Dollaro e petrolio dietro l’assedio statunitense al Venezuela

 

Lo spazio aereo sul Venezuela «sia considerato interamente chiuso». Lo ha affermato il presidente Trump all’interno di un post pubblicato sul suo profilo Truth verso la fine di novembre in cui si legge che: «a tutte le compagnie aeree, i piloti, gli spacciatori di droga e i trafficanti di esseri umani: si prega di considerare lo spazio aereo sopra e intorno al Venezuela come chiuso nella sua interezza».

Più recentemente, una quadra operativa composta da personale dell’FBI, della Homeland Security e della Guardia Costiera degli Stati Uniti ha proceduto al sequestro in acque internazionali di una petroliera venezuelana «utilizzata per trasportare petrolio sanzionato proveniente da Venezuela e Iran», ha specificato la procuratrice Pam Bondi.

La quale ha poi spiegato che «per diversi anni la petroliera è stata sanzionata dagli Stati Uniti a causa del suo coinvolgimento in una rete illecita di trasporto di petrolio a supporto di organizzazioni terroristiche straniere. Questo sequestro, completato al largo della costa venezuelana, è stato condotto in modo sicuro, e la nostra indagine insieme alla Homeland Security per prevenire il trasporto di petrolio sanzionato continua».

Una minaccia esplicita, resa particolarmente credibile dalla permanenza nelle acque territoriali prospicienti le coste del Venezuela dell’imponente gruppo navale statunitense composto dalla portaerei USS Ford, cacciatorpedinieri, incrociatori e sottomarini a propulsione nucleare, schierata nel Mar dei Caraibi.

Si tratta del più massiccio dispiegamento di forze mai registrato dalla “crisi dei missili” di Cuba del 1962, clamorosamente sproporzionato rispetto all’obiettivo dichiarato di contrastare efficacemente il narcotraffico.

Un’attività, quest’ultima, a cui il Venezuela risulta, peraltro, sostanzialmente estraneo. Lo ha sottolineato l’ex direttore esecutivo dell’United Nations Office on Drug and Crime (Unoc, l’agenzia antidroga e anticrimine delle Nazioni Unite) Pino Arlacchi, secondo cui «il rapporto Onu 2025 […] menziona appena il Venezuela, affermando che una frazione marginale della produzione di droga colombiana passa attraverso il paese nel suo cammino verso Usa ed Europa.

Il Venezuela, secondo l’Onu, ha consolidato la sua posizione storica di territorio libero dalla coltivazione di foglia di coca, marijuana e simili, nonché dalla presenza di cartelli criminali internazionali.

Il documento non fa altro che confermare i 30 rapporti annuali precedenti, che non parlano del narcotraffico venezuelano perché questo non esiste. Solo il 5% della droga colombiana transita attraverso il Venezuela. Ben 2.370 tonnellate – dieci volte di più – vengono prodotte o commerciate dalla Colombia stessa, e 1.400 tonnellate passano dal Guatemala. Sì […], il Guatemala è un corridoio di droga sette volte più importante di quello che dovrebbe essere il temibile “narco-Stato” bolivariano».

Le analisi che emergono dal rapporto, evidenzia ancora Arlacchi, «raccontano una storia opposta a quella spacciata dall’amministrazione Trump, che smonta la montatura costruita attorno al Cartel de los Soles venezuelano, una supermafia madurista tanto leggendaria quanto il mostro di Loch Ness, ma adatta a giustificare sanzioni, embarghi e minacce d’intervento militare contro un paese che, guarda caso, siede su una delle più grandi riserve petrolifere del pianeta».

Si parla di qualcosa come 303,2 miliardi di barili di riserve petrolifere accertate.

 

Venezuela e Nigeria

Successivamente, anche la Nigeria, altro grande Paese produttore di petrolio (riserve provate pari a 37,2 miliardi di barili) è diventata oggetto delle attenzioni del presidente Trump.

Attraverso un post sul suo profilo Truth, l’inquilino della Casa Bianca ha annunciato di aver incaricato il Dipartimento della Guerra di prepararsi a una possibile azione contro i gruppi terroristi di matrice islamica che imperversano «in questo Paese caduto in disgrazia» facendo strage di cristiani. Daniel Bwala, consigliere del presidente nigeriano Bola Tinubu, ha dichiarato che il governo di Abuja «accoglie con favore il supporto degli Stati Uniti nella lotta contro gli insorti islamici, a condizione che la sua integrità territoriale venga rispettata».

La presa di posizione non si è rivelata sufficiente a moderare la vena interventista di Trump, il quale ha riaffermato i propri intendimenti minacciando di penetrare in Nigeria «con le armi spiegate», e annunciando di aver incaricato il Dipartimento della Guerra di predisporre una “possibile azione” contro i gruppi islamisti.

L’interesse degli Stati Uniti per le aree in cui si concentrano ingenti riserve di petrolio è tutt’altro che nuovo, ma nella fase attuale risponde a diverse esigenze specifiche. A partire dal friendshoring, ovvero la riconfigurazione delle relazioni commerciali con l’estero intesa a incentivare una «stretta cooperazione per catene di approvvigionamento resilienti con alleati e partner che condividano i nostri valori, in modo da promuovere la sicurezza economica e nazionale collettiva», come recita l’or­dine esecutivo America’s Supply Chain firmato da Biden il 24 febbraio 2021. Si tratta, in altri termini, di costruire catene di fornitura il più indipendenti possibile dalla Cina e facenti perno su Paesi rispetto ai quali gli Stati Uniti sono in grado di esercitare un’influenza decisiva.

Il concetto si riscontra anche all’interno della recentissima National Security Strategy,  in cui si legge che «il rafforzamento delle catene di approvvigionamento critiche in questo emisfero ridurrà le dipendenze e aumenterà la resilienza economica statunitense. I legami creati tra gli Stati Uniti e i partner andranno a vantaggio di entrambe le parti, rendendo al contempo più difficile per i concorrenti non emisferici aumentare la propria influenza nella regione».

L’approfondimento delle partnership con i Paesi dell’America Latina deve procedere di pari passo con «l’espansione della nostra rete regionale. Vogliamo che le altre nazioni ci considerino il loro partner di prima scelta e (attraverso vari mezzi) scoraggeremo la loro collaborazione con altri. L’emisfero occidentale ospita molte risorse strategiche che gli Stati Uniti dovrebbero sviluppare in collaborazione con gli alleati regionali».

I concorrenti non emisferici «hanno compiuto importanti incursioni nel nostro emisfero, sia per svantaggiarci economicamente nel presente, sia in modi che potrebbero danneggiarci strategicamente in futuro. Permettere queste incursioni senza una seria reazione è un altro grave errore strategico americano degli ultimi decenni. Gli Stati Uniti devono avere un ruolo preminente nell’emisfero occidentale come condizione per la nostra sicurezza e prosperità.

Una condizione che ci consenta di affermarci con sicurezza dove e quando necessario nella regione. I termini delle nostre alleanze e le condizioni in base alle quali forniamo qualsiasi tipo di supporto devono essere subordinati alla riduzione dell’influenza degli avversari non emisferici, dal controllo di installazioni militari, porti e infrastrutture chiave all’acquisizione di asset strategici in senso lato».

Alcune influenze straniere, riconosce il documento, «saranno difficili da invertire, dati gli allineamenti politici tra alcuni governi latinoamericani e alcuni attori stranieri. Tuttavia, molti governi non sono ideologicamente allineati con le potenze straniere, ma sono invece attratti dal fare affari con loro per altri motivi, tra cui bassi costi e minori ostacoli normativi».

Soprattutto, «la scelta che tutti i Paesi dovrebbero affrontare è se vogliono vivere in un mondo guidato dagli Stati Uniti, con Paesi sovrani ed economie libere, o in un mondo parallelo in cui sono influenzati da Paesi dall’altra parte del mondo».

 

Le sanzioni

 L’altro obiettivo, meno palese ma parimenti rilevante, verte sul ripristino del legame storicamente strettissimo tra dollaro e petrolio, grazie al quale gli Stati Uniti hanno consolidato la supremazia economica e geopolitica acquisita al termine della Seconda Guerra Mondiale. Questo vincolo ha conferito a Washington un’incommensurabile capacità di condizionamento sul resto del mondo.

Un esempio lampante ne sono le sanzioni unilaterali, che permettono a Washington di affermare il primato del diritto commerciale statunitense su quello internazio­nale facendo leva sulla centralità rivestita dal dollaro negli scambi internazionali.

Le statistiche fornite dal Dipartimento del Tesoro indicano che, nel solo 2017, gli Usa abbiano sottoposto a sanzioni circa 1.500 soggetti tra individui, imprese, Stati e altre enti­tà. Si tratta di un aumento del 50% su scala annuale, che per quanto drastico risulta coerente con la crescente tendenza all’impiego dello strumento sanzionatorio registrata sotto le amministrazioni Bush (circa 400 sanzioni in più ogni anno) e Obama (circa 600 san­zioni in più ogni anno).

Nel conteggio non rientrano peraltro le sanzioni secondarie, che colpiscono qual­siasi entità – riconducibile non di rado da Paesi al­leati degli Usa – connessa in una qualche forma con soggetti sottoposti a sanzionamento diretto da parte degli Stati Uniti.

Come rileva «The Economist», «la stagione unipolare degli anni ’90, quando la supremazia americana era incontrastata, è passata da tempo, e la brama dell’Occidente per l’uso della for­za militare è svanita dopo le guerre in Afghanistan e Iraq. Le sanzioni sembrano offrire una risposta, con­sentendo all’Occidente di esercitare il potere attraverso il controllo delle reti finanziarie e tecnologiche al centro dell’economia del XXI Secolo».

Allo stato attuale, le sanzioni dirette statunitensi colpiscono oltre 10.000 entità straniere, tra cui Paesi come Iran, Venezuela e Russia. Oltre il 60% delle nazioni a basso reddito sono sottoposte a qualche forma di sanzione finanziaria statunitense.

Numero delle entità a cui sono state imposte e revocate sanzioni dall’Office of Foreign Assets Control

 

Secondo quanto riportato dal «Washington Post» nel luglio 2024, gli Stati Uniti hanno imposto «tre volte più sanzioni di qualsiasi altro Paese o organismo internazionale, prendendo di mira un terzo di tutte le nazioni con qualche tipo di sanzione finanziaria rivolta a persone, proprietà o organizzazioni. Sono diventate un’arma quasi automatica in una guerra economica perpetua, e il loro uso eccessivo è riconosciuto ai massimi livelli governativi.

Ma i presidenti americani trovano questo strumento sempre più irresistibile. Isolando coloro che le subiscono dal sistema finanziario occidentale, le sanzioni possono schiacciare industrie nazionali, cancellare fortune personali e sconvolgere l’equilibrio del potere politico in regimi problematici, il tutto senza mettere in pericolo un solo soldato americano.

Nonostante la proliferazione delle sanzioni, la preoccupazione per il loro impatto è cresciuta […]. Il potere delle sanzioni risiede nel negare agli attori stranieri l’accesso al dollaro. Ma se le sanzioni rendono rischioso dipendere dal dollaro, le nazioni potrebbero trovare altri modi per commerciare, eludendo completamente le sanzioni statunitensi».

Le pur temibili e altamente distruttive – quanto a impatto economico per i soggetti colpiti – misure punitive statunitensi manifestano in altri termini una declinante efficacia rispetto al passato, che affonda le radici proprio nell’indebolimento del rapporto simbiotico tra dollaro e petrolio di cui vale la pena ripercorrere la storia.

 

Il ritorno della “diplomazia delle cannoniere”

L’aggressività statunitense nei confronti del Venezuela, così come le minacce di invasione della Nigeria formulate dal presidente Trump e le azioni offensive mosse contro l’Iran, potrebbero rivelarsi funzionali a una linea d’azione orientata alla riaffermazione del predominio del dollaro sul mercato dell’energia, sempre più insidiato dall’attivismo cinese, dalla bulimia sanzionatoria statunitense e dagli stravolgimenti nelle catene di approvvigionamento globali prodotti dal conflitto russo-ucraino.

Si tratta di un obiettivo fondamentale, non soltanto per preservare l’egemonia internazionale di Wall Street come centro di riciclaggio dei petrodollari, ma anche e soprattutto per rafforzare il potere di extraterritorialità garantito agli Stati Uniti dallo status globale della propria valuta.

Un privilegio che appare sempre meno sostenibile, come attestato dal declino graduale delle riserve ufficiali estere denominate in dollari e dal crescente interesse manifestato dalle Banche Centrali straniere verso l’oro, associato a un declino tendenziale delle detenzioni internazionali di titoli di Stato statunitensi.

«Il principale ambito in cui si determinerà il destino del dollaro è il mercato delle materie prime, a partire da quello petrolifero», sottolineava già nel 2018 Gal Luft dell’Institute for the Analysis of Global Security.

Che il presidente Trump sia approdato alla stessa conclusione?

Foto: US Dept of War

Mappa: BBC

 

Giacomo GabelliniVedi tutti gli articoli

Analista economico e geopolitico, saggista, gestore del canale YouTube "Il Contesto | Analisi economica a geopolitica" e dell'omonimo sito web. Ha all'attivo numerose collaborazioni con testate sia italiane che straniere, tra cui le riviste "La Fionda" e "Krisis" e il quotidiano cinese "Global Times". È autore di numerosi volumi, tra cui Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell'ordine economico statunitense (Mimesis, 2021), Ucraina. Il mondo al bivio (Arianna, 2022), Dottrina Monroe. L'egemonia statunitense sull'emisfero occidentale (Diarkos, 2022), Taiwan. L'isola nello scacchiere asiatico e mondiale (LAD, 2022), Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana (Diarkos, 2023), Scricchiolio. Le fragili fondamenta di Israele (Il Cerchio, 2025).

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