La Cina, l’etano e le rotte artiche: la strategia di Trump

 

Donald Trump, stando ai dati disponibili, possiede un patrimonio personale stimato tra i 3 e i 3,7 miliardi di dollari, e dal 1971 si occupa direttamente di un conglomerato di dimensioni eccezionali. Quindi, l’idea che si tratti semplicemente di un personaggio bizzarro e sostanzialmente incapace, se non addirittura folle, è piuttosto curiosa. Una persona che non possieda doti di spicco non avrebbe mai potuto conseguire simili risultati, a prescindere dal fatto che si possa essere d’accordo o meno con le sue idee e con le posizioni che assume.

Un’altra deduzione tanto semplice quanto infrequente è che la sua impostazione di fondo sia di tipo “mercantile”, ossia che abbia un’attitudine spiccata per la negoziazione. Il tema, dunque, non è concentrare l’attenzione su ciò che dice o ciò che fa ma sugli obiettivi che si pone, e cercare di individuarli attraverso la cortina di fumo degli eventi quotidiani.

Nessuno meglio dei cinesi è adatto a questo scopo. Sappiamo che esiste una indole dei Popoli, che non è semplicemente la somma delle attitudini o delle idee dei singoli. Se è ovviamente sciocco affermare che tutti i cinesi siano dei sottili mercanti, è evidente il fatto che sia insita nella loro cultura una attitudine a non fermarsi alle apparenze e ad avere un pensiero strategico di tipo commerciale.

E proprio dalla Cina ci viene una lezione eclatante sulla visione strategica che, con ogni probabilità, Donald Trump ha nella sua complessa azione che un certo mondo liquida come “la follia dei dazi”. Osserviamo, peraltro, che il POTUS ha cominciato minacciando misure protezionistiche, per poi attuarle con un ventaglio amplissimo di sfumature, eccezioni e apparenti rigidità. Questo non può non farci pensare che, alla base, ci siano delle precise intenzioni, connesse ad obiettivi concreti e puntuali.

Ed è una lezione sostanziale, posto che l’accordo USA – UK annunciato l’8 maggio è, in fondo, un “affare di famiglia” tra due Nazioni legate da sempre da un vincolo del tutto speciale, e quindi non ha la stessa valenza dell’esempio cinese.

 

La lezione cinese

L’occasione ci viene da una misura adottata dal Governo cinese su un materiale del quale l’uomo della strada forse non aveva mai nemmeno sentito parlare: l’etano.

Trattasi di un idrocarburo che è uno dei molti prodotti della raffinazione del petrolio, che gli USA producono in quantità dall’estrazione e processamento cosiddetto “shale”, che li ha portati nel 2018 a ritornare sul podio dei produttori di petrolio dopo molti decenni.

Sull’etano la Cina aveva imposto un dazio del 125%, in risposta ai dazi stabiliti dagli Stati Uniti su una ampia gamma di merci cinesi. Orbene, a Pechino si sono accorti de aver segnato un autogol significativo, poiché circa la metà dell’etano indispensabile all’industria petrolchimica cinese viene dagli USA.

In pratica, avevano imposto un dazio a se stessi. Pragmatici quanto raffinati, hanno trasformato una sconfitta in un potenziale strumento negoziale. Intuito lo scopo di Trump, hanno abolito il balzello ed inviato, così, un preciso segnale agli USA: parliamone, negoziamo.

Trump ha ottenuto il suo scopo e i cinesi hanno capito che la loro sola mole, per grande che sia, non consente loro di essere spavaldi. MarketScreener riporta con la giusta enfasi la notizia.

Oltretutto, la Cina sa bene di dipendere dall’estero per il 60% del suo fabbisogno petrolifero (che corrisponde, by the way, al 25% di quello mondiale), e di essere per questo estremamente vulnerabile non solo in materia di combustibili ma di qualunque derivato del petrolio. Non c’è acciaio né plastica, senza petrolio, con buona pace della green economy.

Stabilito e conclamato il fatto che i dazi non siano la mattana di un folle, proviamo ad applicare il ragionamento ad altri contesti.

 

Canada e Groenlandia

Il POTUS ha fatto sorridere il mondo, mercè di un giornalismo tanto ideologizzato quanto ignorante, proponendo al Canada di diventare il 51mo Stato degli USA e auspicando che la Groenlandia ne diventi anch’essa parte. Converrete con me che possiamo ora quantomeno sospettare che dietro l’apparente idiozia ci sia un senso.

Uno dei temi geostrategici più importanti è quello della logistica mondiale, all’interno del quale ha una particolare rilevanza quello delle rotte marine. Essendo gli USA una potenza essenzialmente navale essi ne sono particolarmente consci. Le rotte navali hanno dei limiti intrinseci che col passare del tempo e l’ampliarsi degli scambi commerciali globali divengono sempre più vincolanti, posto che il loro superamento richiede attività complesse, stanziamenti ingenti e lavori ciclopici. In buona sostanza, richiede decenni, oltre alla creazione di alleanze strategiche tra stati.

Una prova della loro centralità e complessità è che si stia tornando a parlare di rotte terrestri, come la Belt and Road Initiative cinese, “giustamente”, dal loro punto di vista, combattuta dagli USA e da tutte le Amministrazioni, di qualsiasi colore politico. Perché i saggi cinesi si sarebbero imbarcati in questo ciclopico, rischioso e costoso progetto, se non a causa del collo di bottiglia dello Stretto di Malacca, che è il vincolo fisico enorme del quale soffrono importazioni ed esportazioni via mare?

E’ un corridoio obbligato, ed è difficile pensare che alle attuali quasi 8000 navi al mese se ne possano aggiungere all’infinito. Ergo, la Cina già nel 2013 lanciò l’iniziativa, che evidentemente aveva già adeguatamente progettato. Con un argomento a fortiori, si direbbe in logica formale, abbiamo dimostrato a chi non sia uno specialista che il tema della limitazione delle rotte marittime sia effettivamente prioritario.

Adesso iniziamo a capire il perché dell’apparente follia dell’imperatore riguardo alla Groenlandia e al Canada: le rotte polari passano per là.

Noi, contrariamente agli australiani ed agli antichi che le orientano rispettivamente a sud e a est, siamo abituati a vedere le carte geografiche orientate a nord, quindi abbiamo una visione per così dire terrapiattista del planisfero. Se, però, prendiamo una carta incentrata sul Polo Nord, la visione delle rotte marittime cambia, come sanno bene USA e Russia. Gli USA per avere lassù l’Alaska e la Russia per avere la propria maggior base navale ad Arhkangelsk.

Foto ShipMag

 

Manuel Di CasoliVedi tutti gli articoli

Ha frequentato la Scuola Militare "Nunziatella" di Napoli, l'Accademia Militare di Modena e la Scuola Ufficiali Carabinieri ed è laureato in Giurisprudenza ed in Scienze della Sicurezza. Fino al 2000 è stato Ufficiale dei Carabinieri, svolgendo il proprio servizio in Sicilia, Calabria e nella Capitale. E' Professore a contratto in alcune Università italiane ed ha conseguito un Master presso l'Università di Buenos Aires. Attualmente è Global Strategies Advisor nel settore energetico e lavora tra America Latina ed Europa per società di investimento e produzione nel settore energetico. Ha ricoperto diversi incarichi come Direttore Operations, Sicurezza e Affari Legali per grandi aziende sia italiane che multinazionali ed in Expo Milano 2015.

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