Tutto il resto è Naja

Cantavamo così, parafrasando Franco Califano e prendendo in giro gli Allievi, o le Reclute, con la varietà dei nomignoli coi quali i “Nonni” appellavano i soldati più giovani. Tranquilli, non è un amarcord, l’evocazione ha uno scopo.
Il tutto cominciava con l’arrivo della “cartolina”, la convocazione alla visita di Leva allo scoccare dei diciotto anni del maschio italiano, al quale seguiva, almeno nell’arco alpino, la “Festa della Classe”, che in molti luoghi ancora si conserva e si celebra. Marcia per i paesi, colletta tra le case, celebrazione con un certo grado alcolico e canti, sotto gli sguardi preoccupati delle mamme, compiaciuti dei padri e velati di lacrime dei nonni, che avevano celebrato lo stesso rito per poi partire per la Russia (rectius: Ucraina, per lo più, guarda la storia come si ripete), l’Africa Orientale Italiana o quella Settentrionale, dalle quali tanti amici non erano tornati.
Non lo dico per lodare i tempi antichi, ma per sottolineare come la “Naja” non fosse un fatto individuale e personale. Era una intera “classe di leva” che partiva per adempiere -pur tra differenze di opinioni e problemi non banali- all’unico Dovere che la Costituzione definisce “sacro”, la difesa della Patria. Magari giova ricordare che nessuno ha mai cambiato la Costituzione, e che l’esercizio di quel dovere, giuridicamente, è solo sospeso. Resta sacro, e resta un dovere.

Era, quindi, una faccenda collettiva, che riguardava tutto il Popolo ed ogni famiglia, prima e al di sopra del singolo najone. A vent’anni o giù di lì, ci affidavano un carro armato da qualche miliardo di lire, un obice che sparava a trenta chilometri di distanza, un missile controcarri, fucili carichi, munizioni da guerra. E -udite udite- ci davano tutto questo senza aprirci un account né chiederci un consenso esplicito.
Anche i ragazzi di più modesta cultura avevano chiaro in mente cosa significava “difendere la Patria”. Fare qualcosa -magari il meno possibile e il più vicino possibile a casa- che richiedeva un po’ di addestramento e di sacrificio, in un ambiente nel quale si pretendevano rispetto ed obbedienza, cura della persona e dell’uniforme, rispetto della forma nei rapporti personali.
Un’esperienza nel corso della quale decine di migliaia di ragazzi prendevano la Licenza Media o imparavano un mestiere, o prendevano una patente che magari avrebbero avuto difficoltà a pagare. E in un ambiente nel quale un ingegnere milanese, un contadino veneto, un ragioniere piemontese, uno studente universitario siciliano erano del tutto uguali di fronte alla pulizia dei bagni, alla corvè cucina, alla notte di guardia in polveriera o alla tabella puniti. Era l’unica occasione vera di mescolanza di qualsiasi strato sociale o livello economico e culturale.
Tutto questo richiedeva Distretti, Maricentri ed Ospedali Militari, nei cui uffici qualcuno finiva per imboscarsi, che costellavano i capoluoghi di Provincia e le maggiori città. E poi Reparti di addestramento, caserme, porti, aeroporti, depositi, poligoni, arsenali e polveriere, automezzi, logistica. Assai poco di tutto questo esiste più: alcune caserme sono state cedute ad altri enti, a Bolzano sono state rase al suolo con soddisfazione di una certa parte del popolo, altrove sono diventati centri di accoglienza per stranieri, ma più in generale cascano a pezzi.

L’ex caserma del 3° Reggimento Bersaglieri, viale Suzzani a Milano.
Il servizio militare obbligatorio, e comunque avere delle Forze Armate di una certa dimensione, quindi, non sono principalmente un problema legislativo. Richiedono in primis un Popolo che abbia dei valori condivisi, un’attitudine al sacrificio personale, un senso del dovere e della disciplina, delle famiglie e dei luoghi da difendere, se serve, anche con la vita. Una Patria.
Richiedono un complesso di strutture e di mezzi che vanno comprati, pagati e mantenuti con una parte delle spese comuni, il che comporta necessariamente la rinuncia a qualcos’altro. Richiedono Reparti che abbiano un’anima, una storia, delle tradizioni che noi abbiamo sistematicamente distrutto, ridicolizzato, ignorato, sepolto.
E richiedono una impostazione ben precisa, secondo la prospettiva militare del “Metodo nella risoluzione del problema operativo”, che si studia nei Corsi di Stato Maggiore e che viene dalla scuola dell’Auftragstaktik prussiana.
Essa deve tener conto della “minaccia”, delle “condizioni” e delle “risorse” disponibili, al fine di elaborare una “pianificazione” ed una “previsione” sulla base di “priorità”. Ma è essenziale ricordare che i primi due passi del metodo sono “Esame dello scopo” ed “Esame del compito”, ossia “perché” e “cosa” devo fare.

Non possiamo prescindere dalla realtà di fatto del venir meno di un perché condiviso. E ciò emerge chiaramente dall’ormai famoso e recente Rapporto Censis “Italiani in guerra” sulla propensione alla difesa. “Dulce et decorum est pro patria mori”, è dolce e onorevole morire per la patria, diceva Orazio.
Sarà per quello che abbiamo abbandonato lo studio del latino? Dobbiamo essere realistici, perché la percentuale degli italiani tra i 18 ed i 45 anni che sarebbe disposta a combattere è inferiore a quella che scapperebbe all’estero, ed assai inferiore a quella dei renitenti che sceglierebbero la “lotta pacifista”, divenendo di fatto un nemico interno il cui contenimento distrarrebbe molte forze e risorse.
By the way, questo era esattamente il risultato al quale mirava l’Unione Sovietica nell’alimentare il pacifismo antagonista in Occidente durante la Guerra Fredda.
L’Università di Bologna, di fatto, ha già aperto le danze in tal senso. Ma consoliamoci: il CENSIS ci ha restituito una realtà non dissimile (se non addirittura migliore) di quella del resto dell’Europa, con poco gaudio nel mal comune.
Gli osservatori paragonano la nostra situazione solamente con quella di Germania e Francia, e correttamente. Uno strumento militare serio richiede una certa dimensione demografica e geografica, il che esclude -per esempio- il tanto celebrato Nord Europa, composto com’è da staterelli assai piccoli e popoli piuttosto striminziti. Lettonia, Estonia e Lituania assieme hanno la popolazione del Lazio, il che peraltro dovrebbe farci riflettere sulla rappresentatività di certi personaggi di vertice della UE in queste materie (sulla levatura dei quali è meglio non pronunciarsi nemmeno).

Aggiungendo alle tre Repubbliche Baltiche anche Olanda, Belgio, Svezia, Danimarca e Finlandia, non si arriva ancora alla popolazione della sola Italia… Qualche conto bisogna pur farlo, perché il Metodo parla anche di “risorse”. Ne consegue che a noi sia richiesto un impegno molto maggiore, cosa che non sarebbe equa dato che dovremmo sobbarcarci una parte dello sforzo a loro vantaggio. La Svezia lo sa benissimo, ed è entrata nella NATO anche per venderci qualcosa, essendo il tredicesimo esportatore di armi al mondo.
Complesso e vagamente sconfortante è rispondere al quesito delle “Risorse”. Quanto all’Esercito, abbiamo in linea qualche decina di pezzi di artiglieria e di carri, col problema di avere assai poche persone che sappiano usarli e riserve piuttosto scarse, e per il resto fanteria leggera. Marina ed Aeronautica hanno eccellenti dotazioni, con ovvi limiti e scarso magazzino.
Tutti, a fattor comune, sono professionisti seri e capaci, con esperienze significative in Teatro, ma lo strumento è striminzito e carente. Non è una colpa dei militari, ma la conseguenza della dottrina d’impiego che la politica ha dettato negli ultimi decenni e delle risorse che essa stessa ha a malincuore fornito. Anche in questo abbiamo di che consolarci nel paragone: l’aviazione più robusta d’Europa, quella francese, ha scorte massime di missili per tre giornate di combattimento (fonte IFRI).

Le “Circostanze” sono molto variegate. Da un lato abbiamo droni la cui obsolescenza tecnica si misura in settimane, il che rende al momento impossibile l’approvvigionamento, e dall’altro procedimenti tattici ai quali siamo estranei sia nelle novità che nelle cose vecchie. Abbiamo riscoperto addirittura le trincee. LCBT, “Lavori sul Campo di Battaglia”, è una pubblicazione che rimase intonsa anche per il mio Corso di Accademia Militare, che pure risale alla metà degli anni ’80.
Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Carmine Masiello (al centro nella foto sotto) , ne ha parlato in un recentissimo discorso affermando che ha dovuto rispolverare nell’addestramento cose che nessuno riteneva sarebbero mai riemerse dalle nebbie della storia. Nel campo delle novità, lo studio di ciò che accade in Ucraina porta ogni giorno ad una novità nella tattica.
Alla voce “Minaccia” del metodo stesso, per essere onesti intellettualmente, si fa molta fatica a rispondere. Ma ritengo sia un passo fondamentale del Metodo al quale dare una risposta in grado di incidere anche su tutti gli altri aspetti. Gli stessi ragionamenti che stiamo qui conducendo, applicati alla Russia, ci portano a comprendere che essa non si avvicina nemmeno lontanamente ad avere le risorse per impegnare l’Europa in una guerra.

Non parliamo poi del tema del controllo del territorio che dovesse essere conquistato. Infatti, i russi si sono ben guardati dall’ invadere l’Ucraina sapendo di non poterla controllare e non avendo vantaggi significativi da trarre da una occupazione, fermandosi su una linea precisa sulla quale si accumulano scaramucce da guerra di posizione. Donde il tema delle trincee, per esempio.
Ciò non significa che non ci si debba attendere, a medio o lungo termine, il profilarsi di una minaccia alla quale rispondere, che venga da est o da altri punti cardinali. La certezza che sin qui abbiamo è che ad oggi il nemico più pericoloso lo abbiamo già in casa. Il Rapporto Censis è molto chiaro, alla Tabella 3 (qui sotto).

Fronteggiare proteste del 40% della popolazione richiederebbe l’impiego non solo di tutte le Forze dell’Ordine, da distrarre da ogni altro compito di sicurezza e difesa, ma quello di tutte le FF.AA. nell’ipotesi della loro configurazione in organico di guerra.
Aggiungiamo a questo numero anche il 9,2% della popolazione residente composto dagli stranieri, con l’avvertenza che, oltre a non essere richiamabili, parte di essi potrebbe essere direttamente organica al nemico.
Ne consegue che abbiamo già una minaccia gravissima da fronteggiare, senza andarci a cercare un nemico oltre frontiera, minaccia che non richiede, direttamente ed immediatamente, una mobilitazione militare ma una mobilitazione delle coscienze, dei valori, della cultura, del senso di comunità. In sintesi, per tornare al nostro Metodo, si tratta di un “Compito” assai più difficile e complesso di un’operazione militare, il cui “Scopo” è premessa indispensabile per ogni possibile ipotesi di sopravvivenza e lotta.
Immagini: Manuel Di Casoli, Difesa.it e CENSIS
Manuel Di CasoliVedi tutti gli articoli
Ha frequentato la Scuola Militare "Nunziatella" di Napoli, l'Accademia Militare di Modena e la Scuola Ufficiali Carabinieri ed è laureato in Giurisprudenza ed in Scienze della Sicurezza. Fino al 2000 è stato Ufficiale dei Carabinieri, svolgendo il proprio servizio in Sicilia, Calabria e nella Capitale. E' Professore a contratto in alcune Università italiane ed ha conseguito un Master presso l'Università di Buenos Aires. Attualmente è Global Strategies Advisor nel settore energetico e lavora tra America Latina ed Europa per società di investimento e produzione nel settore energetico. Ha ricoperto diversi incarichi come Direttore Operations, Sicurezza e Affari Legali per grandi aziende sia italiane che multinazionali ed in Expo Milano 2015.




