Un anno dopo la fuga di Assad la Siria resta nel caos

A un anno dalla fuga notturna di Bashar al-Assad da Damasco, la Siria non è diventata uno Stato nuovo. È diventata, più semplicemente e più tragicamente, una scacchiera. Non un Paese da governare, ma uno spazio da usare. Su quella scacchiera oggi giocano soprattutto in due: Israele e Turchia. Alle loro spalle, gli Stati Uniti osservano, orientano, lasciano fare. Tutti gli altri – Iran, Russia, autorità siriana – sono comparse sempre più sbiadite, incapaci di incidere sul disegno complessivo.
Il potere a Damasco è ormai nominale. Ahmad al-Shara’a, nuovo uomo forte sulla carta, esercita un’autorità parziale, intermittente, spesso simbolica. Non controlla il territorio, non monopolizza la forza, non detta le regole. Amministra un equilibrio fragile tra milizie locali, reti criminali, apparati di sicurezza e protettori esterni. La Siria resta un mosaico funzionale, non uno Stato sovrano.
La dottrina israeliana dell’instabilità controllata
In questo contesto, l’incursione israeliana a Beit Jinn non è un incidente di frontiera. È un messaggio strategico. Quel villaggio, incastrato tra Golan, Jabal Shaykh e piana di Damasco, rappresenta il punto ideale per mostrare cosa significhi oggi la dottrina israeliana: prevenzione permanente, instabilità controllata, libertà d’azione totale. Israele non cerca una Siria stabile. Cerca una Siria debole, frammentata, incapace di produrre una minaccia coerente.
L’episodio rivela anche un mutamento più profondo. Le milizie locali, un tempo sostenute o tollerate da Israele, oggi reagiscono con una retorica islamista e filopalestinese. I confini ideologici si spostano, quelli politici restano porosi. La rappresaglia israeliana, costata la vita a civili, dimostra che Tel Aviv agisce senza sentirsi vincolata da un interlocutore statale credibile. È il vantaggio strategico della frammentazione: colpire senza negoziare, intervenire senza riconoscere sovranità.
La penetrazione della Turchia
Ma Israele non gioca da solo. La Turchia avanza da nord con una logica diversa, meno spettacolare ma più strutturale. Al centro della strategia anatolica non c’è il caos, bensì una stabilizzazione selettiva costruita attraverso i servizi di sicurezza. Il MIT, il servizio di intelligence turco, opera come vero ingegnere politico del terreno siriano: seleziona interlocutori locali, disciplina le milizie, filtra i flussi di finanziamento, accompagna processi di integrazione parziale nelle nuove strutture statali.
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Negli ultimi anni il MIT ha agito come cerniera tra dimensione militare e costruzione istituzionale, favorendo la trasformazione di alcune formazioni armate da attori insurrezionali a strumenti di governance locale. Questo lavoro paziente e poco visibile ha consentito ad Ankara di esercitare un controllo indiretto ma profondo su ampie porzioni della Siria settentrionale, riducendo l’influenza delle reti filo-iraniane e contenendo l’autonomia delle forze curdo-siriane.
Qui emerge il contrasto con l’approccio israeliano. L’intelligence israeliana opera per disarticolare, non per ricomporre; per prevenire, non per governare. Colpisce nodi, elimina minacce, mantiene il sistema in uno stato di instabilità funzionale. La Turchia, al contrario, usa l’intelligence come strumento di costruzione del potere. Dove Israele spezza, Ankara connette; dove Tel Aviv agisce dall’esterno, il MIT penetra dall’interno. Due modelli opposti di proiezione regionale.
Il fattore russo: infrastrutture senza sovranità
In questo gioco a più livelli, la Russia resta formalmente presente, ma strategicamente ridimensionata. Mosca non è uscita dalla Siria: ha perso però la capacità di determinarne l’evoluzione. Le sue infrastrutture militari – la base aerea di Hmeimim e il porto di Tartus – non sono più strumenti di comando del teatro, ma presidi di sopravvivenza strategica.
Hmeimim continua a funzionare come hub logistico e simbolo della presenza russa, ma con capacità operative ridotte e obiettivi difensivi. La priorità non è il controllo dello spazio aereo siriano, bensì la protezione della base stessa. I sistemi antiaerei russi operano in modo selettivo e prudente, evitando qualsiasi confronto diretto con Israele. Le incursioni israeliane proseguono quasi indisturbate, segno di un tacito adattamento russo alla nuova gerarchia regionale.

Tartus resta essenziale come unico sbocco militare russo sul Mediterraneo, ma il suo valore è oggi soprattutto geostrategico e simbolico. Garantisce continuità e presenza, non capacità di indirizzo politico o militare sul terreno. È un’àncora più che una leva. Lungi dal rafforzare la sovranità di Damasco, questa presenza certifica la dipendenza siriana: Mosca tutela i propri asset, non ricostruisce uno Stato.
La Russia è passata dal ruolo di garante a quello di gestore del declino. Coordina deconflitti, negozia silenzi operativi, accetta l’erosione progressiva della propria influenza pur di preservare le infrastrutture. Così facendo, contribuisce paradossalmente alla stabilizzazione del caos: impedisce il collasso totale, ma anche qualsiasi ricomposizione statuale autonoma.
Gli Stati Uniti come arbitro passivo
Sopra questo duello si staglia un terzo attore, apparentemente defilato ma decisivo: gli Stati Uniti. Washington non impone più una propria architettura siriana né investe capitale politico in una ricostruzione statale. La strategia americana è quella dell’arbitraggio passivo. Gli Stati Uniti fissano linee rosse minime, delegano la gestione del terreno agli alleati regionali e intervengono solo per correggere squilibri ritenuti pericolosi.

In questo schema, Israele gode di ampia libertà d’azione militare, purché eviti escalation incontrollabili. La Turchia viene tollerata come attore stabilizzante selettivo, a condizione che contenga il dossier curdo e riduca l’influenza iraniana. Damasco è accettata solo come interlocutore tecnico, chiamato a svolgere funzioni di sicurezza per conto terzi: pattugliamento dei confini, sequestro di armi, contenimento di Hezbollah. Non sovranità, ma subappalto.
La nuova spartizione funzionale
La vera minaccia all’integrità della Siria non è una partizione formale, con confini tracciati su una mappa. È qualcosa di più sottile e più efficace: una parcellizzazione permanente, in cui ogni attore esterno controlla una funzione – sicurezza, confini, milizie, infrastrutture militari, flussi energetici – senza assumersi la responsabilità del tutto. Un sistema in cui il centro non comanda i margini, ma ne è definito.
La Siria del dopo Assad non è un Paese in ricostruzione. È un campo di manovra. E finché resterà tale, Damasco non sarà un giocatore, ma la tavola su cui altri decidono la partita.
Foto: Anadolu, Ministero Difesa Russo e Casa Bianca
Giuseppe GaglianoVedi tutti gli articoli
Nel 2011 ha fondato il Network internazionale Cestudec (Centro studi strategici Carlo de Cristoforis) con sede a Como, con la finalità di studiare in una ottica realistica le dinamiche conflittuali delle relazioni internazionali ponendo l'enfasi sulla dimensione della intelligence e della geopolitica alla luce delle riflessioni di Christian Harbulot fondatore e direttore della Scuola di guerra economica (Ege). Gagliano ha pubblicato quattro saggi in francese sulla guerra economica e dieci saggi in italiano sulla geopolitica.








