BAGHDAD COME SAIGON?

Il tracollo delle forze irachene di fronte all’offensiva dei qaedisti dello Stato Islamico dell’Iraq e Sham (ISIS) sembra aver colto di sorpresa tutti quanti. Innanzitutto l’Amministrazione Obama come rivela oggi la stampa americana, ma anche l’intero Occidente e lo stesso governo iracheno guidato da Nouri al-Maliki. Eppure  il collasso delle forze militari e di polizia di Baghdad era in qualche modo annunciato fin dal gennaio scorso, quando centinaia di qaedisti entrati nel Paese dalla Siria presero il controllo della provincia di al-Anbar e dei centri di Fallujah, Ramadi e diversi altri. In cinque mesi Baghdad ha mobilitato 42 mila soldati senza riuscire a cacciare i nemici dalla provincia sunnita. La disastrosa prestazione offerta dalle truppe irachene, premonitrice della disfatta di questi ultimi giorni, venne ampiamente illustrata dal Washington Post ripreso in Italia dall’agenzia Adnkronos International che Analisi Difesa pubblicò il 9 maggio.

“Il governo ha fatto un grave errore nel non rinnovare l’accordo che avrebbe permesso ai soldati americani di restare nel paese dopo il 2011. Dieci anni fa la situazione era migliore perché almeno allora c’era un piano”. il governatore di Ramadi, Ahmed Khalaf al-Dulaimi, aveva fotografato così già più di un mese or sono la drammatica situazione militare. I rapporti segnalavano diserzioni di massa tra  militari e poliziotti, specie tra i sunniti che non avevano alcuna intenzione di combattere per un governo sciita che li discrimina e contro altri sunniti che godono del supporto di almeno una parte delle tribù del centro nord iracheno. I disertori sunniti vennero rimpiazzati da reclute sciite prive di addestramento e che non  hanno esitato a fuggire dopo i primi scontri contro gli esperti veterani dell’ISIS.

Per i coscritti sciiti, arruolatisi per intascare un buon stipendio, la guerra contro i qaedisti nelle regioni sunnite non ha molto senso perché si combatte lontano dalle loro case e per un territorio ostile agli sciiti. Se inseriamo questi elementi in un contesto che vede la leadership militare irachena dominata da clientelismo e corruzione (come l’intera amministrazione pubblica) il quadro è più completo specie se teniamo conto che i consiglieri militari americani che addestrarono le reclute alla contro-insurrezione fino al 2011 denunciarono più volte lo scarso spessore morale di generali impegnati più a “fare la cresta” su forniture e commesse che a guidare e addestrare i propri uomini. Anche i 24 miliardi di dollari in armi per lo più russe, americane e ucraine spesi da Baghdad in questi anni si sono rivelati ben poco efficaci.

I missili antiaerei Pantsir, i carri armati Abrams e T-72, gli elicotteri russi Mi-35 e Mi-28, quelli americani Apache che verranno forniti prossimamente insieme ai cacciabombardieri F-16 e agli aerei antiguerriglia AT-6 potranno forse consentire di sostenere un conflitto convenzionale se e quando le truppe irachene saranno addestrate a impiegarli ma certo non contribuiscono a fermare i qaedisti.

Chiaro quindi perché l’offensiva dell’ISIS ha ridicolizzato un esercito che sulla carta conta 270 mila uomini con quasi 500 tank, elicotteri e blindati. Intere brigate si sono ritirate senza combattere da Mosul, Kirkuk, Tikrit e Samarra abbandonando al nemico armi, munizioni e veicoli made in USA. In assenza di difese i qaedisti marciano verso Baghdad costringendo alla fuga persino i contractors americani che si occupano di gestione e manutenzione degli equipaggiamenti, evacuati dalla base aerea di Balad. Piani pronti a quanto sembra anche per evacuare la gigantesca ambasciata americana a Baghdad come avvenne per quella di Saigon nell’aprile 1975.
Senza i consiglieri americani l’esercito iracheno è da tre anni privo di addestramento, in particolare quello specifico anti-insurrezionale, e minato al suo interno dalla politica discriminatoria perseguita dal governo di Nouri al Maliki che ha distrutto ogni speranza di cementare un‘unità nazionale che pure era presente anche sotto il regime di Saddam Hussein.

Le debolezze dei governativi sono state attentamente valutate dai qaedisti il cui attacco è il frutto di un piano dettagliato passato quasi inosservato in Occidente e certo sottovalutato a Baghdad dove il governo già ad aprile aveva disposto la chiusura del famigerato carcere di Abu Ghraib, trasferendo altrove i 2.400 prigionieri, non per ragioni umanitarie ma a causa della forte presenza degli insorti nella zona, a meno di 40 chilometri da Baghdad.
Secondo i servizi segreti sauditi, ben informati su quanto accade in Iraq, migliaia di baathisti (i fans di Saddam Hussein) e miliziani sunniti iracheni affiancano i qaedisti. “L’ISIS ha una potenza stimata di non più di 1500-3000 combattenti, non può aver fatto tutto da sola” ha detto il principe saudita Turki al-Faisal, ex capo dell’intelligence di Riad, accusando il governo di al-Maliki di inettitudine. “La conclusione alla quale sono arrivato è che a questi numeri vanno aggiunte le milizie dei leader tribali dell’area, ma anche ex baathisti e altri gruppi attivi in questa zona dell’Iraq non da ieri, ma dall’occupazione americana dell’Iraq” nel 2003”.

Il panico nella “Saigon irachena”  è tale che ieri erano presenti in Parlamento appena un quarto dei deputati, insufficienti ad approvare la proclamazione dello stato d’emergenza nazionale. Del resto le uniche forze che sembrano oggi in grado di affrontare e fermare i jihadisti non sono certo irachene. In attesa di comprendere se Washington autorizzerà raid aerei in Iraq pare siano già arrivati a Baghdad due battaglioni di pasdaran iraniani, gli stessi reparti della Divisione al-Quds che hanno guidato la vittoriosa controffensiva delle forze siriane contro i ribelli. l generale Qassem Soleimani, comandante della divisione al-Quds, è stato visto a Baghdad dove pare stia organizzando una linea difensiva nell’area di Samarra dove potrebbero confluire anche le milizie scite (Hezbollah iracheni) dell’imam Moqtada al-Sadr reclutate nel sud del Paese o la grande mobilitazione degli sciti dell’appello di oggi de grande Ayatollah Ali al-Sistani, massima autorità religiosa sciita. Nel nord a fermare i qaedisti hanno provveduto per ora i “peshmerga” curdi, che hanno colto al volo l’opportunità di occupare l’area petrolifera e la città di Kirkuk da tempo rivendicata e disputata con Baghdad e abbandonata l’altro ieri dalle truppe irachene.

Se Baghdad non cadrà come Saigon nel 1975 o come cadrà probabilmente Kabul due o tre anni dopo il ritiro delle forze statunitensi lo si dovrà probabilmente solo a iraniani e curdi. Del resto dove gli statunitensi si sono ritirati prima di aver vinto la guerra i risultati sono stati gli stessi: in pochi anni il nemico ha avuto il sopravvento.
In Vietnam e Cambogia gli statunitensi si ritirarono nel 1972 senza aver sconfitto il nemico così che le forze locali guidate da governi inetti e corrotti sbandarono di fronte all’offensiva di primavera di vietcong, nordvietnamiti e khmer rossi. In Iraq gli Stati Uniti sono entrati nel 2003 mentendo forse sui legami tra Saddam Hussein e al-Qaeda ma non sulle armi di distruzione di massa del raìs che, nonostante la vulgata diffusa, vennero trasferite in Siria con aerei cargo e convogli pochi mesi prima dell’invasione anglo-americana. L’obiettivo di quella guerra era, nell’ottica dell’Amministrazione Bush, portare la democrazia nel Paese mediorientale dominato dal regime più abietto per farla germogliare e diffondere come antidoto al terrorismo in tutto il mondo arabo e islamico. Il ritiro americano del 2011 ha lasciato la guerra incompiuta con la democrazia irachena e le sue forze armate ancora troppo deboli e i qaedisti ancora troppo forti.

Oggi è meglio non farsi illusioni circa la ventilata disponibilità di Washington a intervenire in armi per aiutare Baghdad poiché l’Amministrazione Obama dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia all’Ucraina gioca ormai il ruolo di grande destabilizzatore. Molti analisti definiscono fallimentare la politica estera e di difesa di Barack Obama ma in realtà essa rappresenta un successo per una potenza globale che si avvia a diventare il principale produttore ed esportatore di energia.
Il caos in tutte le regioni petrolifere o attraversate da oleodotti e gasdotti sembra infatti rientrare negli interessi attuali degli USA che grazie a shale gas e shale oil non solo trarranno benefici dall’aumento dei prezzi energetici ma indurrà molti Paesi a comprare il loro prodotto, ora più caro del gas russo o del petrolio del Golfo ma che potrebbe presto diventare competitivo grazie a guerre e tensioni determinate dal conflitto allargato tra sciiti e sunniti. In questo contesto va visto il ritiro prematuro dall’Iraq e dall’Afghanistan, il tira e molla di Washington sulla crisi siriana e il nucleare iraniano, la “stupida” guerra di Libia e il supporto diretto americano alla “rivoluzione” in Ucraina.

Iniziative che stanno destabilizzando regioni di primaria necessità per gli approvvigionamenti energetici dei rivali economici di Washington: Cina, Russia, Europa, India e Giappone in testa. Non è un caso che Pechino, che assorbe buona parte del greggio iracheno e ne estrae una gran quantità con le sue società petrolifere, abbia offerto a Baghdad il massimo aiuto possibile.

Inutile quindi attendersi soluzioni americane alla crisi in Iraq che resterà sulle spalle dei Paesi vicini così come talebani e qaedisti afghani, dopo il ritiro statunitense e NATO, rappresenteranno un fardello per russi, cinesi, indiani e repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale. Le dichiarazioni ufficiali a Washington sembrano confermare il distacco degli Stati Uniti dalla crisi. “Alla fine, questo è un problema che devono risolvere il governo e le forze di sicurezza dell’Iraq” ha detto il portavoce del Pentagono, l’ammiraglio John F. Kirby mentre un funzionario anonimo ha riferito al Wall Street Journal che “la volontà della Casa Bianca di intervenire dipenderà da quanto lo Stato islamico sarà considerato una minaccia diretta alla sicurezza americana”. L’Europa intanto continua a dormire.

Foto: AP, Reuters, BBC, almasalah.com

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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