Lezioni di realismo dal Medio Oriente

C’è un mondo, là fuori, che non ragiona esattamente come facciamo noi occidentali. E tutte le linee di tendenza ed i segnali che provengono da quel mondo cercano di farci uscire dai nostri schemi per poter capire come si evolvono le relazioni internazionali. La parata militare di Piazza Tienanmen non è un evento estemporaneo ma parte di un lungo processo, e se ci sorprende è solo perché non sappiamo o non vogliamo leggere i segni dei tempi. Certo, per leggere questi segni sarebbe bene che la pubblica informazione ce li proponesse, il che non accade sovente, ahinoi.
Una delle cose delle quali poco si parla sta avvenendo proprio nel turbolento Medioriente, e brilla per atipicità e approccio non convenzionale. Probabilmente i distratti se ne renderanno conto solo perché sarà oggetto di un annuncio in pompa magna durante l’Assemblea generale Onu in programma la prossima settimana a New York.
O almeno, questa sarebbe l’intenzione degli USA, che assieme alla Giordania sponsorizzano l’iniziativa, e del Presidente siriano. Questi ha assoluto bisogno di accreditarsi in sede internazionale e l’Amministrazione Trump deve urgentemente rilanciare la propria immagine come garante di equilibri finalmente raggiunti. Una buona notizia in materia di diplomazia e di accordi “di pace”, poi, servirà anche ad Israele, che attualmente non gode di buona fama sul punto specifico.
Lungi dall’ipotizzare sanzioni e congelamenti di rapporti con Gerusalemme in stile europeo, Damasco è in avanzata fase di negoziazione di un accordo che lo stesso Presidente ad interim Ahmed al-Sharaa afferma che potrebbe chiudersi “nei prossimi giorni” e che ha definito come “una necessità”.
Il vicino musulmano (ed anche piuttosto integralista) di Israele sceglie una via che desterebbe qualche meraviglia nel cittadino europeo medio, se solo qualcuno si prendesse la briga di informarlo. Non solo la Siria non boicotta Israele e non accoglie profughi palestinesi (cosa che, peraltro, i Paesi arabi in genere si guardano bene dal fare), ma addirittura negozia con il “nemico sionista”.
Siccome già nel luglio scorso si era ad un passo dal raggiungimento dell’accordo, che è poi saltato per i duri scontri nella provincia meridionale di Sweida (duemila morti, in maggioranza civili), un minimo di prudenza è d’obbligo, ma i gesti delle parti evidenziano una chiara volontà. In sintesi, l’accordo tende a stabilizzare la zona di confine e più in generale la Siria meridionale, frontiera che è assai prossima alla Giordania e al Libano.
Damasco desidera assicurarsi che i raid aerei israeliani si interrompano e che si avvii il ritiro delle truppe della Stella di David, penetrate nel sud del Paese per garantirsi dalle possibili incursioni di beduini e miliziani e difendere gli alleati Drusi. Non dimentichiamoci, tra l’altro, che i Drusi costituiscono una buona parte delle truppe effettive e stabili dell’esercito israeliano, nel quale prestano anche il servizio militare obbligatorio, unici tra le etnie non ebree.
Proprio i Drusi ci forniscono un’eccellente case-study sulla situazione reale della sovrapposizione tra frontiere politiche post-coloniali e confini etnici nel Medio Oriente. I Drusi, circa 1.133.000 persone, non sono né ebrei né cristiani né musulmani, pur essendo etnicamente arabi, e vivono a cavallo tra Libano, Siria, Israele e Giordania, intorno alle celebri alture del Golan.
Non è questa una situazione infrequente, posto che Francia ed Impero Britannico si spartirono le spoglie dell’Impero Ottomano non già secondo la distribuzione delle etnie (che peraltro storicamente era ed in parte rimane abbastanza confusa) ma secondo i loro interessi ed i loro accordi. Osservando la carta geografica, la maggior parte dei confini degli Stati dell’ex Impero Ottomano e poi colonie francesi e britanniche sono costituiti da linee rette: al netto delle aree desertiche, qualche riflessione sulla loro ragione storica e sul loro valore reale va fatta, e noi europei dobbiamo sempre tener presente che le nostre categorie di interpretazione “geopolitica” non corrispondono necessariamente alla realtà che si trova sulla nuda terra.
Procedendo in termini estremamente concreti e realistici, Siria e Israele hanno espressamente escluso dalle discussioni la questione relativa allo stato ed ai confini del Golan. Questa premessa ha consentito di procedere senza pregiudiziali relative a questioni che è decisamente impossibile che siano risolte in tempi ragionevoli e con reciproca soddisfazione. L’occupazione parziale delle alture del Golan, infatti, va avanti da cinquantotto anni ed ha ragioni militari, storiche ed etniche molto complesse. Facendo di necessità virtù, Gerusalemme e Damasco hanno deciso di accantonare il tema, tagliando un nodo gordiano che avrebbe impedito ogni sviluppo negoziale.
Israele ha interesse a chiudere un fronte che comunque assorbe risorse, attenzione ed impegno militare e di intelligence, oltre ad essere caro ad una componente preziosa dell’IDF, come abbiamo visto. E questo interesse coincide con quello siriano, posto che il giovane Stato ha aperti altri temi di non poca rilevanza, come quelli relativi ai Curdi ed agli Alawiti. Senza contare il fatto che Israele, in via preventiva, ha provveduto ad annientare a terra l’intera aviazione militare siriana e continua a colpire con precisione ed efficacia ogni tentativo di organizzazione militare nel sud del Paese: dalla caduta di Assad, l’8 dicembre, si contano circa 400 operazioni terrestri e oltre mille incursioni aeree. Oltretutto, l’attuale governo siriano ha l’assoluta necessità di accreditarsi come soggetto politico internazionale affidabile e mosso da un intento di pacificazione, anche tutelando le minoranze cristiane, cosa che richiede attenzione e risorse.
Sicuramente alle parti ha giovato la storia. Già nel 1974, il 31 maggio, Israele e Siria chiusero formalmente la Guerra dello Yom Kippur firmando un celebre “Atto di disimpegno”, oggi caduto nel dimenticatoio almeno in Europa. Esso pose termine ad un “cessate il fuoco” che era in realtà un continuo scambio di cannonate e incursioni, ancor più dopo che nel precedente gennaio l’Egitto aveva finalmente chiuso le ostilità con Israele.
È interessante notare che la pregiudiziale per la negoziazione da parte di Tel Aviv, in quel tempo, fu una sola: avere un elenco dei prigionieri israeliani e consentire visite alla Croce Rossa. La Siria si oppose, fin quando Kissinger (assieme ad Arabia Saudita ed Egitto) non riuscì a far accettare la pre-condizione: vi ricorda qualcosa?
L’Atto di disimpegno consentì lo scambio immediato di tutti i prigionieri, la restituzione da parte di Israele di buona parte dei territori occupati con la vittoria nella guerra (scatenata, lo ricordiamo, a tradimento dai Paesi arabi il giorno della Festa dello Yom Kippur), il rientro dei profughi siriani nelle loro case e la creazione di una zona cuscinetto presidiata da un Contingente ONU.
Per la cronaca, l’Accordo è tutt’ora vigente, con le eccezioni rese necessarie dalla dissoluzione della Siria e dalle conseguenti vicissitudini.
Tornando ai giorni nostri, i termini degli accordi in fase di conclusione sono anch’essi piuttosto pragmatici e liberi da schemi formali. Nella regione martoriata di Sweida, per esempio, Amman e Damasco, con la negoziazione dell’inviato speciale USA Thomas Barrack, si sono accordate per riconoscere l’autorità formale Siriana, ma affidando la sicurezza dell’area a Suleiman Abdel Baqi. Questi è un Druso, capo di una milizia locale vicina al Governo e che si oppone al leader religioso autonomista Hikmat Hijri. Il Governo assicurerà il controllo delle strade principali ed il resto va a Baqi, pur nel quadro di una sovranità formale siriana: un’intesa decisamente fuori degli schemi “classici” di Talleyrand e Metternich.
Nel complesso puzzle (nulla è semplice in quelle terre), un ruolo non secondario lo giocano anche le elezioni siriane, già previste per settembre e regolarmente rinviate. Ancora una volta, non aspettiamoci che il termine “elezioni” corrisponda al nostro concetto di “democrazia”. Serve a dare una patente di legittimità al nuovo corso, e d’altra parte la presuntuosa quanto ingenua e velleitaria idea di esportazione della democrazia con le “primavere arabe” ha già dimostrato pienamente il suo drammatico fallimento.
Che sia questa la ragione appare ovvio osservando il Decreto 142 che le ha indette: l’Assemblea sarà formata da 210 deputati, un terzo dei quali di nomina presidenziale diretta. I restanti due terzi verranno da liste fisse di candidati scelti da Comitati Locali sulla base di due criteri: il 30% esponenti delle comunità (leggasi tribù e clan) e il 70% tra tecnocrati, burocrati ed accademici “qualificati”.
Nonostante l’elevatissima scolarizzazione del Paese e la sua lunga (e demolita) tradizione di stabilità statuale, c’è da immaginarsi che il modello non sarà esattamente quello della democrazia diretta cantonale svizzera. Il tutto, ovviamente, condito dalle fratture etniche, religiose e tribali con Alawiti e Curdi. Nelle aree di Latakia e Tartus, roccaforti alawite, si contano circa 1500 morti negli ultimi sei mesi e la situazione nelle aree curde del nordest, Hassaké e Raqqa, non è migliore.
Cerchiamo di trarre qualche lezione da questi fatti. Il mondo non Occidentale ci ricorda che gli ideali sono belli, ma che è la realtà che governa il mondo. Prima ce ne faremo una ragione e meglio ne usciremo.
D’altro canto, la realtà ha dimostrato di funzionare meglio delle astratte ideologie e delle pregiudiziali. Funziona nel Golan da cinquantun anni, e ha permesso la liberazione dei prigionieri, il ritorno dei profughi e un intervento internazionale. Pare che una realistica volontà possa fare miracoli.
Foto Anadolu e IDF

Manuel Di CasoliVedi tutti gli articoli
Ha frequentato la Scuola Militare "Nunziatella" di Napoli, l'Accademia Militare di Modena e la Scuola Ufficiali Carabinieri ed è laureato in Giurisprudenza ed in Scienze della Sicurezza. Fino al 2000 è stato Ufficiale dei Carabinieri, svolgendo il proprio servizio in Sicilia, Calabria e nella Capitale. E' Professore a contratto in alcune Università italiane ed ha conseguito un Master presso l'Università di Buenos Aires. Attualmente è Global Strategies Advisor nel settore energetico e lavora tra America Latina ed Europa per società di investimento e produzione nel settore energetico. Ha ricoperto diversi incarichi come Direttore Operations, Sicurezza e Affari Legali per grandi aziende sia italiane che multinazionali ed in Expo Milano 2015.