Le prospettive dell’accordo nel settore della Difesa tra Arabia Saudita e Pakistan

 

Lo scorso 17 settembre, il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif si è recato in visita a Riad per sottoscrivere assieme al principe ereditario saudita Mohammed bin-Salman un accordo di mutua difesa strategica che consacra una significativa alterazione del quadro geostrategico mediorientale.

Nello specifico, recita il comunica congiunto pubblicato a margine dell’incontro,  l’intesa, «che riflette l’impegno condiviso di entrambe le nazioni a rafforzare la propria sicurezza e a raggiungere la stabilità e la pace nella regione e nel mondo, mira a sviluppare aspetti della cooperazione in materia di difesa tra i due Paesi e a rafforzare la deterrenza congiunta contro qualsiasi aggressione. L’accordo stabilisce che qualsiasi aggressione contro uno dei due Paesi sarà considerata un’aggressione contro entrambi».

Al premier pakistano, i sauditi hanno riservato un’accoglienza tradizionalmente concessa ai grandi leader globali, con tanto di caccia F-15 che sorvolavano il tappeto rosso srotolato dinnanzi alla scaletta dell’areo da cui Sharif si apprestava a scendere. A riprova della rilevanza attribuita all’accordo delle autorità di Riad.

L’Arabia Saudita, custode di due dei principali luoghi sacri dell’Islam e attore cruciale nel mercato energetico globale si è così assicurato la protezione militare del Pakistan, affermatosi ormai da decenni come unica potenza nucleare del mondo musulmano. Grazie, si vocifera ormai da anni, proprio ai capitali messi a disposizione da Riad, che avrebbe ottenuto come contropartita anche la disponibilità di truppe pakistane a difesa delle città sante della Mecca e di Medina.

 

Il programma nucleare pakistano

Lo si ricava dalle confidenze rese nel 2013 alla «Bbc» da un anonimo alto dirigente della Nato, il quale avrebbe visionato personalmente alcuni rapporti di intelligence in cui si documentava che «le armi nucleari prodotte in Pakistan per conto dell’Arabia Saudita sono ora pronte per la consegna».

Sempre in quell’anno, l’ex direttore dell’Aman (l’intelligence militare israeliana) Amos Yadlin dichiarò nel corso di una conferenza in Svezia che, qualora l’Iran avesse dotato dell’arma nucleare, «i sauditi non aspetteranno nemmeno un mese. Hanno già pagato per la bomba, andranno in Pakistan e trasporteranno in patria ciò di cui hanno bisogno».

La ricostruzione formulata da Yadlin combacia con gli avvertimenti formulati dai sauditi a partire dal 2009, quando da re Abdullah mise in chiaro all’inviato speciale degli Stati Uniti Dennis Ross che se l’Iran avesse varcato la soglia nucleare «avremmo ottenuto armi atomiche», sia con le rivelazioni formulate da Gary Samore, che fino al marzo 2013 ricoprì l’incarico di consigliere per la controproliferazione sotto l’amministrazione Obama.

«Sono convinto – affermò Samore – che i sauditi ritengano di avere un accordo con il Pakistan, che, in extremis, li avrebbe posti nelle condizioni di acquisire armi nucleari» da Islamabad.

Ulteriori indizi che avvalorano le esternazioni di Yadlin e Samore emergono dalla ricostruzione del programma nucleare pakistano formulata in un libro di memorie dal generale Feroz Khan, secondo cui «l’Arabia Saudita ha fornito un generoso sostegno finanziario al Pakistan, che ha permesso al programma nucleare di proseguire».

Nello specifico, il programma prese avvio negli anni ’60 con l’espatrio di centinaia di scienziati pakistani, recatisi in Europa, Stati Uniti e Canada per specializzarsi in ricerca nucleare. Il secondo passo è consistito nell’acquisizione dal Canada del primo reattore per la produzione di energia elettronucleare. Avvalendosi della collaborazione di tecnici belgi e francesi, Islamabad dispose la costruzione di una serie di impianti per il ritrattamento del combustibile dei reattori civili, in un’ottica di produzione del plutonio.

Verso la metà degli anni ’70, le autorità pakistane passarono all’arricchimento dell’uranio, affidandolo al leggendario Abdul Qadeer Khan che rientrò in Pakistan dall’Olanda portando con sé il progetto il progetto del sito nucleare presso cui aveva lavorato.

Le specifiche trafugate da Khan si sono rivelate fondamentali alla messa a punto dell’impianto di centrifugazione pakistano, copiato per filo e per segno da quello olandese e realizzato assemblando le componenti necessarie fornite da società olandesi, tedesche, svizzere e britanniche.

Dapprima sospettosi nei confronti delle manovre di Islamabad, al punto da sospendere l’assistenza tecnica ed economica, le autorità statunitensi cambiarono rapidamente approccio a fronte dell’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Nel nuovo contesto geostrategico, il Pakistan veniva a configurarsi come un tassello fondamentale per l’implementazione dell’Operazione Cyclone. Vale a dire il piano d’azione elaborato dalla Cia e finanziato dall’Arabia Saudita che affidava all’ISI pakistano (i servizi di intelligence di Islamabad) il compito di reclutare, addestrare e armare i mujaheddin islamisti in funzione anti-sovietica.

Il sostegno statunitense al Pakistan, riattivato contestualmente all’Operazione Cyclone, fu esteso all’ambito militare aprendo il varco alla fornitura a Islamabad di 40 caccia F-16, in grado di trasportare ordigni nucleari. Parallelamente, le autorità pakistane siglarono un accordo di cooperazione nucleare con la Cina, rivelato urbi et orbi nel maggio 1983. Cioè quando, presso il poligono cinese di Lop Nor, fu testata la bomba da 25 kilotoni alla presenza del ministro degli Esteri pakistano.

L’anno prima, stando a quanto emerso dai resoconti scritti da Abdul Qadeer Khan e pubblicati dal «Washington Post», un C-130 pakistano aveva caricato dalla città cinese di Urumqi e sbarcato in Pakistan uno stock di uranio di qualità militare sufficiente per la costruzione di almeno due bombe atomiche, ai sensi di una preesistente intesa siglata tra Mao Zedong e Ali Bhutto.

Dagli ordigni si passò rapidamente ai vettori necessari a trasportarli, con l’assistenza tecnica fornita da specialisti cinesi per lo sviluppo dei missili Hatf-I (80 chilometri di gittata) e Hatf-II (300 chilometri), nonché con la vendita di missili balistici cinesi M-11, a combustibile solido da 300 chilometri di gittata.

 

La posizione dell’Arabia Saudita

 I progressi realizzati dal programma nucleare pakistano alimentarono in seno alle autorità di Riad la convinzione che fossero ormai maturi i tempi per capitalizzare l’investimento, specialmente alla luce del fallimento in cui si era risolto il tentativo di realizzare un’arma atomica autonomamente.

Ne parlò nel 1994, una volta ottenuto asilo politico dagli Stati Uniti, l’ex funzionario dell’ambasciata saudita presso le Nazioni Unite Muhammed al-Khilewi, secondo cui Riad aveva avviato un proprio programma nucleare nel 1975 salvo poi interromperlo a causa dell’insufficiente padronanza della materia.

L’incapacità di mettere a punto l’arma atomica non impedì tuttavia all’Arabia Saudita di ricevere a partire dal 1988 dalla Cina tra i 20 e i 25 DongFeng-3A, missili a propellente liquido armabili con testate sia convenzionali che nucleari e dotati di 2.500/3.000 km di gittata.

Si tratta dunque di vettori a medio raggio, resi operativi in due siti localizzati a sud di Riad a partire dal giugno 1990 e in grado di raggiungere sia Israele che l’Iran.

Secondo un documento del Congressional Research Service, l’amministrazione Reagan ottenne da Riad l’impegno scritto a non installare testate chimiche o nucleari sui DongFeng (anche perché reputati eccessivamente imprecisi), poi rafforzato con l’adesione dell’Arabia Saudita al Trattato di Non Proliferazione (Tnp).

La cui osservanza da parte di Riad è parsa vacillare quando, nel luglio 2015, lo specialista in materia di intelligence Duane Clarridge dichiarò ai microfoni di «Fox News» che l’Arabia Saudita aveva già acquistato almeno un ordigno nucleare dal Pakistan. Pochi mesi prima, l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti Adel al-Jubeir aveva eluso una domanda incentrata proprio sul medesimo tema.

Attualmente, secondo il Military Balance 2025, le Forze Missilistiche Strategiche saudite (Royal Saudi Strategic Missile Force) schierano circa 2.500 militari con oltre una decina di missili balistici a medio raggio DF-3 forse non più operativi e sostituiti da un numero imprecisato di più moderni DF-21 (CH-SS-5), sempre forniti dalla Cina e acquisiti dal 2014: missile bi-stadio a propellente solido con 2.150 chilometri di raggio d’azione.

 

La portata dell’accordo

L’accordo siglato lo scorso settembre si collocata in sostanziale continuità con il passato, se si eccettua la breve ma significativa battuta d’arresto coincisa con il rifiuto pakistano, dettato dalla necessità di non inimicarsi il vicino Iran e la nutrita comunità sciita locale, di aderire alla coalizione militare costituita dai sauditi per combattere gli Houthi yemeniti. Come ritorsione, Riad lasciò cadere nel vuoto la richiesta di sostegno avanzata dal primo ministro Imran Khan in conseguenza della revoca delle clausole costituzionali a tutela dello status del Kashmir attuata dal governo indiano nel 2019.

L’impasse è stata superata per effetto dell’insediamento a Islamabad del premier Sharif, nel contesto di un’escalation mediorientale scatenata da Israele, che con l’attacco al Qatar ha aperto il settimo fronte, supplementare a quelli costituiti da Striscia di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen e Iran.

A dispetto delle “riparazioni” concesse alla famiglia al-Thani, con le scuse formli imposte dal presidente Trump al primo ministro Netanyahu e l’accordo di difesa siglato con Doha, l’aggressione è stata palesemente sostenuta dagli Stati Uniti. I quali hanno denotato – una volta di più –  un sostanziale appiattimento sulle posizioni israeliane, associato all’incapacità di garantire la sicurezza regionale, certificata dal fallimento in cui si è risolta la campagna militare contro gli Houthi.

Allo stesso tempo, le potenzialità belliche dimostrate dall’Iran nel corso della “guerra dei 12 giorni” contro Israele hanno indotto profonde riflessioni in tutto il Medio Oriente, a partire proprio dall’Arabia Saudita. In un’intervista rilasciata a «The Cradle» lo scorso luglio, un anonimo ma “ben informato” diplomatico arabo ha dichiarato che: «questa guerra ha segnato una svolta nel pensiero saudita. Riad ora comprende che l’Iran è una potenza militare matura, immune alla coercizione.

La pressione tradizionale non funziona più. La sicurezza saudita ora dipende da un accomodamento diretto con l’Iran, non da Israele, e certamente non dal declinante ombrello di sicurezza statunitense». Combinandosi con le valutazioni nettamente negative formulate dalla classe dirigente saudita in merito alla linea d’azione israeliana, l’effetto dirompente generato dalla ritorsione iraniana «spinge l’Arabia Saudita a riconsiderare le sue scommesse regionali e a considerare l’Iran come un fattore di potenza regionale che non può essere ignorato».

Un altro diplomatico raggiunto sempre da «The Cradle» ha espresso considerazioni dello stesso tenore: «Riad sta abbandonando le illusioni. Il dialogo con i vicini, non l’alleanza con Washington e Tel Aviv, è ora considerata la via per salvaguardare gli interessi sauditi. Si tratta di fatti, non di adesione a vecchi vincoli di lealtà. L’Iran costituisce ormai una componente fissa dell’equazione della sicurezza del Golfo».

Non si tratta di un mero “effetto collaterale” della riapertura dei canali diplomatici tra Riad e Teheran mediata dalla Cina nel 2023, ma di una sostanziale alterazione della postura strategica saudita, allontanatasi gradualmente dalla sfera d’influenza statunitense a beneficio di una sempre più accentuata propensione a «ricercare soluzioni regionali lontane da Washington».

Una tendenza che, sostiene «The Cradle», risulta condivisa anche dagli altri Paesi del Golfo Persico. Risultato: «il binomio “Golfo contro Iran” sta svanendo. L’ultima guerra ha accelerato una tendenza in atto da tempo: il crollo della Pax Americana e l’emergere del regionalismo multipolare.

Il Golfo sta tracciando una nuova rotta, meno soggetta ai diktat di Stati Uniti e Israele. Oggi, l’Arabia Saudita vede Teheran non come una minaccia da neutralizzare, ma come una potenza da coinvolgere. I quadri di sicurezza regionale vengono costruiti dall’interno. Israele, nel frattempo […], sta lottando per rimanere rilevante.

Se queste dinamiche si preserveranno, ci orienteremo verso una transizione storica, che potrebbe finalmente consentire al Golfo Persico di definire la propria sicurezza e sovranità, alle proprie condizioni. Non si tratta di un futuro ideale, ma di un passo avanti strategico dopo decenni di sottomissione».

Coerentemente con le anticipazioni, il principe bin-Salman ha incontrato il Consigliere per la Sicurezza Nazionale iraniano Ali Larjani ancor prima di ricevere il premier pakistano Sharif, per concordare l’espansione dei legami economici e della cooperazione in materia di difesa, oltre che per definire misure volte a rafforzare la stabilità nel teatro dell’Asia occidentale.

Le agenzie di stampa saudite e iraniane hanno riferito che bin-Salman e Larijani hanno esaminato con particolare attenzione gli «ultimi sviluppi regionali», e intavolato discussioni relative alle modalità da adottare per espandere la cooperazione a beneficio del «futuro della regione».

Larijani ha successivamente incontrato il ministro della Difesa saudita Khalid bin-Salman al-Saud per discutere iniziative di difesa bilaterali e sicurezza regionale, e affermato di aver analizzato «le relazioni saudite-iraniane e diverse questioni di reciproco interesse, nonché gli sviluppi regionali e gli sforzi per raggiungere sicurezza e stabilità».

Questi incontri si sono verificati il giorno successivo all’incontro tra bin-Salman e il presidente iraniano Masoud Pezeshkian tenutosi a Doha a margine del vertice arabo-islamico di emergenza convocato in risposta all’attacco israeliano al Qatar.

Stando a quanto riportato da «al-Arabiya», quel summit avrebbe registrato un consenso unanime attorno alla necessità di «accelerare i lavori della Gulf Joint Task Force per la creazione di un sistema di allerta precoce contro i missili balistici».

Nonché di procedere alla condivisione della «situazione aerea tra tutti i centri operativi; all’aggiornamento dei piani di difesa congiunti mediante la coordinazione tra il Comando Militare Unificato e il Comitato per le Operazioni e l’Addestramento dei Paesi membri del Consiglio per la Cooperazione del Golfo; all’intensificazione dello scambio di informazioni in materia di intelligence in seno al Comando Militare Unificato».

Durante l’incontro di Doha si sarebbe inoltre stabilito di organizzare «esercitazioni congiunte tra i centri operativi e per la difesa aerea degli stati del Golfo entro i prossimi tre mesi, a cui fare seguito un’esercitazione aerea congiunta vera e propria».

L’accordo di mutua difesa tra Arabia Saudita e Pakistan si inserisce perfettamente in questo quadro strategico in evoluzione. Lo ha riconosciuto anche Zalmay Khalilzad, diplomatico statunitense di lunghissimo corso secondo cui «se l’Arabia Saudita non nutre più fiducia nelle garanzie di sicurezza americane, perché dovrebbe farlo chiunque altro?».

A suo avviso, l’accordo sancisce inoltre un allineamento indiretto dell’Arabia Saudita al complesso militar-industriale cinese, che copre qualcosa come l’81% degli approvvigionamenti militari del Pakistan.

La sfiducia negli Stati Uniti allenta quindi la presa di Washington sulla penisola araba indebolendo il paradigma di difesa anti-iraniano imperniato sugli Accordi di Abramo.

Foto: X/Shehbaz Sharif, SINA, Casa Bianca, Anadolu, Forze Armate Saudite e Forze Armate Pakistane

 

Giacomo GabelliniVedi tutti gli articoli

Analista economico e geopolitico, saggista, gestore del canale YouTube "Il Contesto | Analisi economica a geopolitica" e dell'omonimo sito web. Ha all'attivo numerose collaborazioni con testate sia italiane che straniere, tra cui le riviste "La Fionda" e "Krisis" e il quotidiano cinese "Global Times". È autore di numerosi volumi, tra cui Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell'ordine economico statunitense (Mimesis, 2021), Ucraina. Il mondo al bivio (Arianna, 2022), Dottrina Monroe. L'egemonia statunitense sull'emisfero occidentale (Diarkos, 2022), Taiwan. L'isola nello scacchiere asiatico e mondiale (LAD, 2022), Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana (Diarkos, 2023), Scricchiolio. Le fragili fondamenta di Israele (Il Cerchio, 2025).

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