Italiani imbelli? Da eco-ansia e gay pride a Sparta il passo è lungo

Un Cane Lupo, ch’era stato messo de guardia a li cancelli d’una villa,
tutta la notte stava a fa’ bubbù.
Perfino se la strada era tranquilla e nun passava un’anima: lo stesso!
Nu’ la finiva più!
Una Cagnola d’un villino accosto je chiese: – Ma perché sveji la gente e dài l’allarme quanno nun c’è gnente? –
Dice: – Lo faccio pe’ nun perde er posto.
Der resto, cara mia,
spesso er nemmico è l’ombra che se crea pe’ conserva’ un’idea: nun ce mica bisogno che ce sia.
Er nemico – Trilussa (1919)
L’indagine del CENSIS resa nota il 18 giugno di cui Analisi Difesa si è occupata ieri ci fornisce una importante fotografia dell’impatto dei conflitti di oggi sugli italiani e delle percezioni che le guerre dei nostri giorni generano.
Il CENSIS ci spiega che 31 italiani su 100 credono che l’Italia sarà coinvolta in un conflitto entro i prossimi cinque anni: un riferimento temporale che è direttamente legato alla propaganda UE e NATO relativo al rischio di un attacco russo all’Europa.
Attacco che secondo alcuni osservatori punterebbe a raggiungere perfino Lisbona, mentre secondo l’intelligence di Berlino si limiterebbe alle Repubbliche Baltiche ma che viene propagandato come “inevitabile” nel giro al massimo di 5 anni al fine di giustificare politiche di riarmo e di mobilitazione militare e sociale che in alcune nazioni europee hanno portato a prendere in considerazione il ripristino della leva obbligatoria.
L’inchiesta del CENSIS ci dice che gli italiani tra i 18 e i 45 anni “sarebbero in larghissima maggioranza riluttanti a rispondere alla chiamata delle Forze Armate”.
Il fatto che solo il 16% si dichiari pronto a combattere non è necessariamente la dimostrazione che gli italiani sono un popolo imbelle, cioè di inetti alla guerra. E’ possibile che il “nemico sottinteso”, cioè i russi che dovrebbero marciare sulla Penisola (tanto cari alla propaganda Ue, NATO e di gran parte dei nostri media), non sia percepito come tale o che questa minaccia non venga realmente ritenuta credibile.
Nel sondaggio la Russia è in testa alla lista delle potenziali minacce col 50 per cento seguita dai “Paesi islamici” col 31% e dagli Stati Uniti col 23% (e poi Israele, Cina e Corea del Nord….) ma questo non significa automaticamente che una tale minaccia venga percepita o che si sia pronti a mobilitarsi per farvi fronte.
Dopo il bombardamento mediatico anti-russo non sorprende che Mosca venga posta in testa alle fonti di minaccia potenziali, semmai sorprende che tra queste vi siano anche USA e Israele.
L’estrema polarizzazione della nostra società nei confronti delle guerre in Ucraina e Medio Oriente potrebbe favorire il distacco dei cittadini dalla narrazione istituzionale e dalla propaganda: lo stesso sondaggio CENSIS dimostra che solo una minoranza “tifa” per uno dei belligeranti mentre 6 o 7 intervistati su 10 vorrebbero che l’Italia restasse neutrale.
Infatti, pur se vi sono tifosi di Kiev (33%) e Mosca (5%), oppure di Israele (9%) e della causa palestinese (21%), in entrambi i conflitti oltre tra il 62 e il 70 per cento degli intervistati vorrebbe un’Italia neutrale, dato che si conferma pure in caso di un’eventuale guerra tra USA e Danimarca per la Groenlandia.
Di fatto l’opinione pubblica italiana appare in larga misura convinta che queste “non siano le nostre guerre” anche se il CENSIS ci dice che per il 65% degli intervistati “gli italiani non sono un popolo di guerrieri e saremmo travolti dal nemico, se non potessimo contare sull’aiuto degli alleati”.
Del resto era evidentemente molto improbabile che una contrapposizione ideologica così ostentatamente promossa da dividere “i buoni dai cattivi” e “gli aggressori dagli aggrediti” potesse convincere in massa l’opinione pubblica al punto da renderci tutti pronti a combattere “er nemico”, per dirla con Trilussa.
Come abbiamo più volte osservato, la propaganda bellicista in questi oltre tre anni è stata talmente ossessiva e raffazzonata da contraddirsi in più circostanze.
Il rinnovato ostracismo che si rileva in questi giorni nei confronti di un artista russo colpevole di sostenere il proprio Stato e il proprio governo (cioè di essere un patriota e non “un traditore”), o di atleti che si rifiutano di abiurare la colpa di essere russi, costituisce in realtà un boomerang perché colpisce gli stessi valori proposti da chi ci vorrebbe tutti patrioti e pronti alla guerra.
Il patriottismo o è un valore o non lo è: non può essere una colpa se lo esprime verso la sua Patria un russo e una virtù se lo esprime un ucraino o un italiano!
A ben vedere, a rendere più comprensibile la scarsa adesione alla chiamata alle armi emersa nel rapporto CENSIS contribuiscono anche altri aspetti. Nessuno è più abituato alla leva militare e il soldato è percepito come un mestiere professionale da cui peraltro si stanno allontanando in molti in tutto l’Occidente.
La crisi del reclutamento e soprattutto del reclutamento di qualità, sta mettendo in ginocchio le forze armate dei paesi aderenti alla NATO con carenze di personale in costante crescita, incremento dei militari che escono dai ranghi e difficoltà a reclutare nuovi volontari.
Difficile credere si tratti solo di paghe poco competitive col mercato civile, giovani poco avvezzi a fatica e sacrifici, o di crisi delle vocazioni militari: diciamo che oggi la prospettiva di un giovane che si arruola non è la missione di peacekeeping ma una trincea in Ucraina a combattere i russi. O almeno questo ci lascia intendere la martellante propaganda NATO e Ue.
Esiste poi un fattore culturale ormai consolidato da decenni e che è impossibile rovesciare improvvisamente. Senza pretese di analisi sociologiche, sono decenni che italiani, europei e occidentali in genere, vengono bombardati da scuola, politica e media di valori quali pacifismo, ambientalismo, società multiculturale, multietnica e “fluida”.
Il termine Patria, almeno come valore, è diventato sempre più desueto con la sospensione della coscrizione obbligatoria con cui è stato rimosso il concetto del dovere del cittadino di prestare un periodo breve del suo tempo (sei mesi o un anno) allo Stato e alla società.
Che adesso si voglia repentinamente rieducare le masse, e soprattutto i giovani, alle virtù guerriere fa sorridere ma soprattutto allontana ulteriormente le istituzioni dai cittadini.
Una società di “spartani” si educa in tal senso fin dalla prima infanzia e per generazioni. Non la si improvvisa facendo il lavaggio del cervello tramite slogan propagandistici e talk-show televisivi a giovani cresciuti nella fluidità della propria identità di genere, affetti da eco-ansia e talmente poco resilienti da essere incapaci di vivere anche solo una giornata senza la connessione internet con cui, nei sushi-bar e fast-food che frequentano indossando abiti firmati e costosissime scarpe sportive, possono tenere la faccia perennemente immersa dentro un telefonino ultimo modello pieno zeppo di App di ogni tipo.
Ovviamente questo è uno stereotipo, non si può certo generalizzare né si intende giudicare gli stili di vita ma deve essere chiaro che questo tipo di società non produce guerrieri di cui oggi si dice avremmo un gran bisogno.
Di certo questa enorme spaccatura tra la società “imbelle” che abbiamo costruito e quella che avremmo dovuto costruire per essere “combattivi e combattenti” ci fa comprendere che oggi nessun governo in Europa sopravviverebbe in termini di voti e consensi a una legge che ripristini la coscrizione obbligatoria, specie se istituita paventando una guerra.
A meno che non si consolidi definitivamente l’andazzo, già pericolosamente evidente in Romania, Moldavia, Germania e Francia, di mettere fuorilegge o ostracizzare partiti e candidati non graditi all’establishment e di annullare elezioni.
Esiste poi un altro aspetto che varrebbe la pena considerare. Il concetto di Patria è strettamente legato a confini, territorio, popolo, identità e alle strutture che la compongono quali famiglia, comunità, nazione. Tutti ampiamente demoliti a picconate negli ultimi decenni contribuendo al deserto demografico a cui stiamo andando incontro a tutta velocità.
Anni di narrazione europeista basata anche sull’abrogazione dei confini, presentati come una pessima eredità dei nazionalismi del ‘900 foriera di nuove guerre, con il drappo blu-stellato al fianco del Tricolore, ci hanno tolto la Patria senza darcene però un’altra, né di certo un’altra credibile o in cui riconoscersi.
Quale concetto di confini della Patria (un tempo “sacri e inviolabili”) abbiamo trasmesso alle nuove generazioni negli ultimi 25 anni in cui si è consentito a chiunque pagasse organizzazioni criminali di superarli illegalmente senza venire quasi mai cacciato o sanzionato?
Se nel 1917 il Piave mormorava “non passa lo straniero”, oggi gli stranieri entrano da ogni dove, attraversando a sud il mare e le colline sul confine orientale: a differenza della Prima guerra mondale non sono “in armi” ma di certo costituiscono “un’arma” come scriveva nel 2010 Kelly Greenhill nel suo indimenticabile libro ”Armi di Migrazione di massa” (edito in Italia da LEG nel 2017).
Se è difficile oggi convincere quelle stesse generazioni (tra i 18 e i 45 anni come riporta il CENSIS) a “dare figli alla Patria”, ancor più arduo sarà convincerli che i confini sono tornati sacri e inviolabili, a prezzo della vita, a causa della supposta e propagandata minaccia di invasione russa in nome della quale dovremmo essere pronti a tornare a indossare anfibi ed elmetto per presidiare le “Fortezze Bastiani” ai confini orientali.
Se oggi in molti quartieri urbani, anche in Italia, uscendo di casa è possibile camminare a lungo senza incontrare nessuno o quasi che ci assomigli per lingua, colore della pelle, cultura, origine e religione, potremmo forse più facilmente sentirci parte della Los Angeles di Blade Runner (ambientato nel 2019) che dell’Italia.
Se oggi per le élites europee i carri armati sono improvvisamente diventati “cool” quanto lo erano fino a ieri le pale eoliche, risulta difficile credere che sia possibile riuscire a cambiare altrettanto rapidamente anche l’orientamento e la mentalità dell’opinione pubblica. Lo sforzo sarebbe immane e soprattutto né politica né media hanno oggi il peso e l’autorevolezza per poter anche solo tentare una simile impresa.
E poi, anche se resta politicamente scorretto dirlo, la guerra è uno sporco affare per giovani machos muscolosi, avvezzi alle durezze della vita, essenziali e cattivi, pronti a uccidere, meglio ancora se ben addestrati a farlo.
Quanti giovani abbiamo cresciuto con questi valori e caratteristiche o con uno stile di vita vagamente compatibile con essi nelle ultime generazioni?
Oggi il tanto acclamato riarmo europeo viene più facilmente percepito come un modo per imporci nuove tasse o per farci pagare un ulteriore obolo agli Stati Uniti e alla Germania, che per difenderci dalle orde di cosacchi e siberiani che vorrebbero abbeverare i cavalli alla Fontana di Trevi dopo aver divorato qualche bambino.
Una sfida per la credibilità già oggi perduta dai leader di molte nazioni europee (Germania, Franca e Gran Bretagna in testa) e da istituzioni sovranazionali quali UE e NATO che possono però contare a loro vantaggio sulla confusione generata nell’opinione pubblica da questi anni di incertezze.
Il 25% degli intervistati non risponde alla domanda circa il rapporto con la NATO che il 49% vorrebbe rafforzare, ma al tempo stesso il 63% valuta come una dichiarazione di guerra i dazi imposti da Donald Trump e il 46% non considera più scontato che gli USA siano al nostro fianco in caso di guerra.
Il 58% si dice favorevole a “un sistema di difesa europeo integrato, con un esercito unico, armamenti comuni e un comando unificato” (che non è realizzabile con gli attuali trattati europei né auspicato da molti partner) ma solo il 26% è favorevole all’incremento delle spese militari.
Risposte che da un lato potrebbero indicare come stia guadagnando punti la delega ad organismi sovranazionali dei compiti di difesa nazionale e dall’altro confermare come il concetto di Patria, specie se da difendere, divenga sempre più sfumato. Due facce della stessa medaglia.
Foto: Difesa.it, TASS e Forze Armate Ucraine

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.