L’Europa s’è desta

 

 

L’Europa s’è desta,

dell’elmo di Leyen

s’è cinta la testa

 

Nonostante nel corso dei sei anni trascorsi alla guida del Ministero della Difesa tedesco (2013-2019) non sia riuscita a rimettere in piedi la Bundeswehr, ora intende riprovarci con l’Europa. La presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen non ha propriamente brillato nella gestione di molti dei grandi problemi che investono l’Unione, dalle crisi dell’energia e dell’industria automobilistica ai flussi migratori, ma punta a rifarsi su un terreno sul quale, almeno ci si aspetta, dovrebbe aver maturato una certa esperienza: quello degli armamenti.

“Putin ha dimostrato più volte di essere un vicino ostile. Non ci si può fidare di lui, può essere solo scoraggiato” – ha dichiarato l’11 marzo von der Leyen di fronte al Parlamento europeo a Strasburgo. E ha proseguito: – “Sappiamo che il complesso militare russo sta superando il nostro. Se consideriamo la spesa militare in termini reali, il Cremlino sta spendendo più di tutta l’Europa messa insieme”.

Ragion per cui bisogna correre subito ai ripari col piano “ReArm Europe”, che punta a investire circa 800 miliardi di euro, di cui 150 sotto forma di prestiti, per rafforzare le capacità di difesa del continente.

Non so da dove Ursula von der Leyen abbia preso gli elementi su cui basare l’affermazione che la Russia, in campo militare, “sta spendendo più di tutta l’Europa messa insieme”: forse dalla sua consigliera Kaja Kallas, Alta Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che in quanto proveniente da una delle repubbliche baltiche (nella fattispecie, l’Estonia) è naturalmente incline all’allarmismo, se solo viene chiamata in causa la Russia.

Una fonte più credibile, il Military Balance 2025, riporta che nel 2024 la Russia ha speso per la difesa in termini reali 145,9 miliardi di dollari, laddove i 5 maggiori paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Polonia) ne hanno spesi da soli 294. È vero che una stima basata sui tassi ufficiali di cambio può essere fuorviante, e che è di conseguenza opportuno rivalutarla in funzione di diversi fattori che riflettono il costo effettivo dei vari servizi per la difesa in ciascun paese, concorrendo a determinare il cosiddetto MPPP (Military Purchasing Power Parity, cioè il potere d’acquisto equivalente in campo militare).

Ma se si sceglie questa strada la ‘correzione’ va apportata non solo al bilancio della Russia (che sale da una stima di 373 miliardi di dollari per il 2023 a 461,4 nel 2024), ma a quello di tutti i paesi oggetto del confronto. L’ultimo anno per cui i dati sono interamente disponibili è il 2023, e da questi si desume che i 5 maggiori contribuenti europei (vale a dire sempre Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Polonia) hanno speso nell’insieme l’equivalente MPPP di 452 miliardi, cioè il 21 % in più della Russia: una percentuale che cresce ancora, e non di poco, se si tiene conto anche degli altri 23 paesi dell’Unione.

La spesa russa incide sul PIL domestico per il 6-7%, a fronte di un tasso che per la maggior parte dei paesi europei è meno della metà. A parte questo, resta il fatto che l’unico criterio di valutazione della spesa non può essere la quantità, ma occorre considerare anche la qualità: ed è su questo piano che l’Europa fa acqua, questione cui la von der Leyen non ha minimamente accennato nel presentare e sponsorizzare il suo piano.

La presidente si è detta pronta ad utilizzare ogni leva finanziaria e normativa disponibile per rafforzare e accelerare la produzione europea nel campo della difesa, a partire da alcuni settori critici individuati nella difesa antiaerea e antimissile, nei droni, nei sistemi antidrone e nel munizionamento (missili e artiglieria).

Una prima leva consisterà nella creazione, nel quadro del piano SAFE (Security Action For Europe), di un fondo da 150 miliardi di euro erogabile ai singoli paesi sotto forma di prestiti, in grado di mobilitare secondo von der Leyen investimenti per ulteriori 650 miliardi nell’arco di 4 anni.

La seconda leva, altrettanto importante, prevede un allentamento delle clausole di salvaguardia previste dal Patto di Solidarietà europeo, in modo da consentire ai singoli paesi di incrementare la spesa per la difesa senza infrangere i vincoli sul deficit di bilancio.

Il risultato? Equipaggiamenti più moderni e numerosi per le forze armate, ricostituzione delle scorte e integrazione delle capacità nei settori di importanza critica, senza dimenticare – come ha tenuto a precisare Ursula von der Leyen – che “tutto ciò avrà anche ricadute positive per la nostra economia e la nostra competitività”, con la creazione di nuove fabbriche e linee di produzione in Europa e la prevedibile pioggia di benefici tecnologici ed occupazionali.

Possibile, soprattutto se gli investimenti previsti dal piano ReArm andranno a vantaggio dell’industria europea anziché di quella americana: ma questa è solo una faccia – e non la più importante – della medaglia.

 

L’Europa della Difesa

Il rafforzamento capacitivo delle forze armate europee è importante, ma in assenza di una struttura di Difesa comune si rischia solo di perpetuare il quadro esistente: costellato di duplicazioni, di sprechi, di atteggiamenti protezionistici, di gelosie nazionali e caratterizzato, in ultima analisi, dall’incapacità di investire, decidere e intervenire in maniera coordinata e coesa.

La debolezza dell’Europa non sta solo, né principalmente, nel fatto che spende poco per la difesa (lo si è visto sopra), bensì nel fatto che schiera 27 “difese” nazionali diverse, ciascuna impegnata a salvaguardare la propria sovranità, i propri fornitori e la competitività della propria industria, sul piano domestico come su quello delle esportazioni. E se a questo comportamento generalizzato vi sono delle eccezioni, sono ancora troppo poche e troppo poco incisive.

La strada del progetto per una Difesa europea comune è lunga e lastricata di buoni propositi, ma anche segnata dalle fosse dove gli stessi propositi sono finiti e sepolti: dal lontano (primi anni ’50) piano per la creazione di una Comunità Europea di Difesa (CED), formalmente defunto nell’agosto del 1954 a causa della mancata ratifica del relativo trattato da parte dell’Assemblea Nazionale francese, ai più recenti tentativi di dar vita ad unità operative multinazionali di varie dimensioni (dall’Eurofor all’Eurocorps), finite nel dimenticatoio in quanto non si sono mai spinte al di là di semplici attività addestrative comuni.

Un esercito – o, meglio, una struttura militare europea – non può nascere da semplici piani industriali, nemmeno se questi fossero basati – e oggi non lo sono – su programmi di acquisizione (di velivoli da combattimento, di veicoli, di artiglierie, di missili, di sistemi di comunicazione, di osservazione spaziale, di comando e controllo e via dicendo) standardizzati per tutti i paesi, anziché solo interoperabili secondo la prassi corrente.

Oltretutto, uno strumento militare comune ha poco senso, e ancor meno significato, se a monte non c’è una politica comune, a partire da quella estera e, al di sopra di questa, un governo o un organo decisionale comune, abilitato a e in grado di decidere per tutti.

L’Europa è invece costretta a fare i conti tutti i giorni con posizioni e decisioni contrastanti, veti e ritrosie che ne minano la credibilità interna e internazionale prima e più della mancanza di un esercito comune cui, in questo contesto, mancano i presupposti per esistere ed operare.

Nel presentare ReArm Ursula von der Leyen non ha voluto o potuto affrontare questo aspetto, rinunciando a sottolineare l’urgenza di un presupposto fondamentale per far sì che il progetto abbia successo.

Un’altra questione legata alla difesa europea, oggetto di proposte e discussioni in queste settimane, riguarda la creazione di un deterrente comune, indispensabile per esprimere un minimo di credibilità specialmente ove venisse a mancare, in tutto o in parte, l’ombrello nucleare americano.

L’unico paese UE che dispone di armi atomiche (a prescindere dalle bombe presenti in Europa nel quadro del nuclear sharing NATO) è la Francia, dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. È vero che Emmanuel Macron aveva già proposto una prima volta alcuni anni fa di estendere l’ombrello nucleare francese alla UE, promettendo un livello minimo (ma in realtà illusorio) di informazione e pianificazione condivisa.

Si tratta tuttavia – allora come oggi – di un’apertura vuota di significato, dal momento che il controllo sulle armi e sul loro impiego è e resterebbe rigidamente e totalmente in mano a Parigi, come resta in mano a Washington quello delle armi nucleari americane, incluse quelle messe a disposizione della NATO.

L’offerta di estendere alla UE dell’ombrello nucleare è stata rinnovata in questi giorni dal titolare dell’Eliseo, ma senza l’aggiunta di alcun elemento utile a modificare il quadro precedente. Il deterrente francese resta sotto controllo francese, con gli altri partner europei confinati al ruolo di semplici spettatori.

Lo ha ribadito chiaramente lo stesso Macron il 5 marzo scorso, quando ha detto di voler “aprire il dibattito strategico sulla protezione dei nostri alleati nel continente europeo”, precisando però immediatamente che “la dissuasione nucleare è e resterà francese dall’inizio alla fine”.

L’obiettivo della presunta apertura di Parigi non è pertanto quello di coinvolgere i paesi UE in un meccanismo di controllo dell’armamento nucleare nazionale quanto di cercare di imporsi come leader della difesa europea, rafforzando il proprio prestigio e il proprio peso politico in uno scenario dove si profila un (sia pur temporaneo) disimpegno americano, dove la Germania ha perso e sta perdendo parte della propria influenza e dove l’altra potenza nucleare europea, la Gran Bretagna, si è defilata abbandonando l’Unione.

Le dimensioni del deterrente francese non sono oltretutto tali da rappresentare un contrappeso del tutto efficace e credibile nei confronti della minaccia che si vorrebbe dissuadere – la Russia –, il cui potenziale nucleare è almeno una quindicina di volte maggiore. Alla luce di tutto questo, l’apertura manifestata il 9 marzo dal cancelliere tedesco entrante Friedrich Mertz alla “partecipazione” di Berlino a un deterrente nucleare europeo basato sul contributo francese e britannico appare più una prova della preoccupazione derivante da un possibile disimpegno americano, che un proposito con fondate prospettive di realizzazione.

 

Il pericolo russo 

La principale motivazione chiamata in causa da Ursula von der Leyen e dai suoi consiglieri per giustificare il piano ReArm è il pericolo incombente rappresentato dalla Russia, che in assenza di un adeguato potenziale militare dissuasivo da parte della UE si accingerebbe, una volta ‘sistemata’ l’Ucraina, ad aggredire altri paesi confinanti.

É una litania intonata da tempo (al fine di rendere più digeribili i suoi continui appelli al sostegno militare e finanziario da parte dell’Occidente) dal presidente Zelensky, e questo si può anche capire: meno comprensibile è come tale martellamento propagandistico abbia trovato e trovi tuttora ascolto e credito in Europa, sia a livello politico e governativo che sulla maggior parte dei media.

Dopo essere stato ricacciato da un’ampia fetta dei territori che aveva inizialmente occupato nel 2022, l’esercito russo ha ripreso ad avanzare in Ucraina dall’estate del 2023, ma ad un passo tutt’altro che incalzante: su larga parte del fronte i progressi – laddove ci sono – si misurano in poche centinaia di metri al giorno (un isolato, un quartiere, un boschetto, un tratto di linea ferroviaria), al prezzo di perdite umane e materiali che, se pure non micidiali come le dipinge la propaganda ucraina, sono comunque pesanti, tanto da frenare l’attuazione di manovre e di avanzate decisive.

Di questo passo, per arrivare a minacciare i confini della UE e della NATO alla Russia servirebbero anni, se non decenni, e se mai ci arrivasse l’esercito russo sarebbe comunque tanto provato da avere difficilmente la forza di andare più oltre, contro un avversario allertato e preparato.

Se i progressi di Mosca sul campo di battaglia sono quelli che sono, e se le perdite di uomini e mezzi registrate in tre anni di guerra dal suo esercito si avvicinano ai numeri devastanti citati non tanto dalla propaganda di Kiev, ma anche da fonti di intelligence occidentali solitamente ben più attendibili, su quali basi la Russia po’ essere dipinta come una seria ed incombente minaccia?

Lo spauracchio è agitato soprattutto dalle tre Repubbliche baltiche che, anziché ringraziare Dio per essere state accolte a suo tempo nella NATO nonostante il loro insignificante apporto sul piano della sicurezza collettiva, si agitano e strepitano quanto le oche del Campidoglio, con iniziative ed atteggiamenti poco compatibili con l’appartenenza a un’Alleanza difensiva e che, al contrario, rasentano spesso toni provocatori.

Estonia, Lettonia e Lituania costituiscono per la NATO soprattutto un onere, visto che devono essere protette continuamente e in tutte le dimensioni dalle missioni di air, sea e land policing dell’Alleanza.

Ciò nonostante si atteggiano a paesi virtuosi perché spendono il 3 o il 4 % del loro (irrilevante) PIL per la difesa, e su questa base si sentono titolati a impartire lezioni e fornire suggerimenti (non richiesti) agli altri partner in campo politico-militare, con una petulanza che richiama da vicino quella di Zelensky. L’ultima l’uscita è del presidente lituano Edgars Rinkēvičs, che il 9 marzo ha sostenuto “l’assoluta necessità” di reintrodurre in Europa il servizio militare obbligatorio per contrastare la minaccia di un’aggressione russa.

Che i paesi baltici – inclusa la Polonia – si sentano più minacciati di altri dalla Russia a ragione della contiguità territoriale si può anche comprendere: ma considerato il loro pensiero e comportamento ossessivo dovrebbero essere tenuti alla larga da certi incarichi, in ambito NATO come all’interno della UE. Designare un baltico come la Kallas quale responsabile della politica di sicurezza dell’Unione è un po’ come se il Vaticano mettesse un imam a capo di Propaganda Fide: una scelta non proprio azzeccata e pure rischiosa.

Che la Russia, pesantemente logorata – se non stremata – dal conflitto in Ucraina, possa avere l’intenzione, le ragioni e le risorse per aprire nel medio termine un altro fronte di guerra in Europa è poco credibile, nonostante la folla di politici e tuttologi che si sgola a sostenere il contrario.

Oltretutto, se la minaccia russa è davvero così ravvicinata nel tempo come insistono ad affermare certe cancellerie e media europei, il piano ReArm rischia di perdere di significato ancor prima di partire. Se gli investimenti previsti verranno infatti distribuiti su un arco di 4 e probabilmente più anni, perché producano gli effetti attesi (con tutti i limiti sopra discussi) ne serviranno almeno il doppio: e intanto chiederemo a Putin di pazientare cortesemente prima di invaderci, in modo che il nostro deterrente abbia il tempo di consolidarsi?

Dai, Ursula: inventane una di migliore.

 

Foto: TASS, Commissione Europea, MSC e Presidenza francese

Ruggero StangliniVedi tutti gli articoli

Ingegnere, ha lavorato nell'industria della difesa prima di fare del giornalismo la sua principale attività. Nel 1982 ha contribuito a fondare la rivista mensile Panorama Difesa, che ha diretto sino al 2000, e successivamente Tecnologia & Difesa, che ha diretto fino al 2006. È autore e coautore di numerosi libri e pubblicazioni sulle marine, le operazioni e le tecnologie militari.

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