche per imam e centri di formazione religiosi islamici di tutto mondo, il Times nel 2007 riportava l’importante diffusione del movimento Deobandi in Gran Bretagna.

“Quasi la metà delle moschee britanniche è sotto il controllo di una setta islamica il cui principale predicatore odia i valori occidentali e ha invitato i musulmani avspargere sangue per Allah”, si leggeva sulle pagine del Times undici anni fa. E, ancora, veniva riportato che il movimento Deobandi, definito dal giornale come “ultra-conservatore” e che ha dato i natali alle migliori menti talebane, allora gestiva più di 600 delle 1.350 moschee britanniche. Su quante siano oggi, nessun rapporto della polizia ci viene in aiuto.

 

In Germania il jihad cresce nelle carceri

In Germania a febbraio di quest’anno l’Ufficio federale di polizia criminale (BKA) lanciò lo stesso allarme di Francia e Inghilterra: sarebbero circa 150 i detenuti considerati tra i più pericolosi islamici nelle carceri tedesche secondo i dati ufficiali.

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Al Die Welt il ministro della Giustizia tedesco annunciava, da un lato un’imminente “ondata di estremisti nelle nostre carceri”, e dall’altro puntava il dito contro l’enorme numero di islamici già inquilini delle carceri: un numero tale da rappresentate “una delle più grandi sfide del Paese nella lotta alla de-radicalizzazione e prevenzione”.

A dicembre, le autorità tedesche ammettevano di aver avviato indagini antiterroristiche nelle prigioni in un numero cinque volte superiore a quello dell’anno precedente e l’80 per cento di esse aveva una connessione con l’islam.

Sempre il Die Welt ha citato l’associazione degli agenti penitenziari tedeschi, che temono per la loro incolumità. E che da tempo si limitano al minimo indispensabile, nei loro turni di lavoro, dopo l’episodio del detenuto islamico che aveva aggredito con le forbici le guardie cui era stato affidato, riducendole in condizioni gravissime.

Le porte del carcere presto si apriranno per ognuno dei jihadisti e per quanti hanno indottrinato dietro le sbarre. Cosa succederà in Europa da qui a un paio d’anni?

Foto: Re3uters,  The Counter Jihad Report, AFP, Islamic Sunrays.com, Getty Images, AP

 

Lorenza FormicolaVedi tutti gli articoli

Giornalista nata a Napoli nel 1992, si occupa di politica estera, in particolare britannica, americana e francese ma è soprattutto analista del mondo arabo-islamico. Scrive per Formiche, La Nuova Bussola Quotidiana, il Giornale e One Peter Five.

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