Se la Storia insegna che il mondo militare e la Filosofia non sono poi così distanti

Ad ogni persona di buon senso può sembrare strana la recente presa di posizione del dipartimento di Filosofia dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna («scelta autonoma», ha dichiarato Giovanni Molari, Rettore dell’Ateneo), che ha respinto la richiesta avanzata dal generale Carmine Masiello, attuale Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, ossia la figura di più alto livello, dopo il Ministro della Difesa, delle Forze armate, di avviare un corso di Filosofia, riservato ad un gruppo selezionato di giovani cadetti dell’Accademia Militare di Modena, al fine di stimolare in loro lo sviluppo del pensiero critico. «Ho chiesto all’Università di avviare un corso per 10-15 ufficiali», ha dichiarato il generale «ma la richiesta è stata respinta per timore di militarizzare la facoltà».
Può sembrare strana perché costoro non sono a conoscenza della deriva ideologica che la filosofia dominante ha preso negli ultimi secoli; un pensiero che ha abbandonato il principio di realtà come criterio di giudizio della realtà, sostituendolo con quello di soggettività: vero è “non” ciò che corrisponde alla realtà concreta, ma ciò che sento emotivamente e soggettivamente.
E quando il criterio del lavoro filosofico diventa soggettivo, è evidente che i filosofi possono accampare le scuse che vogliono per respingere una richiesta singolare, perché non devono rendere conto a nessuno di quanto insegnano o vanno dicendo. «Non ci sono altre branche del sapere», scrisse Ludwig Wittgenstein, il maggior filosofo del primo Novecento, «in cui un autore possa infischiarsene della ricerca onesta con altrettanta impunità di quanta gli sia garantita nel campo della filosofia».

Il mondo militare è un mondo pragmatico, perché è orientato per sua natura al raggiungimento di obiettivi e alla risoluzione pratica dei problemi sorti in situazioni spesso critiche e ad alto rischio, talvolta ad altissimo rischio, se non estremo, come quello di una guerra. Non sorprende quindi che il dipartimento di Filosofia di una Università italiana, vista la deriva che ha preso il pensiero filosofico dominante occidentale negli ultimi secoli, declini la richiesta avanzata dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano di istituire un corso di Filosofia, riservato ad un gruppo selezionato di promettenti soldati.
Eppure, le cose non sono sempre state così. Anzi, il rapporto fra la filosofia e guerra, fra il pensiero greco e il mondo militare, non fu sganciato, ma strettamente connesso, fin dalle origini.
Eraclito di Efeso, che fu il maggiore filosofo presocratico greco (i presocratici furono i primi pensatori, prima ancora di Socrate, ad indagare intorno alla natura della realtà e dell’universo, per cercare di individuare il principio originario, l’archè, da cui derivano tutte le cose), scrisse che la «guerra» è la «madre di tutte le cose». Più precisamente: «La guerra è comune a tutti gli esseri, è la madre di tutte le cose (Sulla Natura, frammento 53)». Lo scrisse osservando le tensioni esistenti fra forze opposte e irriducibili, che generavano e plasmavano la realtà del suo mondo, in un tempo di profonda crisi spirituale.
La filosofia non nacque per caso o per motivi artistici, ma fu una reazione mentale ad una crisi spirituale, quella che colpì profondamente la Grecia antica a cavallo tra il VI e il V secolo a.C., la quale generò una serie di terribili tensioni che confluirono poi nella tragica guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), il lungo e sanguinoso conflitto tra la città di Sparta e quella di Atene, che determinò la fine della civiltà greca.

Socrate, il filosofo greco che l’oracolo di Delfi definì il più sapiente degli uomini, partecipò alla guerra del Peloponneso, combattendo come oplita ateniese in tre battaglie significative: Potidea (432 a.C.), Delio (424 a.C.) e Anfipoli (422 a.C.), dimostrando la vicinanza del filosofo alla realtà militare di quella città-stato (polis) che fu Atene.
L’ Apologia di Socrate, la trascrizione magistrale fatta da Platone della difesa (Apologia) intrapresa da Socrate nel corso di un processo pubblico, rappresenta ancora oggi una pietra miliare della storia del pensiero occidentale. Le accuse formali che gli furono rivolte erano di empietà (mancanza di rispetto verso ciò che era ritenuto sacro), neopaganesimo (credere a nuovi dèi) e di corruzione (dei giovani), ma le ragioni “sostanziali” erano riconducibili a questioni legate alla guerra e alle cause della sconfitta dell’esercito ateniese.
La sua condanna a morte, formulata nel 399 a.C., divenne un simbolo del conflitto esistente nell’uomo tra la sua integrità morale e le convenzioni sociali, tra la libertà e il potere, temi che ogni grande pensatore dopo Socrate ha messo in evidenza nelle sue riflessioni.
Si badi, non solo Socrate, il primo grande filosofo della storia, fu un soldato, ma anche il suo maggiore allievo Platone servì nell’esercito ateniese. Aristotele, il maggiore allievo di Platone, che superò il maestro in grandezza, fu il precettore nientemeno che di Alessandro Magno. Come non ricordare i celebri Pensieri scritti dall’Imperatore Marco Aurelio, il Re filosofo che in epoca romana combatté contro i Parti in Oriente e trascorse molti anni lungo le sponde del fiume Danubio per respingere le invasioni delle tribù germaniche.

Il suo pensiero “stoico”, frutto delle riflessioni introspettive sul senso della vita e della necessità del distacco dalla realtà, ha ispirato il pensiero di generazioni di filosofi, di soldati, ma anche di semplici individui tesi alla ricerca della pace interiore.
Pochi anni dopo il tragico Sacco di Roma (410 d. C.), un segnale traumatico e simbolico del declino imperiale che avvenne circa 66 anni dopo, nel 476 d.C., quando Odoacre depose l’ultimo imperatore romano, si levò la voce di Agostino d’Ippona che definì i capisaldi della dottrina cattolica sui doveri del soldato cristiano ed affrontò in maniera saggia il tema della guerra e della pace.
In particolare, ne La città di Dio, scritto tra il 413 e il 426, il filosofo cattolico formulò con esemplare chiarezza la distinzione tra “guerra giusta” e ingiusta, aprendo lo spazio ad un pensiero teologico che diede all’Occidente la possibilità di rinascere e dare vita, di concerto con l’opera capillare dei monaci benedettini, a quel millennio d’oro che venne chiamato Medioevo.
Santi Guerrieri come Giovanna D’Arco e i Martiri di Otranto, la cavalleria medievale, l’istituzione dell’ordine Ospitaliero e dei Cavalieri Templari, la cui regola venne scritta dal teologo e filosofo cistercense San Bernardo di Chiaravalle, non sarebbero potuti esistere e fare argine col loro eroismo alle minacce terribili che in quei secoli difficili incombettero sui popoli europei, permettendo così alla civiltà occidentale di rifiorire.
Una oscura filosofia illuminista di origine settecentesca mise in ombra, all’inizio dell’epoca moderna, il pensiero di quei filosofi antichi e medievali che ebbero il coraggio di guardare in faccia la realtà e reggere lo sguardo, rompendo l’originario connubio fra guerra e filosofia, formulando una ideologia pacifista, sganciata dalla realtà, il cui principale teorico fu il celebre filosofo di Königsberg, ossia Immanuel Kant, che nel 1795 scrisse il famoso saggio Per la pace perpetua, secondo cui la guerra è una malattia del genere umano, estirpabile definitivamente attraverso l’istituzione di un sistema giuridico internazionale basato su una federazione di stati repubblicani, in cui la guerra è eliminata definitivamente attraverso un patto tra stati, stipulabile seguendo quei principi del diritto e della nuova morale da lui formulata, dove le virtù guerriere non sono contemplabili.

Scherzo del destino, quella città prussiana che si chiamava Königsberg, oggi non esiste più, e neppure la Prussia. Morta a causa della violenta offensiva sovietica iniziata nel 1945, culminata nella caduta di Königsberg, ribattezzata Kaliningrad in onore di Mikhail Kalinin, presidente del Soviet Supremo dell’URSS, dopo che l’Unione Sovietica annesse la città in seguito all’esito della Seconda Guerra Mondiale.
Il pensiero di Kant e dei suoi epigoni però non è morto. Anzi, è più vivo che mai, ed ha il volto umbratile di quelle filosofie molto di moda nei giorni d’oggi, che prendono il nome di “ermeneutica”, “pensiero debole”, “relativismo” ma anche “libertarismo” o “transumanesimo”, quest’ultimo nella versione più degenerata, ossia quella teorizzata nel 2015 da Yuval Noah Harari in Homo Deus: Breve storia del futuro, dove, appunto, il futuro dell’umanità è descritto dal filosofo israeliano come una linea determinata, la cui traiettoria è guidata unicamente dalla tecnologia e dalla ricerca della felicità e dell’immortalità divina.
Qualcosa di simile a ciò che viene raccontato nel ciclo della Fondazione, il romanzo fantascientifico pubblicato da Isaac Asimov nel 1951, dove la direzione dell’Impero Galattico, che regna sovrano su milioni di pianeti, segue inesorabilmente la traiettoria teorizzata dallo scienziato e matematico Hari Seldon, fondatore della rivoluzionaria scienza della “psicostoria”, che utilizza equazioni statistiche per prevedere il futuro.
Il tratto comune delle filosofie descritte sopra è sempre lo stesso: la realtà oggettiva, il senso del mondo, come teorizzava Kant, non esiste. Ciò che esiste è solo la volontà soggettiva dell’individuo, il cui desiderio deve essere soddisfatto all’infinito.
Per costoro il dramma dei conflitti traumatici dell’individuo, la tragicità delle guerre tra popoli o i problemi di chi lavora nei settori della sicurezza, sono temi obsoleti che non devono entrare nel dibattito filosofico.

Figuriamoci quindi se nei dipartimenti di Filosofia entrassero persone il cui mestiere è quello delle armi, con indosso il kepi, i guanti in pelle e spadino, come prevede l’uniforme dei cadetti, educati fin dal principio della loro carriera a considerare la morte come una opzione possibile e a subordinare i propri desideri soggettivi alla sicurezza dei cittadini che vivono nella loro Patria. Succederebbe proprio quello che è accaduto ai responsabili di coloro che hanno a cuore la formazione dei giovani cadetti, che sono stati messi alla porta dall’Istituzione universitaria.
Tutto questo è comprensibile (nelle osservazioni fatte sopra ho cercato di spiegarne le ragioni) però è moralmente inaccettabile, perché ipocrita. È infatti insensato il fatto che ai direttori dei moderni dipartimenti di Filosofia sia permesso di chiudere la porta ai giovani cadetti con la scusa che “militarizzerebbero la facoltà”, ma sia consentito agli stessi di aprire quelle delle loro abitazioni, qualora qualche male intenzionato tentasse di violare la loro comoda abitazione, nel tentativo di appropriarsi dei loro beni o di aggredirli. In quel caso sono sicuro che i transumanisti aprirebbero molto volentieri la porta a chi indossa la divisa con le mostrine ed i gradi sulle spalle, segno di appartenenza ad uno specifico corpo militare, perché potrebbero salvare la loro vita.
È solo grazie al sacrificio di uomini che indossano quotidianamente la divisa, che queste anime belle possono di giorno diffondere il pensiero transumano e di notte dormire sonni tranquilli nei loro soffici e caldi letti. Qualcuno dovrebbe ricordarglielo, ma sarebbe un lavoro sprecato, perché l’ambiguità è proprio un tratto caratteristico di quei pensatori che nei giorni d’oggi dominano il dibattito filosofico.
La triste realtà è che i filosofi professionisti possono continuare a teorizzare la morte di Dio, la fine della storia, l’inesistenza della realtà, la supremazia della soggettività, la futura immortalità dell’uomo, senza rendere conto a nessuno di quanto vanno dicendo o scrivendo. Alla fine del mese il loro stipendio è assicurato, nei talk show saranno considerati come delle star e a fine carriera gli spetterà una lauta pensione. Solo nell’ex Unione Sovietica, che io sappia, quando la società comunista implose, i titolari delle cattedre di Filosofia Marxista persero il lavoro.

Chi scrive molti anni fa trascorse tre mesi della sua vita presso il Palazzo Ducale di Modena, collaborando alla selezione dei giovani aspiranti cadetti dell’Accademia di cui in questo articolo si parla. In quei mesi visitai diverse volte l’Istituto militare e conobbi personalmente alcuni cadetti. Ai miei occhi mi parvero veramente la “meglio gioventù” di quella generazione e ammirai la loro disciplina, lo spirito di sacrificio, l’integrità morale e il rispetto che avevano per i loro superiori.
Alla luce di ciò mi permetto di suggerire al generale Masiello di aprire le porte dell’Accademia ai giovani aspiranti filosofi dell’Università di Bologna, creando un percorso formativo a loro dedicato. E non lo dico con ironia. Nel 1915, nel corso della Prima guerra mondiale, presso il fiume Isonzo, oltre il quale erano attestate le postazioni fortificate austro-ungariche, tra le fila dell’esercito nemico v’era anche il giovane Ludwig Wittgenstein, colui che, come accennato sopra, sarebbe diventato il maggiore filosofo della prima metà del Novecento.
Sebbene fosse stato esonerato dall’esercito in seguito ad un’operazione all’ernia inguinale, decise ugualmente di arruolarsi come volontario. Le motivazioni reali di quel gesto inconsueto però, non erano unicamente individuabili nelle ragioni patriottiche di un giovane austriaco: «So per certo – scrisse nei suoi ricordi la sorella Hermine – che non era motivato soltanto dalla volontà di difendere la patria. Aveva un intenso desiderio di affrontare un’impresa ardua». Le motivazioni profonde rispondevano cioè più al bisogno spirituale di sottoporsi ad un rito iniziatico che alla necessità di natura politica di difendere un territorio.

«Come posso essere un filosofo se non sono ancora un uomo!», aveva scritto in una lettera al filosofo inglese Bertrand Russell, che tanto si era adoperato affinché egli si trasferisse ad Oxford per studiare sotto la sua maestranza. In un momento particolarmente drammatico del conflitto, perché l’esercito russo era «alle calcagna!», Wittgenstein annotò: «Dio sia con me. Ora avrei la possibilità di essere una persona decente, perché mi trovo faccia a faccia con la morte. Che lo spirito mi illumini».
Giocare la partita con la morte per diventare una “persona decente”; questa era la ragione profonda per cui il giovane Wittgenstein si era arruolato come volontario in una guerra che doveva essere breve, ma che fu lunga e provocò milioni di morti.
Non chiediamo ai giovani aspiranti filosofi di sottoporsi ad una prova così estrema come quella a cui si sottopose il giovane aspirante filosofo viennese, ma sono certo che un percorso a loro dedicato in Accademia sarebbe di gran giovamento, perché potrebbero finalmente cominciare a misurarsi con la realtà concreta, prima di iniziare a dedicarsi alle speculazioni filosofiche.
Se ciò potesse veramente accadere, non credo che un domani, qualora un lungimirante generale chiedesse all’Alma Mater Studiorum di Bologna, di avviare un corso di Filosofia, riservato ad un gruppo selezionato di giovani cadetti, si vedrebbe respingere la richiesta , «per timore di militarizzare la facoltà».
Foto Esercito Italiano
Riccardo MichelettiVedi tutti gli articoli
Laureato in Filosofia e membro della Società Italiana di Intelligence (SOCINT). La sua attività principale sono gli studi di Business History.
