Fallire la guerra asimmetrica: Israele, Hamas, ed il prezzo della perdita dei principi

La guerra a Gaza è diventata più di un conflitto locale; è un’ulteriore prova lampante di cosa significa per una democrazia combattere un avversario terroristico. Le atrocità di Hamas sono innegabili – ma lo è anche il costo morale e strategico che subisce uno Stato democratico allorquando rispecchia i metodi di coloro che cerca di sconfiggere. Le democrazie vengono giudicate e considerate non solo se prevalgono, ma anche in base a come conducono le loro guerre.
La forza di un esercito non si misura solo dal numero dei cannoni o dalla potenza di fuoco, ma dalla capacità di attenersi alle regole che disciplinano la guerra. Sono quelle regole – concepite per proteggere i civili, salvaguardare l’umanità e contenere la violenza – a tracciare il confine netto tra il soldato e il criminale. Quando vengono calpestate, il conflitto smette di essere una battaglia tra eserciti e si trasforma in puro terrore.
Gaza ne è la dimostrazione più amara. La guerra asimmetrica, per decenni celebrata come l’arma dei deboli contro i forti, ha mostrato il suo limite insanabile; non vive di disciplina, ma della negazione di quel codice che dà legittimità alla guerra stessa. Rifiutando l’etica del soldato, la resistenza si muta in terrorismo, e con ciò firma la propria condanna: sul piano militare e, ancor più, su quello morale. In definitiva, il fallimento non è solo strategico, è – prima di tutto – un fallimento di valori. E nessuna guerra che tradisce i valori può mai dirsi davvero vinta.
La responsabilità di Hamas: gli ostaggi, il potere contrattuale e la trappola dei negoziati.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha unito violenza omicida con la presa in massa di ostaggi. Fin dall’inizio, questo ha impostato il ritmo politico della guerra ed ha creato una crisi umanitaria, che Hamas ha controllato e sfruttato con continuità. Su questo il diritto internazionale umanitario è chiaro; prendere ostaggi è vietato, e la Croce Rossa Internazionale ha ripetutamente richiesto il rilascio immediato e incondizionato e la possibilità di visita ai sequestrati, che Hamas ha sistematicamente negato.
Una prima parziale de-escalation è avvenuta con la tregua della durata di una settimana alla fine di novembre 2023, quando circa la metà degli ostaggi – principalmente donne, bambini e cittadini stranieri – è stata liberata in cambio di alcune centinaia di donne e adolescenti palestinesi in custodia israeliana. La pausa è crollata il 1° dicembre, e con essa anche un’opportunità per costruire un meccanismo credibile per attuare dei rilasci graduali di ostaggi.
Nel 2024 e 2025, la gestione degli ostaggi è rimasta il principale strumento della strategia di Hamas. Israele ha eseguito diverse operazioni di salvataggio (inclusa la famosa incursione di Nuseirat nel giugno 2024), mentre emergevano prove di ostaggi uccisi in prigionia.
Tra gennaio e febbraio 2025, i mediatori negoziavano un’altra tregua: una prima fase di sei settimane prevedeva un ulteriore rilascio di ostaggi israeliani (con scambi reciproci di prigionieri), seguita da colloqui sui rimanenti e sui parametri del ritiro israeliano.
Il 1° marzo, allo scadere di questo tempo, ancora numerosi ostaggi rimanevano a Gaza, dimostrando ancora una volta come il persistere di una detenzione su larga scala fosse la scelta di Hamas quale principale – se non unica – leva negoziale.
La postura di Hamas è stata finora costante: le liberazioni sono sempre condizionate ad un “pacchetto” che preveda la fine della guerra (cessate il fuoco totale, ritiro israeliano, ampi scambi di prigionieri). Questo legame massimalista – piuttosto che consentire liberazioni progressive con una supervisione neutrale – ha ripetutamente bloccato la diplomazia, anche quando i mediatori hanno ridotto le distanze o Israele ha mostrato apertura verso pause che potessero consentire l’afflusso di aiuti umanitari ed il rilascio di ostaggi.
Al di là delle ipotesi sui reali obiettivi bellici israeliani, e’ certo che l’insistenza di Hamas sul “tutto o niente” non ha fatto altro che prolungare la detenzione illegale e aumentato il costo in termini di vite umane. Nondimeno, il modus operandi di Hamas di inserirsi nelle infrastrutture civili con tunnel e centri di comando in aree densamente popolate, mette ulteriormente in pericolo i “non combattenti” e complica le operazioni di invio degli aiuti.
Nulla di tutto ciò assolve però Israele dai propri obblighi, o perdona presunte violazioni.
La logica della guerra asimmetrica: la responsabilità di Israele secondo il diritto internazionale
Israele non è solo uno Stato qualunque: è una democrazia (l’unica del Medio Oriente), un partner della NATO e un firmatario delle Convenzioni di Ginevra. Questo status comporta obblighi. I principi di distinzione e proporzionalità non sono facoltativi, sono la base legale e morale della guerra legittima.
Sin da quando è stata avviata la Global War on Terrorism (GWOT) dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, il concetto di guerra asimmetrica è diventato una pietra miliare dell’analisi dei conflitti contemporanei. Si riferisce a guerre in cui l’attore più debole – spesso un’entita’ non statuale – evita il confronto diretto con un avversario militarmente superiore e cerca invece di sfruttare le sue vulnerabilità attraverso tattiche irregolari, pressione psicologica e manovre politiche.
Gli Stati Uniti hanno affrontato questo dilemma in Iraq e in Afghanistan. Nonostante un’evidente superiorità tecnologica e militare, Washington ha faticato a tradurre le vittorie sul campo di battaglia in successi strategici. I gruppi insurrezionali, da Al-Qaeda ai talebani, hanno compreso che non potevano sconfiggere gli Stati Uniti in termini convenzionali; così, si sono concentrati sul superare il loro avversario, erodendo il sostegno pubblico nelle capitali occidentali e trasformando ogni errore di calcolo – in particolare i danni collaterali e le vittime civili – in uno strumento per delegittimare l’intervento.
Oggi a Gaza, Israele si trova intrappolato in un paradosso simile. Hamas incarna l’essenza stessa di un attore asimmetrico; senza possibilità di eguagliare le Forze di Difesa Israeliane sul campo di battaglia, si affida quindi a strategie progettate per neutralizzare i vantaggi di Israele: scudi umani e guerra urbana (sfocando la linea tra combattenti e non), tunnel e strutture di comando disperse (negando a Israele la possibilità di sferrare colpi decisivi), controllo sulla narrativa di guerra (garantendo che le immagini di distruzione e sofferenza viaggino più velocemente e più lontano di qualsiasi comunicato militare di Israele).
La sfida per le democrazie è che la guerra asimmetrica trasforma il campo di battaglia in un’arena politica e morale. Nei conflitti asimmetrici, la vittoria non è decisa dal fuoco di sbarramento, ma dalla percezione: da quale parte può rivendicare il manto della giustizia, della legittimità e della resilienza agli occhi della comunità globale. Due decenni di GWOT avrebbero dovuto rendere questa lezione chiara e inconfutabile: il più forte può vincere ogni battaglia e perdere comunque la guerra se non riesce a navigare nel terreno politico e morale plasmato dall’asimmetria.
Per Israele, come prima per gli Stati Uniti prima, la vera prova non consisterebbe solo nel sconfiggere il nemico, ma nel farlo senza minare i valori democratici che cerca di difendere. E ciò, chiaramente e tragicamente, non sta avvenendo.
Inoltre, al di la’ degli aspetti, diciamo, piu’ tecnicistici del confronto asimmetrico e delle regole del diritto internazionale, ci sono poi da considerare i fattori umani e morali, forse ancora più importanti. Ebbene sì, un membro delle Forze Armate regolari, un soldato, deve mantenere la capacità ed il coraggio di rimanere “un essere umano”; anche quando il tuo compagno di branda viene dilaniato da un ordigno esplosivo improvvisato posto sul ciglio della strada di un centro abitato o ucciso da un cecchino affacciato alla finestra di un palazzo di venti piani abitato da centinaia di persone … devi avere la forza di rimanere un essere umano. E nessun governo, di qualsivoglia colore, dovrebbe ordinare di dimenticarlo.
Fallimenti e conseguenze
La campagna di Israele sta perseguendo l’obiettivo massimalista di “distruggere Hamas”, ma il percorso operativo scelto ha minato i due esiti che la società israeliana afferma di desiderare maggiormente: primo, il sicuro ritorno degli ostaggi e, secondo, la fine delle ostilità.
Le cose, su tutti i fronti, non stanno certo andando nella direzione sperata. Le drammatiche operazioni di salvataggio hanno mostrato le capacità delle forze d’élite, ma hanno anche generato incidenti con numerose vittime, infiammato l’opinione pubblica internazionale e rinforzato Hamas nell’idea di mantenere i prigionieri dispersi nel sottosuolo. Questa logica ha ripetutamente cozzato contro i tentativi di tregua, così come gli sforzi dei mediatori contro gli irrigidimenti ora di Hamas, ora di Israele con controproposte talvolta inaccettabili, legate a sviluppi estemporanei sul campo. In breve: l’escalation operativa non ha fornito alcuna leva strategica sul dossier degli ostaggi.
Nondimeno, un ulteriore effetto dell’efferata campagna israeliana nella Striscia, è stato una progressiva perdita di consenso diplomatico. Ad esempio, le pause di Washington – mai osservate in precedenza – su specifiche spedizioni di munizioni (come reazione alle vicende di Rafah), hanno rappresentato un chiaro segnale di disappunto da parte del partner più vicino di Israele.
Parallelamente, anche all’Aia hanno intensificato la pressione: prima le misure provvisorie della Corte Internazionale di Giustizia (gennaio e maggio 2024), successivamente, la richiesta del procuratore della Corte Penale Internazionale (maggio 2024) e quindi l’emissione di mandati di cattura da parte dei giudici alla fine dello stesso anno.
Ognuno di questi passi ha ristretto lo spazio di manovra diplomatica di Israele, anche se Gerusalemme rifiuta la giurisdizione di tali tribunali. Nel frattempo, alcuni Stati europei chiave hanno riconosciuto la Palestina a maggio 2024, collegando esplicitamente la loro decisione alla devastazione di Gaza ed al crollo di una prospettiva politica credibile.
Tutte queste situazioni hanno ridotto il supporto internazionale ad Israele, proprio quando quest’ultimo ne avrebbe avuto piu’ bisogno per accrescere il potere contrattuale su Hamas. Premendo l’acceleratore sull’escalation militare, e continuando a creare situazioni irreversibili sul terreno, Israele indebolisce i moderati da ogni parte: mina i gruppi di sostegno a un accordo per i prigionieri a casa sua, delegittima gli intermediari arabi e occidentali e fornisce a Hamas una narrazione secondo cui la resistenza ad oltranza è l’unica via rimasta.
Di fatto, il calcolo politico della leadership di destra, nella quale gli esponenti piu’ influenti sostengono anche politiche di annessione della Cisgiordania, ha ripetutamente avuto la meglio sulla volonta’ – espressa da ampie fasce della società israeliana – di vedere al più presto gli ostaggi tornare a casa. La risultante di tutto cio’ non è quindi solo morale o legale, ma soprattutto strategica: meno alleati, meno opzioni diplomatiche e meno incentivi per Hamas a compromettersi.
E gli ultimi sviluppi stanno financo peggiorando la situazione; l’approvazione e l’inizio da parte di Israele di una nuova offensiva su larga scala a Gaza, mirata esplicitamente all’eradicazione di Hamas attraverso un’occupazione territoriale completa, rischia di generare ulteriori gravi conseguenze “collaterali”. Sebbene l’obiettivo sia definito come il ripristino della sicurezza e la rimozione definitiva delle infrastrutture militari e politiche di Hamas, i risultati pratici potrebbero invece intensificare l’instabilità e approfondire le stesse minacce che si cerca di eliminare.
Anche su scala regionale, l’offensiva rischia di ampliare il conflitto galvanizzando i gruppi militanti al di là di Gaza, potenzialmente innescando disordini lungo il confine settentrionale e aumentando l’attività dei proxy sostenuti dall’Iran. Invece di consolidare la sicurezza, Israele potrebbe quindi trovarsi ad affrontare una confrontazione più ampia, su diversi fronti. Infine, in termini strategici, l’ambizione di eradicare completamente Hamas attraverso l’occupazione rischia di produrre un effetto paradossale: anche se Hamas ne uscisse realmente indebolito o smantellato, i risentimenti emergenti e la narrativa di odio e resistenza ad oltranza potrebbero prendere il sopravvento, generando movimenti successori ancora più estremi.
Pertanto, l’offensiva rischierebbe di portare a conseguenze inverse, sostituendo la prospettiva di una stabilità a lungo termine con un ciclo radicato di occupazione, resistenza e violenza rinnovata.
In definitiva, la traiettoria del conflitto sottolinea che Israele sta perdendo la guerra asimmetrica a Gaza. Il vantaggio fondamentale in tali conflitti risiede nel mantenere una legittimità morale e attenersi alle norme internazionali – un vantaggio che Israele ha progressivamente sprecato. Rispondendo con metodi che rispecchiano quelli di Hamas – caratterizzati da brutalità, disprezzo per la vita dei civili e violazioni aperte del diritto umanitario internazionale – Israele ha offuscato la distinzione tra attore statuale e non. Così facendo, ha minato la propria credibilità, eroso i principi morali essenziali al successo nella contro-insurrezione e, inevitabilmente, rinforzato la narrativa della resistenza che sostiene il suo avversario.
Conclusioni
Tra terrore e democrazia, Gaza ha messo in luce non soltanto una guerra, ma un crollo di valori. Hamas, con la ferocia del 7 ottobre e la continua strumentalizzazione degli ostaggi, ha mostrato ancora una volta il suo disprezzo per le stesse vite che afferma di difendere. Israele, d’altro canto, pur rivendicando il ruolo di “unica democrazia” della regione, indebolisce quella legittimità con risposte sproporzionate, punizioni collettive e politiche che rendono sempre più lontana la prospettiva di uno Stato palestinese.
Il terrorismo mascherato da resistenza da una parte, la democrazia svuotata dall’occupazione coatta dall’altra: insieme hanno trasformato Gaza in una tragedia senza fine.
Questo doppio fallimento destabilizza l’intera regione, corrode il diritto internazionale e mina la fiducia nell’ordine globale. Senza l’abbandono della violenza e dell’unilateralismo, questo conflitto non verrà ricordato come un passo verso la soluzione, ma come una ferita incisa in profondità nella coscienza di una e più generazioni.
Foto IDF

Luca FontanaVedi tutti gli articoli
Il Gen. D. (aus.) Luca Fontana è un professionista con oltre 30 anni di esperienza in operazioni militari, sicurezza internazionale e pianificazione strategica. Ha ricoperto posizioni di alta responsabilità all'interno della NATO, delle Nazioni Unite e delle Forze Armate Italiane, inclusi Vice Capo di Stato Maggiore per il Supporto presso il comando NRDC-Italia della NATO e Capo dei Piani Strategici e Politiche di Difesa presso il Quartier Generale dell'Alleanza Atlantica a Bruxelles. Ha conseguito un Dottorato in Scienze Strategiche, Masters Universitari in Studi Strategici Internazionali e Geopolitica e ha maturato esperienze aziendali e di consulenza supportando progetti di difesa, sicurezza e logistica in Europa e Medio Oriente.