Intervento in Siria: le opzioni militari

L’impiego di armi chimiche da parte dei governativi siriani nei sobborghi di Damasco non ha ancora avuto conferme ufficiali ma sembra aver dato il via al conto alla rovescia per un intervento internazionale contro il regime di Bashar Assad. I primi rilievi effettuati negli ospedali di Damasco da Medecins sans Frontieres riferiscono di circa 3.500 persone che presentavano “sintomi neurotossici”, di questi 355 sono morti c0me ha riportato la Bbc. MSF afferma inoltre che i pazienti sono giunti in tre ospedali del governatorato di Damasco il 21 agosto, il giorno in cui i ribelli hanno denunciato attacchi con armi chimiche da parte del regime ma resta inspiegabile il motivo per cui Assad abbia autorizzato l’uso di tali armi per uccidere poche centinaia di civili o oppositori. In realtà un suicidio politico che potrebbe scatenare un intervento internazionale attuato nel momento in cui i lealisti stanno vincendo la guerra o almeno non la stanno perdendo. Difficile comprendere il senso di una simile iniziativa anche tenendo conto del fatto che l’impiego di aggressivi chimici non ha comportato nessun vantaggio sul piano militare per il regime. Più che lecito quindi avere dubbi sulle responsabilità reali dell’attacco chimico così come è inevitabile evidenziare come gli oltre 100 mila morti uccisi da armi convenzionali in due anni e mezzo di guerra civile siriana non abbiano avuto lo stesso peso di poche centinaia di vittime delle armi chimiche nell’indurre Washington e la comunità internazionale a valutare concretamente un intervento armato.

I media statunitensi ipotizzano le diverse opzioni sul tavolo che potrebbero ispirarsi all’intervento di Clinton in Bill in Kosovo del 1999 (o a quello di George W. Bush in Iraq del 2003) coinvolgendo quindi la Nato o una robusta “coalition of the willing” per ovviare all’assenza di una risoluzione delle Nazioni Unite che autorizzi l’attacco a Damasco poiché al palazzo di Vetro Russia e Cina difenderebbero Assad con l’arma del veto. Nel week end Barack Obama ha riunito lo staff di consiglieri per la sicurezza nazionale e valutato le opzioni militari anche in base al rapporto del generale Martin Dempsey, capo degli stati maggiori riuniti, che si è finora sempre mostrato scettico di fronte all’ipotesi di un intervento armato in Siria paventandone i costi umani e finanziari, i rischi di allargamento a tutta la regione valutando che nell’attuale situazione vi sarebbero molte possibilità di aiutare gli estremisti islamici a prendere il potere. Il segretario alla Difesa, Chuck Hagel, ha lasciato intendere ieri che il Pentagono sta posizionando mezzi e uomini nel Mediterraneo in vista di un possibile intervento militare in Siria. Nei prossimi giorni si riuniranno in Giordania i capi di stato maggiori di diversi Paesi di Nato e Lega Araba coinvolti n ella crisi siriana. Secondo fonti di Amman questa riunione si svolge su invito del capo di stato maggiore giordano, generale Meshaal Mohamed el Zeben e del capo del Centcom, il comando americano responsabile di venti Paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale, il generale Lloyd Austin.

Un portavoce di Amman ha riferito che all’incontro parteciperanno anche i vertici militari di  Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Canada Arabia Saudita, Turchia e Qatar ma è probabile anche la presenza di Israele. La rapida convocazione dell’incontro (al quale parteciperà anche il capo di stato maggiore Difesa italiano, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli) lascia intendere che si discuterà di un eventuale intervento militare forse per raccogliere la disponibilità dei singoli Paesi a far parte di una coalizione simile a quella che due anni or sono mosse guerra alla Libia. La rapidità con la quale stanno riunendosi gli organismi consultivi per discutere di opzioni militari lascia intendere che qualcosa sta davvero muovendosi sul piano militare. Nei giorni scorsi soni entrati in azione nel sud i primi reparti di ribelli dell’Esercito Siriano Libero addestrati e armati in territorio giordano dai consiglieri militari statunitensi come ha raccontato Le Figaro. “Un primo gruppo di 300 uomini, senza dubbio sostenuto da israeliani e giordani così come da uomini della Cia, avrebbe attraversato la frontiera il 17 agosto e un secondo gruppo li avrebbe raggiunti due giorni dopo”– scrive il quotidiano francese. Superfluo sottolineare che un attacco alla Siria avrebbe effetti molto negativi sui rapporti con Mosca e Pechino. Per questo u attacco senza un mandato dell’Onu richiederebbe una robusta coalizione alle spalle degli Stati Uniti. Arabi, turchi, francesi e britannici sembrano pronti a mobilitarsi, la Germania è contraria (come fu contraria alle operazioni in Iraq nel 2003 e in Libia nel 2011) e l’Italia (per ora) sembra subordinare l’azione militare a una risoluzione dell’Onu in tal senso come ha detto oggi il ministro della Difesa, Mario Mauro. Se Washington decidesse di intervenire con le armi le opzioni disponibili sono almeno cinque.

– Maggiori aiuti ai ribelli
Un’altra opzione “morbida” è rappresentata da un forte incremento degli aiuti militari e dell’addestramento ai ribelli gestito direttamente dagli Stati Uniti e dagli alleati arabi e occidentali con l’aumento dei consiglieri militari dislocati in Turchia e Giordania il cui compito sarebbe anche di evitare che armi ed equipaggiamenti finiscano nelle mani di gruppi terroristici o estremisti islamici. Finora i Paesi europei hanno rinunciato a inviare armi ai rivoltosi dopo aver constatato che le milizie più forti e organizzate sono quelle qaediste e jihadiste.

– Raids limitati di rappresaglia
L’intervento militare a basso rischio e con un minimo coinvolgimento di forze militari è quello dei raids punitivi contro il regime siriano reo di aver utilizzato armi chimiche. Gli obiettivi sarebbero i centri di comando e controllo delle forze armate, i palazzi governativi, radar e postazioni della difesa aerea che verrebbero attaccati con missili da crociera Tomahawk lanciabili da sottomarini, incrociatori e cacciatorpediniere statunitensi. Fonti del Pentagono hanno rilevato l’arrivo nel Mediterraneo del cacciatorpediniere Mahan che porta a quattro le unità della Sesta Flotta in grado di lanciare un attacco missilistico. Un attacco di rappresaglia simile a quello attuato nel 1998 da Bill Clinton contro obiettivi in Sudan e Afghanistan per punire gli attentati di al-Qaeda contro le ambasciate degli Usa in Kenya e Tanzania.
Ai missili da crociera potrebbero aggiungersi incursioni aeree condotte da portaerei o da velivoli basati in Turchia, nel Qatar, in Giordania o nelle basi britanniche a Cipro, secondo indiscrezioni già utilizzate senza troppo clamore per ospitare i droni da sorveglianza che sorvolano regolarmente la Siria tenendo d’occhio anche i depositi di armi chimiche. I rischi di questa opzione limitata sono bassi in termini di perdite tra gli attaccanti ma difficilmente simili raids potranno indebolire significativamente le forze governative impegnate contro i ribelli. I raids statunitensi potrebbero inoltre determinare un forte incremento degli aiuti russi, cinesi e iraniani a Damasco, incluse le batterie di missili S-300 efficaci contro aerei e missili da crociera, che Mosca ha venduto ma non ancora consegnato ad Assad.

– No- Fly Zone
Un’opzione militare più energica e prolungata nel tempo è rappresentata dall’imposizione di una no fly zone giustificata a impedire alle forze di Assad di far volare aerei, elicotteri e missili, che sono anche i principali vettori delle armi chimiche. Un’operazione che garantirebbe non pochi vantaggi tattici ai ribelli che, privi di forze aeree, subiscono i raids dei Mig, e Sukhoi lealisti. Per gli Stati Uniti e gli alleati una no-fly zone simile a quella imposta alla Libia nel 2011 richiederebbe, per essere sostenibile nel tempo, almeno un centinaio di velivoli tra cacciabombardieri, tanker per il rifornimento in volo e aerei radar. Per imporla a Damasco però sarebbe necessario combattere una vera e propria guerra aerea tesa a spazzare via le forze aeree siriane che, a seconda delle fonti, disporrebbero ancora di 100/150 jet da combattimento operativi. Più le centinaia di batterie missilistiche antiaeree gestite anche con il supporto di consiglieri militari russi. Una guerra vera e propria che potrebbe comportare perdite tra gli aggressori (le forze siriane sono ben più potenti e addestrate di quelle libiche) con il rischio di rappresaglie di Damasco contro Israele e gli Stati arabi vicini effettuabili con l’impiego di un oltre un migliaio di missili balistici tipo Scud, Hwaesong, Iskander, Shahab e Zelzal di origine nordcoreana, russa e iraniana.

– No fly zone “implementata”
Come è accaduto in Libia la no-fly zone potrebbe venire implementata con un blocco navale e con l’impiego dei cacciabombardieri in incursioni di attacco al suolo contro le postazioni e i reparti governativi. Contro le truppe di Gheddafi questi raids, che diedero un supporto decisivo ai ribelli, vennero giustificati con la necessità di “proteggere i civili” dalle rappresaglie dei governativi. Di fatto i jet alleati spianerebbero la strada ai ribelli ma con un’elevata possibilità di colpire civili per errore. Per questo tale opzione richiederebbe non solo almeno 200 aerei ma anche la presenza a terra di un buon numero di militari alleati esperti nell’identificazione dei bersagli da segnalare ai jet.

– Invasione della Siria
Più che la guerra del Kosovo del 1999, l’opzione che prevede un intervento militare diretto sul territorio siriano ricorderebbe l’invasione dell’Iraq del 2003. In Kosovo furono infatti sufficienti 73 giorni di raids aerei della Nato per indurre i serbi alla resa. Ipotesi improbabile nel caso del regime siriano. Un’invasione della Siria è stata esclusa da Washington ed è fortemente scoraggiata dai vertici militari e sconsigliata in termini politici poiché Barack Obama non può certo coinvolgere per tempi prolungati ingenti truppe statunitensi in questo conflitto dopo aver ritirato le forze dall’Iraq e avviato il rientro di quelle basate in Afghanistan. L’incapacità degli insorti di vincere la guerra sul terreno apre però a possibili sviluppi alternativi all’impiego di ampie forze terrestri statunitensi. Statunitensi ed europei, restii a schierare forze convenzionali sul terreno, potrebbero offrire il supporto aereo, d’intelligence e unità di forze speciali o con compiti altamente specializzati mentre le truppe in appoggio ai ribelli verrebbero fornite da Turchia e Paesi arabi. Un’operazione complessa che richiederebbe però tempi lunghi di pianificazione. L’invasione terrestre potrebbe assicurare maggiore controllo nella fase successiva alla caduta del regime ma anche alimentare il terrorismo e la frammentazione del Paese come è accaduto in Iraq, tenuto conto anche dei divergenti interessi dei Paesi che appoggiano i ribelli.

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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