F-35: la rivincita dei “talebani”

La crisi nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa determinata dalle prime iniziative della presidenza di Donald Trump sta portando molti osservatori a mettere in dubbio l’alleanza transatlantica, fino a ieri intoccabile.
Guai a mettere in dubbio che gli interessi di noi italiani ed europei non coincidessero e anzi, fossero compromessi, da quelli statunitensi.
Da alcune settimane invece gli stessi fans dei destini comuni con gli USA (ma solo quelli di Biden e Obama?) sono i primi a mettere in dubbio non solo la solidità della NATO e dei rapporti con Washington, ma pure il rischio che i più moderni sistemi d’arma acquisiti negli Stati Uniti, F-35 in testa, si rivelino in realtà un punto di grande vulnerabilità della difesa europea.
Gli F-35 come cavalli di Troia
Molti esperti e osservatori hanno scoperto oggi che degli F-35 che quasi tutte le nazioni europee hanno acquisito, molti aspetti restano sotto stretto controllo statunitense, riducendo quindi la capacità operativa di impiegarli in contesti non condivisi con Washington.
Gli USA mantengono il controllo sul software, la logistica, la manutenzione fino alla possibilità di limitare l’uso operativo dei velivoli, come ha sottolineato Christophe Gomart, ex capo dell’intelligence militare francese e oggi eurodeputato del Partito Popolare Europeo (PPE).
Secondo Gomart gli F-35 europei non potrebbero operare senza il consenso del Pentagono. «Se gli Stati Uniti attaccassero la Groenlandia, nessun Paese europeo potrebbe far decollare i suoi F-35 per difenderla, perché questi jet sono dotati di un sistema di blocco che impedirebbe il volo se il piano di volo non fosse approvato dal Pentagono». Insomma, la Danimarca non potrebbe utilizzare i suoi F-35 comprati dagli americani per difendere la Groenlandia dagli Stati Uniti.
Stanno tutti scoprendo che gli F-35, da velivolo da combattimento di 5a generazione indispensabile per operare nei cieli finalmente integrati con gli alleati americani, sono diventati improvvisamente un fattore di dipendenza geopolitica dagli Stati Uniti che limiterebbe le capacità di intervento militare autonomo delle nazioni europee.
Intervistato da Le Point, Gomart ha ammonito che gli europei non possono impiegare i loro F-35 senza il consenso del Pentagono citando ad esempio la vulnerabilità di Germania e Polonia mentre la Francia, che non ha acquisito l’F-35 ma impiega il francesissimo Rafale, non soffrirebbe alcuna limitazione.
Gomart ha spiegato che nel 2014 l’Egitto acquisì i Rafale dopo che gli Stati Uniti si rifiutarono di consentire agli F-16 egiziani di effettuare attacchi in Libia.
Anche se non esistono conferme di un “kill switch” che consenta agli USA di disattivare i nostri F-35, alcuni esperti hanno evidenziato il rischio che esista la possibilità di compromettere software e sistema logistico del velivolo.
Certo il francese Gomart può avere molte buone ragioni per mettere in dubbio la “sovranità” che possono esprimere gli utilizzatori europei dell’F-35, rivale diretto sul mercato del francese Rafale. Il tema però è stato dibattuto nelle ultime settimane. Ieri il sito di Formiche titolava “E se Trump spegnesse la difesa in Europa?” citando un articolo del Financial Times piuttosto esplicito: “Can the US switch off Europe’s weapons?”
Sebbene non sia mai stata dimostrata l’esistenza del “kill switch”, Richard Aboulafia, amministratore delegato della società di consulenza AeroDynamic Advisory, ha affermato che “se si postula l’esistenza di qualcosa che può essere fatto con un po’ di codice software, esiste”.
Il “kill switch” potrebbe anche non avere importanza, perché gli aerei da combattimento avanzati e altre armi sofisticate, come i sistemi antimissile, i droni e gli aerei di allerta precoce, dipendono già dai pezzi di ricambio e dagli aggiornamenti software degli Stati Uniti.
Per Justin Bronk del centro studi britannico Royal United Services Institute (RUSI) “la maggior parte delle forze armate europee dipende fortemente dagli Stati Uniti per il supporto alle comunicazioni, per il supporto alla guerra elettronica e per il rifornimento di munizioni in qualsiasi conflitto serio”.
Sir Ben Wallace, ex ministro della Difesa britannico, ha detto a FT che, se fosse ancora in carica, la sua prima risposta sarebbe stata quella di commissionare “una valutazione delle nostre dipendenze e vulnerabilità tra i partner internazionali, compresi gli Stati Uniti”. Ciò consentirebbe di riflettere “se ci siano necessità di cambiamenti strategici”.
Sash Tusa, un analista aerospaziale e della difesa, “il problema con le attrezzature di difesa davvero sofisticate è che [hanno bisogno] di così tanto supporto da parte del fornitore, che se questo decide di smettere di supportarle, le attrezzature smettono di funzionare, se non istantaneamente, molto, molto rapidamente“.
Il problema non riguarda ovviamente solo gli F-35 e in Gran Bretagna coinvolge anche i missili balistici Trident imbarcati sui sottomarini (SSBN) della Royal Navy che costituiscono il deterrente nucleare di Londra. Nick Cunningham, analista di Agency Partners, ha affermato al Financial Times che i missili Trident rimangono un “punto critico di vulnerabilità per il Regno Unito”. Dato il ruolo che gli Stati Uniti svolgono nella manutenzione, ha sostenuto che la Gran Bretagna dovrebbe almeno valutare la possibilità di utilizzare i missili balistici lanciati da sottomarini M51 della Francia.
Lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) ha rilevato che tra il 2019 e il 2023, il 55% delle importazioni di armamenti europei proveniva dagli Stati Uniti, contro il 35% del quinquennio precedente.
La presidenza Trump costituisce un vero choc per l’Europa e oggi negli stessi ambienti politici e militari si evidenziano i rischi legati alla dipendenza dagli Stati Uniti nei sistemi d’arma e prodotti militari, citando soprattutto gli F-35.
Dai talebani a Voltaire
Una vera rivincita per i “talebani”. Non quelli afghani ma quelli di Analisi Difesa, come venimmo definiti in alcuni ambienti militari il sottoscritto e Silvio Lora Lamia, colpevoli di non lesinare valutazioni contrarie a quel programma anche per le ragioni che vengono oggi da molti evidenziate con tanto clamore.
Lora Lamia, già capo redattore di Volare, sulle nostre pagine ha scritto un imponente numero di articoli sul programma F-35 (più di 50 tra il 2012 e il 2021, leggili qui) evidenziando aspetti e difficoltà ma soprattutto il controllo esclusivamente statunitense sulle tecnologie più avanzate del velivolo.
Aspetti che era facile rilevare anche presso lo stabilimento di Cameri (FACO) dove non mancavano le aree in cui era ammesso solo personale statunitense.
“Le mie perplessità non riguardano soltanto i costi o le prestazioni dell’F-35, diventasse anche il miglior velivolo del mondo, ma con questo aereo l’Italia – e i paesi che lo adottano – rinunciano ad avere la sovranità piena sui loro sistemi d’arma” si legge in un’intervista che rilasciai nel 2019 a StartMag e che riprendeva un tema già sviluppato in numerosi articoli, interviste e un’audizione parlamentare alla Commissione Difesa della Camera del luglio 2013.
Non è elegante parlare di sé e i lettori spero mi perdoneranno, ma la posizione assunta già molti anni or sono dal nostro web-magazine (ricordata pochi giorni or sono su StartMag da Germano Dottori), ci valse molte critiche in ambienti politici, militari e industriali sulle due sponde dell’Atlantico e la definizione di “talebani”.
All’epoca frequentavo spesso l’Afghanistan per realizzare reportage sul conflitto e ammetto che trovavo fastidioso e certo poco consono alla mia persona il termine “talebano”. Oggi però, vedendo molti di coloro che definivano indispensabile acquisire l’F-35 a qualunque costo esprimere le stesse nostre valutazioni, devo riconoscere che il termine “talebani” si adatta perfettamente a noi.
In fondo proprio i talebani, usciti vincitori dal conflitto, solevano dire ai loro nemici occidentali: “voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo”. Tempo che, aggiungerebbe Voltaire, è sempre galantuomo.
Foto: Lockheed Martin

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.