Trump mente sulla Siria e bluffa in Corea. L’ Europa prona lo plaude

Secondo l’ultimo rapporto rilasciato dalle Nazioni Unite, quello a Khan Shaykhun, nella provincia di Idlib, in Siria fu un attacco con armi convenzionali. La maggior parte delle vittime, molte delle quali bambini, non furono uccise da gas tossici. Secondo la commissione ONU, che sembra avere l’esigenza politica di non scontentare nessuno, “non è escluso che quel giorno raid aerei colpirono ospedali locali rilasciando anche gas sarin”.

Ipotesi però priva di conferme o di rilievi accertati e del resto non si può neppure escludere che dosi limitate di gas siano state diffuse nell’aria dai ribelli stessi per accusare il regime di Damasco che però non aveva alcun interesse a impiegare armi chimiche in quel contesto e per provocare un numero così limitato di vittime (meno di 100) per armi di distruzione di massa.

Il cratere della bomba a carica chimica mostrato dai ribelli per dimostrare le responsabilità delle forze aeree di Assad non è compatibile con quello provocato da un ordigno da almeno 117/250 chili ma più verosimilmente è stato provocato da un razzo campale da 122 millimetri dal peso di circa 45 chili e in dotazione anche ai ribelli, tra i quali milizie qaediste e salafite che dispongono da tempo di aggressivi chimici recuperati sul campo o forniti dall’intelligence saudita, come rivelò nel 2013 il comandante di una milizia salafita intervistato dalla RAI.

I russi sostennero inizialmente l’ipotesi che raid aerei siriani avessero colpito un deposito di armi chimiche dei ribelli liberando gas venefici. Ipotesi contestata da alcuni esperti che ricordano come il Sarin sia un gas binario i cui componenti vengono mantenuti separati, quindi non letali, fino al momento dell’impiego ma queste precauzioni valgono per le forze regolari non certo per i ribelli siriani e in ogni caso nulla sembra dimostrare l’impiego di Sarin a Khan Shaykhun.

I riscontri dell’ONU erano del resto prevedibili: a un osservatore “non tifoso” era sufficiente guardare le immagini delle supposte vittime del Sarin (diffuse dall’Idlib Media Center cioè dall’organo di propaganda controllato, come a suo tempo l’Aleppo Media Center, dai qaedisti dell’ex Fronte al-Nusra) per rendersi conto che era tutta una messa in scena.

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I morti non avevano le espressioni contratte di chi è colpito da quel tipo di aggressivo chimico né coloro che venivano presentati come sopravvissuti mostravano sintomi compatibili ma al contrario avevano espressioni e atteggiamenti fin troppo tranquilli. Inoltre, dettaglio non certo irrilevante, nessuno dei soccorritori (quei “caschi Bianchi” considerati da Mosca al servizio delle milizie qaediste) indossava gli equipaggiamenti protettivi necessari a operare in aree contaminate dal Sarin che passa attraverso la pelle.

Se il rapporto dell’Organization for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW, che ha gestito rimozione e smaltimento dell’arsenale chimico della Siria) aveva riferito l’impiego di “cloro” non di Sarin, quindi di un prodotto tossico facilmente ottenibile da tutte le forze in campo, il rapporto dell’ONU lascia aperti molti interrogativi circa l’affidabilità dei report di alcune ong internazionali (che sostennero immediatamente la versione fornita dall’Idlib Media Center dichiarando che tra le vittime erano stati riscontrati sintomi relativi all’uso di Sarin) ma soprattutto ridicolizza la posizione assunta da Donald Trump e l’iniziativa militare culminata con il lancio di 60 missili da crociera Tomahawk contro la base siriana di Shayrat come “rappresaglia” per l’impiego di armi chimiche e sull’onda emotiva della strage di bambini gasati da Assad.

Evidentemente Trump si è commosso molto meno per i bimbi iracheni uccisi dalle bombe dei suoi jet a Mosul Ovest a fine marzo o per i bimbi siriani (ma alauiti, appartenenti a una comunità filo-Assad) sterminati vicino ad Aleppo da un’autobomba delle milizie jihadiste, ormai a tutti gli effetti alleate degli Occidentali in quel conflitto. In entrambi i casi le vittime sono state maggiori che a Khan Shaykhun.

Il 18 aprile il portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konashenkov, aveva fatto niotare che  “a due settimane esatte” dal presunto attacco con armi chimiche al villaggio di Khan Shaykhun e attribuito dall’Occidente al regime di Damasco, “l’unica prova dell’uso di armi chimiche rimangono ancora i due filmati pubblicati dai Caschi Bianchi”.

“Finora non è stata identificata la zona d’impatto a Khan Shaykhun – continua il comunicato diffuso dal ministero – e da dove gli abitanti locali dovevano essere evacuati. Ne’ gli abitanti locali, ne’ gli pseudo-soccorritori hanno chiesto medicine, antidoti e decontaminanti”. A detta del portavoce, ancora non è stato spiegato come questi rappresentanti dei Caschi Bianchi, “senza maschere e tute speciali, abbiano potuto lavorare cosi’ tanto tempo nella zona contaminata rimanendo in vita”.

La brutta figura di Trump va abbinata a quella dei leader europei, appiattiti sulle posizioni USA senza neppure un dubbio o una critica. Accolto a Washington, il premier italiano Paolo Gentiloni giovedì si è sdraiato davanti a Trump (che in campagna elettorale aveva disprezzato senza nascondere il suo sostegno a Hillary Clinton) affermando che il raid Usa in Siria “motivato dall’uso armi chimiche, credo fosse la cosa giusta da fare”.

Dalla vicenda non ne esce bene neppure il Segretario alla Difesa, James Mattis, noto per l’ostilità nei confronti dell’Iran, alleato di ferro di Damasco. “Mad Dog” ha dichiarato ieri che “non ci sono dubbi” circa il fatto che la Siria dispone ancora di ingenti quantitativi di armi chimiche, in barba al disarmo mediato da Mosca nel 2013, senza però presentare nessuna prova in proposito.

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Nessun parola invece (né da Washington né dall’Europa) in tema di rispetto del diritto internazionale, circa l’illegalità del raid missilistico statunitense su Shayrat e le continue incursioni israeliane contro le forze di Assad, l’ultima verificatasi proprio ieri. A completare un quadro poco edificante circa la credibilità dell’Amministrazione Trump (e dei suoi alleati) contribuisce in modo rilevante  anche il bluff sulla “portaerei fantasma” USS Carl Vinson nella crisi coreana.

Certo i fans di Donald Trump (per lo più coloro che lo insultavano fino a due settimane or sono) la interpreteranno come un’abile operazione di inganno del nemico, mentre i suoi detrattori (per lo più suoi fans fino a dieci giorni or sono) la considereranno invece la conferma che il presidente statunitense è un “peracottaro”, come si direbbe a Roma.

Certo è che il bluff sulla “invincibile armada” mobilitata contro la Corea del Nord e incentrata sulla portaerei Vinson e il suo gruppo navale è quanto meno imbarazzante e viene giudicato con preoccupazione dagli alleati asiatici degli USA come racconta efficacemente un’analisi del quotidiano israeliano Haaretz.

Lo “strike Group” che la Casa Bianca aveva da giorni annunciato come pronto a colpire Pyongyang se il regime comunista avesse continuato nelle provocazioni con test atomici o missilistici si trova invece nelle acque indonesiane, oltre 5 mila chilometri più a sud, per partecipare a una esercitazione congiunta con la Marina australiana.

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Lo ha confermato anche il segretario alla Difesa, Jim Mattis ma solo dopo che a rendere evidente quanto clamoroso fosse il bluff aveva provveduto un fotografo della Marina che ha immortalato e postato sul sito internet della Us Navy la portaerei Vinson nel week-end di Pasqua nello Stretto della Sonda, tra le isole indonesiane di Giava e Sumatra.

Un funzionario, dietro garanzia di anonimato, ha assicurato mercoledì che “entro le prossime 24 ore” la portaerei comincerà la sua navigazione verso il Mar del Giappone dove dovrebbe arrivare tra il 25 e il 28 aprile.

La conferma che il gruppo navale americano ha fatto rotta verso la Penisola Coreana l’ha fornita l’agenzia sudcoreana Yonhap citando fonti militari di Seul ma il bluff era ormai palese.

La Casa Bianca, in evidente imbarazzo, non ha voluto commentare rinviando ogni domanda al Pentagono, forse perché qualcuno ha spiegato al presidente che la questione è ben più seria di una semplice bugia o dell’ennesima “sparata”.

L’aver dichiarato, mentendo, che la “invincibile armada” era pronta a difendere la Corea del Sud e gli altri alleati così come l’aver fatto trapelare l’indiscrezione che il fallito lancio missilistico nordcoreano poteva essere relativo a un vettore diretto contro la portaerei Vinson, non sono solo bugie ma azioni che inficiano il peso e la credibilità della deterrenza americana. Un elemento decisivo, la deterrenza, specie in un confronto con una potenza nucleare.

Cosa sarebbe accaduto se i nordcoreani avessero attaccato per primi i “cugini” del Sud senza che Washington disponesse realmente delle forze tanto sbandierate in modo minaccioso a contrasto di Pyongyang?

L’impressione che Trump bluffi sulla difesa degli alleati e sulle minacce alla Corea del Nord non aiuterà a disarmare le atomiche del regime né favorirà le pressioni cinesi per indurre Kim Jong-un a negoziare.

Negoziato che Washington non sembra neppure volere. Il vicepresidente Mike Pence ha infatti escluso giovedì trattative dirette, almeno per ora come via d’uscita alla crescente tensione tra i due Paesi.

“L’unica cosa che vogliamo sentir dire dalla Corea del Nord è che mettano fine e finalmente smantellino il loro programma di armi nucleari e missili balistici” ha detto Pence in un’intervista alla Cnn, sulla portaerei Ronald Reagan nella base navale di Yokosuka, in Giappone.

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Come l’Iran, anche la Corea del Nord potrebbe forse negoziare sul nucleare ma non sui missili balistici che consentono peraltro un’importante entrata finanziaria grazie all’export di armi e tecnologie. In ogni caso esprimere pretese senza aprire trattative non indurrà i nordcoreani a credere che gli americani facciano sul serio.

Inoltre la rinuncia a negoziati diretti con Pyongyang può essere interpretata solo con l’impressione che Washington intenda lasciare campo libero ai cinesi oppure che Trump non abbia intenzione di trattare seriamente con un nemico la cui esistenza giustifica almeno in parte il consistente aumento del bilancio del Pentagono (almeno 54 miliardi in più quest’anno su un bilancio già superiore ai 600 miliardi, cioè il 40% della spesa militare mondiale) voluto proprio dal presidente.

Anche la notizia che le forze americane nel Pacifico testeranno la loro capacità di abbattere i missili nordcoreani con i sistemi antimissile Patriot e Aegis (e presto con i Thaad) schierati in Corea, Giappone e sulle navi non aggiunge nulla di nuovo allo scenario di crisi, contribuisce a incrementare la tensione ma non offre alcuna via d’uscita dall’escalation della tensione.

Intanto le forze aeree cinesi hanno messo in “massima allerta” i caccia per essere pronti a rispondere a un’eventuale situazione critica in Corea del Nord.

The U.S. aircraft carrier USS Carl Vinson transits the Sunda Strait, Indonesia on April 15, 2017. Picture taken on April 15, 2017. Sean M. Castellano/Courtesy U.S. Navy/Handout via REUTERS ATTENTION EDITORS - THIS IMAGE WAS PROVIDED BY A THIRD PARTY. EDITORIAL USE ONLY. - RTS12V4B

Lo hanno riferito fonti militari americane alla Cnn, precisando che le ricognizioni americane stanno riscontrando un numero straordinario di aerei militari cinesi pronti ad essere operativi attraverso l’intensificazione delle operazioni di manutenzione.  Queste misure sono state adottate dai militari cinesi nell’ambito degli sforzi per “ridurre i tempi di reazione” in caso del precipitare della crisi in Corea del Nord, hanno aggiunto le fonti Usa.

Secondo i media russi anche Mosca starebbe spostando diversi equipaggiamenti militari pesanti lungo la breve striscia di confine- appena 17 chilometri – che la separa dalla Corea del Nord. Un video pubblicato sul sito di notizie di Khabarovsk DVHab.ru mostra un treno con anche sistemi missilistici terra-aria Tor che attraversa la città, presumibilmente diretto verso Vladivostok, a 160 chilometri dal confine. Il portavoce del Cremlino, Dmirty Peskov, ha preferito glissare sull’argomento limitandosi a ricordare che i movimenti militari all’interno dei confini nazionali non rappresentano una questione pubblica.

Foto: Idlib Media Center, Us Navy, Getty Images e Reuters

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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