La Spagna dice no agli F-35. Berna per ora li conferma (nonostante i dazi)

La Spagna ha reso noto il 6 agosto di aver scartato l’acquisto degli aerei da combattimento F-35 per puntare su ulteriori Eurofighter Typhoon per il rimpiazzo dell’ottantina ai Boeing F/A-18 attualmente in servizio.
Il ministero della Difesa ha infatti confermato le indiscrezioni pubblicate da El Pais e riprese da Analisi Difesa, dopo le tensioni tra Madrid e Washington per il rifiuto della Spagna di aumentare la spesa per la difesa al 5% del Pil.
Il governo Sanchez aveva stanziato 6,25 miliardi di euro nel bilancio 2023 per l’acquisto di nuovi caccia, ma la pubblicazione britannica Janes aveva per prima riferito che la Spagna stava valutando l’acquisto di un massimo di 50 unità tra F-35A per l’Aeronautica e F-35B per la Marina. Tuttavia, il piano del governo di spendere la maggior parte dei 10,5 miliardi di euro aggiuntivi di spesa per la difesa annunciati per quest’anno esclude l’acquisto dei jet F-35 di Lockheed Martin. Oltre all’Eurofighter, la Spagna investirà con Francia e Germania sull’European Future Combat Air System (FCAS), i cui principali partner industriali sono Dassault Aviation e Airbus.
La rinuncia all’F-35 priverà nel 2030 la Marina spagnola di capacità di combattimento aereo imbarcate col termine della vita operativa dei velivoli STOVL ASV-8B Herrier II Plus, trasformando di fatto la LHD Juan Carlo I in portaelicotteri.
La Svizzera, altra nazione giunta ai ferri corti con gli Stati Uniti per i ritardi nella consegna dei missili da difesa aerea Patriot, per l’aumento dei costi degli F-35 e per i nuovi dazi applicati dall’Amministrazione Trump, ha invece deciso per ora di non cancellare la commessa per i velivoli di Lockheed Martin.
Polemiche che hanno suscitato un aspro dibattito in Svizzera anche se Berna rispetterà l’accordo di fornitura con gli Stati Uniti per l’acquisto di aerei da combattimento F-35 destinato anche nella Confederazione a rimpiazzare gli F/A-18 e del sistema missilistico Patriot, nonostante i dazi del 39% imposti da Washington, come ha detto la presidente elvetica Karin Keller-Sutter in conferenza stampa, interpellata sulle pressioni politiche interne per congelare il contratto da 7,3 miliardi di franchi svizzeri.
“Il Consiglio federale ha ripetutamente affermato che continuerà a utilizzare gli F-35. Se non lo facessimo, non avremmo alcuna difesa aerea”, ha evidenziato.
Il dazio statunitense del 39 per cento sulle esportazioni svizzere – che colpisce anche orologi di lusso e capsule di caffè – è il più alto tra i Paesi sviluppati, contro il 15 per cento applicato all’Ue. Durante una visita d’urgenza a Washington, Keller-Sutter ha incontrato il segretario di Stato Marco Rubio. Secondo il dipartimento di Stato, le parti “hanno ribadito il loro impegno a rafforzare la cooperazione bilaterale in materia di difesa”.
Ciò nonostante, i maxi-dazi al 39% imposti da Donald Trump, secondi soltanto a quelli applicati a Brasile e India, hanno colpito al cuore l’economia elvetica – farmaci, orologi, banche, cioccolata, formaggi e capsule Nespresso. Berna si rifugia nella diplomazia, escludendo “per il momento” ogni tipo di rappresaglia. La politica però comincia a perdere la pazienza e, partito dai banchi della sinistra, il fronte di chi pretende una risposta muscolare si allarga.
Lo scontro è dietro l’angolo: la richiesta di rivedere, se non addirittura congelare, l’acquisto dei caccia F-35 di Lockheed Martin – emblema della cooperazione con Washington – si è levata da verdi, socialdemocratici e persino dagli stessi liberali della presidente Karin Keller-Sutter, decisi a usare il contratto da oltre 9 miliardi di dollari come leva negoziale.
Una linea dura, che verrà discussa in Parlamento a settembre, respinta dalla leader elvetica, che ha ricordato come, senza il contributo Usa, i cieli svizzeri non avrebbero “alcuna difesa aerea”. Il dibattito sfiora la delicata neutralità della Confederazione, che ancora oggi limita l’export militare verso aree di conflitto, Ucraina inclusa.
Ma il nuovo scenario geopolitico ha già spinto il governo a virare, impegnandosi ad acquistare almeno il 30% delle forniture militari da Paesi europei e aprendo un dialogo sulla sicurezza con Bruxelles. La prudenza con gli USA per ora ha prevalso. Rispondere con contro-dazi, nella spiegazione del governo, aggraverebbe i costi per consumatori e imprese già colpiti da tariffe che interessano il 60% dell’export svizzero verso gli Usa. Con la spada di Damocle sospesa sulle big pharma elvetiche – a partire da Roche e Novartis – minacciate da tariffe che potrebbero arrivare fino al 250%. Berna punta su misure di sostegno alle aziende e nuovi colloqui per ottenere un risultato “il più rapidamente possibile”.
L’intesa però “non sarà a ogni costo”, ha avvertito Keller-Sutter, rivendicando che anche la più piccola Svizzera “ha carte forti da giocare”.
Gli sviluppi potrebbero essere imprevedibili e non si può escludere che Berna riapra la gara per il nuovo fighter. Per questo sul piano militare e industriale non ci sarebbe da stupirsi se Dassault, Saab e il Consorzio Eurofighter offrissero a Berna tentassero velivoli Rafale, Gripen e Typhoon. Inizialmente di seconda mano prelevati dalle forze aeree europee che già li impiegano per sopperire alle esigenze elvetiche a breve termine, in attesa di consegnare nuove macchine.
Dopo Canada, Spagna e Portogallo, che hanno rinunciato all’F-35, l’approccio aggressivo verso gli alleati dell’Amministrazione Trump potrebbe far perdere ulteriori contratti militari a Lockheed Martin e all’industria della Difesa statunitense.
Foto: Lockheed Martin, Aeronautica Svizzera e Airbus

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