Meglio non avere tabù nella politica estera e di difesa

da Il Mattino/Il Messaggero del 10 giugno 2018

Dal summit Nato al G7 in Canada il governo Conte sembra muovere i primi passi nel delicato settore della difesa e sicurezza esprimendo una continuità di massima con il precedente esecutivo che solo l’aspro dibattito politico sembra impedire di cogliere.

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Il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha ribadito a Bruxelles la volontà di onorare gli impegni chiedendo alla Nato una maggiore attenzione al “Fronte Sud” che vede l’Italia pressata da terrorismo e immigrazione.

Si tratta delle stesse richieste formulate negli ultimi anni dal ministro PD Robetta Pinotti che mesi or sono aveva incassato dalla Nato il via libera alla costituzione, a Napoli, di un “hub” per le attività d’intelligence (la cui realizzazione è in ritardo) e alla cooperazione navale nel contrasto ai trafficanti di esseri umani.

Su quest’ultimo punto resta difficile immaginare un ruolo per una flotta Nato nelle acque di fronte alla Libia, dove già operano due dispositivi navali italiani e due della Ue. Non mancano le navi ma una chiara volontà politica, che dovrà essere essenzialmente italiana, di consegnare i migranti illegali soccorsi in mare alle autorità libiche e alle agenzie dell’Onu per il rimpatrio e di aiutare militarmente Tripoli a combattere le organizzazioni criminali che gestiscono i flussi.

Anche la “svolta” dell’Italia verso missioni volte a presidiare il “giardino di casa” è frutto delle iniziative del precedente governo che a gennaio varò l’invio di consiglieri militari in Libia, altri in Tunisia in ambito Nato e di un contingente di istruttori in Niger.

L’attuale esecutivo dovrà semmai gestire il sostanziale fallimento di quell’iniziativa. Tunisi ha sospeso la richiesta di aiuti per costituire un comando antiterrorismo mentre in Libia l’ostilità turca sembra celarsi dietro la richiesta delle milizie di Misurata (vicine al movimento dei Fratelli Musulmani sostenuto da Turchia e Qatar) di trasferire altrove l’ospedale militare italiano dislocato da un anno e mezzo all’aeroporto della città.

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Senza contare l’imbarazzante situazione dei 42 militari italiani presenti in Niger per una missione che il governo dello Stato africano, con la complicità di Parigi, rifiuta di autorizzare.

Persino l’ipotesi di ritirare le truppe italiane dall’Afghanistan, per ora “congelata”, non è del tutto un’esclusiva del governo giallo-verde ma venne dibattuta nella scorsa legislatura dove il parlamento approvò una riduzione delle forze a Herat a Kabul da 900 a 700 militari.

La revisione dei nostri impegni oltremare nell’ottica degli interessi nazionali non dovrebbe scandalizzare anche se alcuni osservatori hanno tirato in ballo il deficit di credibilità che colpirebbe l’Italia in caso di ritiro dall’Afghanistan

Dalla più lunga e schizofrenica guerra scatenata dagli Usa i francesi si ritirarono nel 2011 e i britannici da quattro anni vi schierano appena 400 militari ma non per questo Londra e Parigi hanno perso peso nella Nato.

“Per quel che abbiamo dato finora e vogliamo continuare a dare, ritengo sia arrivato il momento anche di ricevere” ha detto Trenta suscitando in Italia non poche critiche negli ambienti più marcatamente filo-atlantici.

Se è vero che durante la guerra fredda l’Italia è stata un “consumatore” di sicurezza prodotta dagli Usa, è però altrettanto certo che dal 1991 siamo diventati “produttori” di sicurezza e i militari italiani hanno fornito importanti contributo alla gestione delle crisi internazionali, incluse le guerre della Nato.

I controversi interventi bellici contro i serbi (1995 e 1999) e la Libia (2011), hanno visto una forte partecipazione italiana ma soprattutto non sarebbero stati possibili senza le basi aeree e navali della Penisola.

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Né si può evitare di notare che la destabilizzazione dei Balcani (profondamente penetrati dal jihadismo) e del Nordafrica/Sahel determinata da quegli interventi bellici viene pagata in misura rilevante proprio dall’Italia.

Sul “Fronte Russo” la tanto censurata proposta dall’attuale esecutivo di rivedere le sanzioni sembra voler imprimere nuova energia a un disegno di riavvicinamento a Mosca portato avanti dai due predecessori di Conte a Palazzo Chigi: Matteo Renzi nel gennaio 2016 ebbe un duro scontro con Angela Merkel e nove mesi dopo trovò molti alleati nella Ue per respingere la richiesta Usa di adottare nuove misure contro la Russia.

Discutere di rimuovere le sanzioni, come di ogni altro tema spinoso inerente gli interessi nazionali, non dovrebbe costituire un tabù per nessun governo italiano, specie mentre Berlino realizza con i russi il gasdotto Nord Stream sotto il Mar Baltico e Donald Trump apre al ritorno di Vladimir Putin nel G8.

@GianandreaGaian

Foto: Difesa.it, Ansa e AP

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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