Somaliland: l’iniziativa israeliana che scompagina il Corno d’Africa

Il riconoscimento del Somaliland da parte di Israele non è un colpo di testa diplomatico né una provocazione simbolica. È una scelta di realpolitik che rompe un tabù lungo più di trent’anni e introduce un fattore di instabilità calcolata in uno dei quadranti più sensibili del sistema globale.
Un territorio rimasto finora giuridicamente invisibile entra improvvisamente nella partita strategica, trascinando con sé reazioni nervose, silenzi eloquenti e imbarazzi difficili da mascherare, soprattutto a Washington.
Il Somaliland esiste dal 1991, nato dal collasso della Somalia post-Siad Barre. Da allora ha costruito istituzioni funzionanti, un apparato di sicurezza efficace, una moneta, elezioni regolari e un controllo territoriale stabile. In altre parole, tutto ciò che definisce uno Stato, tranne l’unico elemento che conta davvero nel sistema internazionale: il riconoscimento politico. Non è mai stato un problema giuridico, ma una scelta politica collettiva, dettata dal timore di legittimare la frammentazione africana.

Eppure la geografia ha continuato a lavorare in silenzio. Affacciato sul Golfo di Aden, a ridosso dello stretto di Bab el-Mandeb, il Somaliland occupa una posizione chiave tra Oceano Indiano e Mar Rosso. È uno snodo vitale per il commercio mondiale, per le rotte energetiche e per l’equilibrio militare regionale. In un contesto segnato dagli attacchi houthi, dalla militarizzazione delle coste e dal ritorno della pirateria, quel tratto di costa non è più periferia, ma centro.
Israele lo ha capito prima di altri. La decisione di riconoscere Hargheisa risponde a una logica fredda e lineare: assicurarsi una profondità strategica sul versante africano del Mar Rosso e ridurre la vulnerabilità delle proprie linee marittime.
In questo quadro, il Somaliland diventa un partner ideale: stabile, ostile ai gruppi jihadisti, interessato a uscire dall’isolamento e disposto a inserirsi nell’architettura degli Accordi di Abramo. Non è solo un gesto diplomatico, ma l’estensione geografica della dottrina di sicurezza israeliana.
La mossa mette però Washington in difficoltà. Gli Stati Uniti continuano a sostenere formalmente l’integrità territoriale della Somalia, considerata un alleato nella lotta contro al-Shabaab.

Allo stesso tempo non possono ignorare l’interesse strategico di Israele né il peso crescente di altri attori nella regione, dalla Turchia alla Cina, passando per gli Emirati. La prudenza americana non è un rifiuto, ma una gestione del tempo. Rimandare significa osservare, valutare, lasciare che siano altri a esporsi per primi.
Ankara, al contrario, reagisce con durezza. La Turchia ha investito molto in Somalia, sia sul piano militare sia su quello economico, e legge il riconoscimento del Somaliland come una minaccia diretta alla propria influenza.
Per la dottrina turca, la difesa degli Stati centrali contro le spinte separatiste è una linea rossa. L’Egitto condivide l’allarme, temendo che un nuovo attore nel Mar Rosso alteri equilibri già compromessi dalla guerra a Gaza e dalla crisi yemenita. Anche Gibuti osserva con preoccupazione una competizione strategica che rischia di trasformare il Corno d’Africa in un mosaico di basi e alleanze contrapposte.
In questo scenario, il silenzio dell’Etiopia è forse l’elemento più eloquente. Paese senza sbocco al mare, Addis Abeba vede nel Somaliland una possibile soluzione strutturale al proprio isolamento geografico. Il porto di Berbera rappresenta un’opportunità strategica di prim’ordine a cui Addis Abeba potrà accedere in base all’accordo siglato col Somaliland nel gennaio 2024.
Un riconoscimento progressivo del Somaliland indebolirebbe Mogadiscio e aprirebbe una finestra storica per ridisegnare gli equilibri regionali. L’attesa etiope non è neutralità, ma calcolo.

L’Unione Africana denuncia un precedente pericoloso, rifugiandosi nel principio dell’intangibilità delle frontiere ereditate dalla decolonizzazione. Ma questo principio entra sempre più spesso in collisione con la realtà.
Il Somaliland funziona meglio di molti Stati riconosciuti, mentre la Somalia resta fragile, frammentata e sostenuta artificialmente da missioni internazionali. Israele, con la sua decisione, pone una domanda che l’Africa e la comunità internazionale evitano da decenni di porsi: fino a che punto ha senso negare l’evidenza sul terreno in nome di un ordine giuridico che non produce stabilità?
Che lo si approvi o lo si condanni, il riconoscimento del Somaliland segna un passaggio. Non crea il problema, ma lo rende visibile. Nel Corno d’Africa, come altrove, non è il diritto a guidare la geopolitica, ma la geografia. E quando la geografia torna a dettare legge, le diplomazie possono solo inseguire.
Foto Time of Israel, Britannica e Foreign Policy in Focus
Giuseppe GaglianoVedi tutti gli articoli
Nel 2011 ha fondato il Network internazionale Cestudec (Centro studi strategici Carlo de Cristoforis) con sede a Como, con la finalità di studiare in una ottica realistica le dinamiche conflittuali delle relazioni internazionali ponendo l'enfasi sulla dimensione della intelligence e della geopolitica alla luce delle riflessioni di Christian Harbulot fondatore e direttore della Scuola di guerra economica (Ege). Gagliano ha pubblicato quattro saggi in francese sulla guerra economica e dieci saggi in italiano sulla geopolitica.








