Frontsoldaten – Il soldato tedesco di prima linea nella Seconda guerra mondiale

 

Alois Dwenger, scrivendo dal fronte nel maggio del 1942, lamentava che la gente dimenticasse “le azioni dei semplici soldati. Credo che il vero eroismo stia nel sopportare questa terribile vita quotidiana”. Esplorando la realtà del “Landser”, il soldato tedesco medio nella seconda guerra mondiale, attraverso lettere, diari, memorie e testimonianze orali, il ricercatore storico statunitense Stephen G. Fritz fornisce il resoconto definitivo dell’esperienza di guerra del soldato tedesco al fronte.

I resoconti personali di questi soldati, la maggior parte dei quali provenienti dal fronte russo, dove prestò servizio la maggioranza dei fanti tedeschi, dipingono un ritratto ricco di sfumature del “Landser” che illustra la complessità della sua vita quotidiana.

Con capitoli dedicati all’addestramento, alla visione diretta dei combattimenti, alle condizioni di vita, allo stress da combattimento, alle sensazioni personali della guerra, ai legami di cameratismo e spirito di corpo, all’ideologia e alla motivazione, Fritz offre un senso di immediatezza e profondità, rivelando la guerra attraverso gli occhi di questi “uomini comuni”. Con il suo sguardo approfondito sulla vita quotidiana dei soldati tedeschi, questo è un libro che non parla di guerra, ma di uomini. La sua lettura sarà di vitale importanza per chiunque sia interessato alla Seconda guerra mondiale, alla storia militare tedesca o alle esperienze dei soldati comuni di ogni nazione.

 

Frontsoldaten

Il soldato tedesco di prima linea

nella Seconda guerra mondiale

Traduzione di Vincenzo Valentini

Edizione italiana a cura di Andrea Lombardi

Brossura, formato 15×23, 340 pagg., ill bn, Euro 29,00.

ISBN 978-88-31430-43-2

ITALIA Storica Edizioni, Genova 2025.

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Primo Capitolo – La visione dal basso

Immerso nella desolazione innevata del tardo inverno russo, scosso ed esausto dagli orrori delle “spettrali settimane di battaglie difensive” appena trascorse, Günter von Scheven, nel marzo del 1942, nonostante tutto esaltò il Landser tedesco.

“Non credo che oggi in Germania alcuna opera d’arte possa eguagliare la prestazione di un semplice soldato, che mantiene la sua posizione sotto un pesante fuoco di sbarramento in una situazione disperata”, scrisse in una accorata lettera al padre.

“Questo soldato sconosciuto grida ancora con innominabile grandezza sul campo di battaglia. […] Anonimo, visto solo da pochi camerati, silenzioso, muore di una morte solitaria, trapassa verso l’inaccessibile, i suoi resti mortali dissolti nell’abisso dell’oriente come se non fosse mai esistito”. Scheven espresse bene il senso di solitudine esistenziale provato da molti di quegli uomini, una disperazione basata sulla paura che il loro fosse un grido silenzioso, senza eco nella vasta landa desolata della guerra.

“Da allora i Generali hanno scritto resoconti di questi eventi, individuando catastrofi specifiche e riassumendo in una frase, o in poche righe, le perdite”, osservò amaramente Guy Sajer nella sua autobiografia dal titolo appropriato, The Forgotten Soldiee “ma non hanno mai, a mia conoscenza, dato sufficiente espressione alla disperazione dei soldati abbandonati a un destino che si vorrebbe risparmiare anche al più miserabile dei bastardi.

Non evocano mai le ore e ore di angoscia […] Non nominano mai il semplice soldato, a volte coperto di gloria, a volte battuto e sconfitto […], confuso dal dare la morte e dall’abbrutimento, e più tardi dalla disillusione, quando si rende conto che la vittoria non gli restituirà la libertà.”

A sud, in Crimea, Alois Dwenger espresse sentimenti simili. “Mi irritano spesso i resoconti vuoti di penne incompetenti”, osservò con disprezzo nel maggio del 1942. Recentemente ho letto il resoconto di un attacco in cui […] riferivano così tanti dettagli che nel farlo dimenticavano la vita quotidiana della guerra, le azioni dei semplici soldati.

Questi semplici fanti sono, senza dubbio, eroi. Lì, nella sua buca […] giace solo un Landser, e non può tirar fuori il naso senza che glielo fracassino, eppure deve osservare il nemico. Per questo sbircia sempre attentamente fuori dal riparo, in qualsiasi momento un proiettile può colpirlo.

I proiettili colpiscono ogni giorno […] scuotendo e facendo zampillare il terreno, il rifugio trema, gli shrapnel fischiano sopra la sua testa. Nelle notti, dove non si vede ma si può solo udire, gli occhi che lacrimano per il continuo fissare, l’immaginazione che lavora febbrilmente, siede avvolto nel suo riparo, intirizzito, ora dopo ora, ascoltando con i nervi tesi. Nell’alba grigia si infila nel rifugio, congelato e stanco morto; è affollato, umido, rumoroso, semibuio; i pidocchi lo tormentano. Credo che il vero eroismo risieda nel sopportare questa terribile vita quotidiana.

Oltre cinquant’anni dopo, gran parte delle rimostranze di Dwenger riguardo all’abbandono del Landser, o di quello che gli uomini stessi chiamavano più volgarmente lo Schütze Arsch

(tradotto letteralmente: “il Soldato Culo”, con “Culo” usato come nome proprio a sottolineare la totale mancanza di importanza del soggetto. Il termine è anche usato in esteso nella frase idiomatica tedesca “Schütze Arsch im letzte Link”, traducibile come “l’ultimo anello della catena”) è ancora vera.

Sebbene il soldato medio sia stato al centro degli eventi in questo secolo di guerre, gli storici si sono tradizionalmente concentrati su questioni “di vertice”: la strategia, la tattica, il processo decisionale e l’organizzazione che, sebbene di innegabile importanza, non costituiscono la totalità della guerra. Da questa prospettiva, il semplice soldato appariva solo come un oggetto, un mero mezzo per ricevere ed eseguire ordini. “Spersonalizzata, la folla anonima che si limita a ricevere ordini compie gli eventi [di questo dramma]”, si lamentava Claus Hansmann nel suo diario.

“Un quadro strategico ben lontano dalla tragedia sanguinosa. Cosa c’entra questo con chi sta in cima? Non sente le urla, né il respiro affannoso […] Dovrebbe forse pensare a loro, ai sette che il Dnepr si è portato via, dovrebbe forse calcolare quanta strada hanno fatto ora, quanto sono zuppe le loro uniformi, quanto sono pallidi i loro volti? Dovrebbe forse pensare ai cuori che si spezzano in questo momento, alle madri, alle mogli, ai figli?”.

Non c’è da stupirsi, quindi, che Hansmann bollasse “l’esistenza del soldato [come] un mero giuramento di fedeltà alla morte”. “Il soldato deve avere così tanta fortuna e così spesso”, si lamentava un altro Landser in termini inquietantemente simili. “Giuramento del soldato, gioia del soldato, canti di guerra del soldato, morte del soldato, tutto è una cosa sola!”.

La guerra, anche la più primitiva, come sottolinea Robin Fox, è sempre stata un atto complicato, intricato e altamente organizzato dell’immaginazione e dell’intelligenza umana, quindi il fascino per le dimensioni “più ampie” della guerra è facilmente comprensibile.

Ma come suggerì Lev Tolstoj, la vera realtà della guerra, così come della storia, risiede nella brulicante vita inconscia e collettiva dell’umanità.

“Non sono un Ufficiale di Stato Maggiore o un esperto militare che vede la guerra solo attraverso gli occhi di un tattico”, commentò il Landser tedesco Kurt Vogeler nel dicembre 1941, “ma un uomo che ha vissuto la guerra da uomo”.

In effetti, come scrisse il Feldmaresciallo Archibald Wavell al famoso storico militare B.H. Liddell Hart, “Se avessi tempo […] per studiare la guerra, penso che mi concentrerei quasi interamente sulle «realtà sul campo della guerra», gli effetti della stanchezza, della fame, della paura, della mancanza di sonno, del tempo […] I principi della strategia e della tattica […] sono assurdamente semplici: sono le realtà sul campo che rendono la guerra così complicata e così difficile, e sono di solito trascurate dagli storici”.

John Keegan ha ipotizzato più o meno la stessa cosa: che rimangano aree, in gran parte inesplorate dagli storici, in cui la storia sociale e la storia militare si incontrano. La storia militare “dal basso”, la guerra dal punto di vista del soldato comune, costituisce una di queste aree.

Dopotutto, come ha sottolineato Wolfram Wette, le Forze Armate tedesche nella Seconda guerra mondiale comprendevano quasi venti milioni di uomini, di cui meno dell’1% erano Ufficiali in senso stretto (ovvero con il grado di Maggiore o superiore). La larga maggioranza, il 99% della Wehrmacht, non dell’“élite”, era composta da Soldati semplici, Sottufficiali e Ufficiali di grado inferiore.

Questi uomini provenivano da contesti sociali, economici ed educativi diversi, ma avevano una cosa in comune: vivevano la guerra dal basso, dove i problemi della vita quotidiana potevano essere spaventosamente concreti.

Per comprendere la vera guerra, la guerra dal basso, lo storico deve quindi fornire un volto all’anonimo Landser ed esaminarlo nel suo duplice ruolo di carnefice e vittima. Come carnefici, per convinzione o meno, questi uomini comuni esistevano come parte di una grande macchina distruttiva, pronti e disposti a uccidere e distruggere per raggiungere gli obiettivi di un regime omicida. Nel ruolo di vittime, convivevano quotidianamente con le difficoltà fisiche, i pesi psicologici e le ansie spesso schiaccianti della morte e dell’uccidere che costituiscono la vita quotidiana di tutti i soldati combattenti. Visti dai loro leader politici come strumenti per il raggiungimento degli obiettivi nazisti (l’individuo può anche morire purché il Volk continui a vivere), forse la paura più amaramente ironica del Landser era che avrebbe raggiunto il successo finale morendo da eroe caduto. “Non c’è morte più amara”, scrisse un Landser nel suo diario, “della morte da eroe”. O come si interrogò in un’altra occasione: “l’ideale di questo mondo è dunque la morte dell’eroe?”.5

Dal passato spesso trasuda una qualità leggendaria, e in nessun luogo ciò è più vero che nell’affrontare l’immensità della Seconda guerra mondiale. Lo storico non può sperare di ricostruire integralmente la vita passata del Landser medio, ma può semplicemente sforzarsi di descrivere il dramma nel modo più preciso possibile in termini di aspirazioni e percezioni umane, assimilare l’esperienza degli altri e distillarla in una prospettiva onesta e ponderata.

“Quando oggi guardo le immagini della guerra sulle riviste illustrate”, scrisse un soldato anonimo, “mi accorgo immediatamente che praticamente tutte non rendono affatto il nocciolo della guerra. Superficialmente, come appare nei cinegiornali settimanali, la vita del soldato sembra bella e soprattutto romantica”, osservò un altro di questi soldati semplici ai suoi genitori, “ma quanto presto e con quanta rapidità queste illusioni e delusioni scompaiono nella cruda realtà” [della guerra]”.

Claus Hansmann ha fornito un notevole ritratto della “cruda realtà” del soldato medio.

Sotto la pioggia, le tende ci fissano rigide e mentre ci affrettiamo a scavare nel terreno paludoso. […] Davanti a noi la […] grigia desolazione ci lascia così soli. […] Con i baveri alzati e la testa incassata, due sentinelle vanno avanti e indietro ai loro posti di guardia. […] Il settore rimane ovattato sotto la pressione della nebbia serale […] penetra le nostre uniformi, costantemente, freddamente. In fretta smontiamo le tende e uniamo i teli tenda per coprire il bunker. […] Gettiamo le nostre cose giù nel buco. […] Nell’oscurità cozziamo tra di noi e ci stringiamo l’uno contro l’altro.

Qualcuno accende una candela di sego. […] Ben presto mastichiamo pane secco con sempre la stessa carne salata in scatola. […] Siamo così stanchi che non riusciamo a pensare […] La luce rivela i nostri cappotti anneriti dalla pioggia e gli stivali gonfi, deformati dal fango e dalle stoppie. Ci raschiamo […] il fango dai pantaloni e dalle gambe con un coltello. […] Il silenzio ci opprime. Poi, con un sospiro, qualcuno inizia: “Ah, se solo questa dannata fregatura finalmente finisse!”.

Lungo le nostre schiene, appoggiate al muro, penetra il freddo della terra. In mezzo al fumo […] un’altra voce che sembra […] stranamente trasformata dall’oscurità: “Se solo potessimo dimenticare per una volta […] tutto […]”

Le parole disegnano ampi cerchi dentro di noi, come pietre che cadono in acque profonde. […] “È sempre la gente comune quella che la paga, in guerra […]”. Il respiro e i sogni confusi diventano più profondi, ci stringiamo l’uno contro l’altro per un po’ di calore. Così restiamo lì, nella nostra miserabile esistenza.7

Lo storico può afferrare questa realtà, disperata o meno, come ha sottolineato Christopher Browning, solo attraverso un’intensa rappresentazione delle esperienze comuni della gente comune. Questo libro non parla quindi di guerra, ma di uomini: i comuni soldati tedeschi della Seconda guerra mondiale.

La guerra stessa costituisce lo sfondo e l’ambiente, ma come in ogni grande tragedia il tema è il destino umano e la sofferenza, vissuti da un gruppo di individui, un gruppo legato in uno sforzo comune per sopportare l’insopportabile.

Riguarda la paura e il coraggio, il cameratismo e la sofferenza individuale, i sentimenti degli uomini sottoposti a uno stress estremo e le sensazioni uniche che la guerra produce; riguarda la paziente creazione e ricreazione di relazioni dopo una catastrofe e la loro distruzione da parte di un’altra.

Non è necessario immedesimarsi in questi uomini per descrivere con precisione ciò che hanno vissuto. Né cercare di comprendere e raccontare le loro percezioni e i loro sentimenti significa assolverli dalla responsabilità o perdonare le loro azioni in una brutale guerra di aggressione. Il quadro che emerge dalle loro osservazioni personali è quindi sottile, complesso e contraddittorio nel suo messaggio: ideologia, interessi personali e percezioni storiche sono sfumati dai tratti della personalità.

La guerra ha marchiato in modo indelebile l’uomo in prima linea: “Si ha la sensazione”, rifletteva un certo Landser, “che questo «essere soldato» non finirà mai”. Per l’anonimo soldato, la vera guerra era intensamente personale, tragica ma ironica, una spaventosa raccolta di emozioni, straziante ma a volte magnifica e, soprattutto, profondamente commovente. “C’era la guerra”, ha ricordato Guy Sajer, “e l’ho sposata perché non si poteva fare nient’altro quando ho raggiunto l’età per innamorarmi”.8

Se l’approccio quotidiano a volte sembra impressionistico e non analitico, tocca comunque la nostra capacità di comprendere la realtà sociale e storica, in questo caso di rappresentare e comprendere l’esperienza fondamentale della guerra al suo livello più elementare. Dice anche qualcosa sulla capacità delle astrazioni teoriche con cui necessariamente operano gli storici di cogliere fenomeni umani composti da innumerevoli percezioni e azioni individuali.

Dopotutto, non esiste strada migliore per comprendere il comportamento umano che attraverso gli occhi e le orecchie dei reali partecipanti. Le loro osservazioni, i loro sentimenti e i loro orrori sono originali, non annacquati da banali analisi o per mero intrattenimento.

Troppo spesso però, gli storici sono così affamati di aspetti analitici ed esplicativi che perdono il contatto con i misteri e le dinamiche degli individui e dei gruppi che costituiscono la storia. Così, il lato autentico e personale della storia, la comprensione dell’animo, dello spirito e del comportamento umano, viene sacrificato in nome di qualche nebulosa congettura o, altrettanto ripugnante, di qualche tentativo di modellare la memoria storica per adattarla a una dottrina ideologica o a un’altra. In entrambi i casi, si rinuncia al personale in favore dell’impersonale e, nel caso della guerra, le uccisioni e i massacri compiuti e subiti dagli esseri umani lasciano il posto all’asettico esercizio intellettuale della valutazione di strategie e tattiche.

Poiché il soldato medio è troppo spesso divorato dai grandi eventi della storia, l’approccio alla storia quotidiana ricerca una sensibilità per le tragedie umane intrecciate in questi cataclismi impersonali, ma che sia perspicace e accurata senza diventare stucchevole. Studiando le dure e terribili circostanze affrontate dal soldato anonimo, si può apprendere non solo qualcosa dell’effetto della guerra sullo spirito individuale, ma anche qualcosa della vita: la crudeltà, l’orrore e la paura che svuotano gli uomini interiormente, così come la compassione, il coraggio, lo spirito di cameratismo e la costante resistenza con cui si supera la miseria della vita.

Non ultimo dei paradossi della guerra è il fatto che, sebbene la guerra tiri fuori il peggio di noi, esalta anche le nostre migliori qualità. La storia dei Landser non è quindi solo una cronaca del cuore umano in conflitto con sé stesso; contiene anche elementi universali centrali per tutti noi.

“Troppe persone imparano a conoscere la guerra senza provare alcun disagio”, si lamentava Guy Sajer. “Leggono di Verdun o Stalingrado senza capire, seduti su una comoda poltrona, con i piedi accanto al fuoco, preparandosi come al solito a occuparsi dei propri affari del giorno dopo. Bisognerebbe davvero leggere questi resoconti per obbligo, scomodi […], in una buca nel fango. Bisognerebbe leggere della guerra nelle peggiori circostanze, quando tutto va male. […] Bisognerebbe leggere della guerra in piedi, a tarda notte, quando si è stanchi”.

La realtà della guerra continuerà a rimanere in gran parte irraggiungibile a coloro che non l’hanno vissuta in prima persona, ma imparando qualcosa dall’anonimo soldato, potranno almeno intravedere la piena dimensione della guerra, con tutta la sua complessa e ambivalente gamma di emozioni. “L’essenza del mio compito”, sosteneva Sajer scrivendo le sue memorie, era “risuscitare, con tutta l’intensità che potevo evocare, quelle grida lontane provenienti dal macello”.

La guerra è spregevole, ma la cronaca dei Landser dimostra che non tutti coloro che combattono le guerre sono spregevoli.

Come ha sottolineato Peter Knoch, tuttavia, il concetto di storia quotidiana è stato oggetto di molte discussioni. Sono state sollevate questioni fondamentali. Si può parlare propriamente di vita “quotidiana” in guerra? Guerra e vita quotidiana non si escludono forse a vicenda? Anzi, la guerra non è forse il fenomeno esattamente opposto a qualsiasi concezione profonda della vita quotidiana?

A prima vista, sembra difficile superare queste obiezioni. Eppure, la stessa durata del coinvolgimento tedesco nella Seconda guerra mondiale, quasi sei anni, portò molti Landser ad adattarsi a un universo di guerra. Il soldato medio non poteva semplicemente abbandonare la sua esistenza umana, ma viveva in un mondo che diventava routine e “vero” per lui.

Inoltre, come illustrano le loro lettere e i loro diari, molti di questi uomini non si ridussero a uno stato di coscienza irriflessiva, ma cercarono di comprendere l’essenza della vita quotidiana in guerra. Inoltre, come ha sostenuto Detlev Peukert, la storia quotidiana non ha un oggetto proprio, ma cerca di legittimare le esperienze indipendenti dei suoi soggetti, di mediare tra le esperienze di vita individuali e l’analisi storica impersonale, e di fornire una prospettiva su vari stili di vita e diverse aree della realtà sociale.

Peter Borscheid, infatti, sottolinea che la vita quotidiana in guerra non rimane in un mondo isolato che può essere studiato in laboratorio. Piuttosto, la guerra stessa è un catalizzatore di cambiamenti sociali significativi, quindi esiste una relazione complessa e dinamica tra la vita degli uomini in guerra e la più generale vita quotidiana di coloro che vivono nella società civile.

La vita quotidiana in guerra, naturalmente, ha le sue caratteristiche distintive, dal sopportare il peso della costante aspettativa di mutilazione o morte alla continua assimilazione di sofferenza e distruzione.

Rappresenta una vita senza sicurezza né riposo, senza pace emotiva né relazioni stabili, dove l’incertezza è la caratteristica quotidiana più evidente. Per il Landser, ogni battaglia suscitava emozioni complesse e spesso desideri selvaggi. In guerra, quindi, c’è un’inevitabile intensità di fondo che non esiste nella vita in tempo di pace. Per costruire un quadro della vita quotidiana dei soldati, gli storici utilizzano sempre più lettere, diari e memorie – i documenti umani più affidabili disponibili – per scoprire le esperienze comuni agli uomini in guerra. Ognuno di loro ha combattuto la propria guerra, ma dalla miriade delle percezioni individuali emergono temi e schemi comuni.

Questo approccio presenta, ovviamente, dei problemi. Il tipico Landser, ad esempio, raramente aveva il lusso di una scrivania, o il tempo e la solitudine in cui annotare tutti i suoi pensieri e le sue intuizioni sulla natura della guerra. In ogni caso, la maggior parte dei soldati arruolati era tipicamente incapace di esprimersi analiticamente, così che molte delle loro esperienze di prima mano rimangono immerse nella banalità della monotona esistenza quotidiana, oppure parlano di questioni intime di separazione personale piuttosto che del carattere e della struttura della vita al fronte.

Spesso, proprio i soldati con l’esperienza più diretta della battaglia sono meno in grado di riflettere su quell’esperienza per iscritto, sia per l’entità del trauma subito, sia per l’inadeguatezza del linguaggio – o della loro capacità di usarlo – a esprimere ciò che hanno visto e vissuto.

Un fattore che distingueva i Landser dal soldato medio, dal GI al Tommy o dall’Ivan (i soldasti statunitensi, britannici e sovietici), tuttavia, era la loro capacità descrittiva generalmente maggiore e il loro più elevato livello di alfabetizzazione.

Leggendo le loro lettere e i loro diari, si rimane colpiti dal loro notevole livello di intelligenza e lucidità. In parte ciò era una conseguenza del rigoroso sistema educativo tedesco, ma era anche dovuto in gran parte al modo in cui la Wehrmacht utilizzava il suo personale.

A differenza dell’Esercito americano, che fino al 1944 aveva assegnato i suoi uomini più istruiti a dei ruoli specializzati, la Wehrmacht impiegava una percentuale significativamente elevata dei suoi effettivi globali come truppe da combattimento.

Di conseguenza, persino uomini con un’istruzione universitaria si ritrovarono in prima linea. Inoltre, la dottrina nazista enfatizzava il concetto di una Volksgemeinschaft (comunità di popolo) approssimativamente modellata sul leggendario socialismo di trincea della Prima guerra mondiale, una comunità nazionale la cui armonia sociale, unità e autorità politica si basavano sull’integrazione di persone di ogni ceto sociale, trascendendo così il conflitto di classe.

Poiché l’Esercito tedesco aveva un’alta percentuale di uomini istruiti nelle linee più avanzate, uomini che avevano la propensione e la capacità di riflettere sulle proprie esperienze e di metterle per iscritto, il risultato è una documentazione straordinariamente ricca della vita al fronte, come viene raccontata in lettere, diari e memorie.

Tuttavia, occorre usare cautela soprattutto nell’uso delle memorie, poiché queste, se non basate su diari tenuti contemporaneamente agli eventi, possono cadere vittima di una memoria lacunosa o del desiderio di abbellire o indorare le proprie esperienze, perdendo così il loro valore di autenticità.

Inoltre, poiché l’esperienza diretta di un Landser era necessariamente limitata, gli storici rischiano di presumere un’universalità laddove potrebbe non essercene alcuna; per evitare ciò, devono ricercare la più ampia selezione possibile di fonti, cercando al contempo elementi o temi comuni. Inoltre, la realtà della censura significava che molti Landser sentivano costantemente la necessità di dare una sforbiciata ai propri pensieri, non solo per evitare di trasmettere informazioni militari come la consistenza, le disposizioni e le attività delle truppe, ma anche per mantenere dichiarazioni e atteggiamenti politici guardinghi, poiché le dichiarazioni critiche sul governo potevano portare alla pena di morte. “Il censore ovviamente potrebbe “non vedere tutto ciò che è scritto”, confermò un Landser, poi ammise, “ma credetemi, molte fesserie vengono ancora scritta a casa”.12

Tuttavia, il flusso di lettere da e per il fronte (stimato in 40-50 miliardi in totale per tutta la guerra, e in alcuni singoli mesi fino a 500 milioni) fece sì che molte passassero attraverso la censura senza essere aperte; e più a lungo la guerra continuava, meno seriamente molti Landser consideravano il censore.

Come conclusero due delle massime autorità in materia di Feldpostbriefe (lettere della Posta da Campo) tedesche dopo aver studiato migliaia di tali missive, “la massa dei soldati esprimeva le proprie opinioni e i propri punti di vista in modo sorprendentemente aperto e disinibito”.

Quindi, nonostante i problemi, si può imparare molto da uno studio di lettere e diari, soprattutto se lo storico collega questi documenti necessariamente individuali e ristretti a un contesto più ampio. Illustrando la realtà del combattimento da un punto di vista personale, lo storico può dimostrare meglio l’impatto della guerra in tutte le sue dimensioni. Un simile approccio conferisce anche un vivido senso di immediatezza e realtà al tema spesso impersonale della guerra. Inoltre, offre spunti di riflessione sui misteri delle azioni individuali e delle dinamiche di gruppo, nonché sul comportamento psicologico ed emotivo in condizioni di stress estremo. Soprattutto, questi documenti rimangono promemoria personali degli elementi umani presenti nei giganteschi eventi della Seconda guerra mondiale.

Nel sottolineare questa dimensione individuale della guerra, tuttavia, lo storico deve evitare di cadere in una banale idealizzazione dell’“uomo comune” e cercare invece di fornire un ritratto onesto e accurato della vita quotidiana al fronte.

Presi insieme e utilizzati giudiziosamente, lettere e diari possono aiutare a vedere i Landser sia come soggetti che come oggetti. Aspetto altrettanto importante, essi forniscono preziose informazioni su quella che rimane una delle ironie più sconcertanti della guerra: perché il Landser medio combattesse così furiosamente in difesa di un regime apparentemente tanto condannabile. Nessuno costringeva i soldati a fare commenti positivi sul regime nazista e sulla guerra, così che se alcune lettere hanno un tono di imitazione propagandistica, altre riflettono una genuina simpatia e sostegno per Hitler e il nazismo.

Un Esercito, e gli uomini al suo interno, non possono essere completamente separati dal sistema di valori che lo ha prodotto. In effetti, un Esercito tende a riflettere la società da cui è nato, quindi se gli uomini della Wehrmacht combatterono con fermezza a sostegno di Hitler e del nazismo, qualcosa all’interno dello Stato hitleriano deve aver toccato una corda sensibile.

Come Hegel sottolineò molto tempo fa, gli uomini combattono per difendere le idee molto più facilmente che gli interessi materiali, un’intuizione che ha trovato rinnovato valore da un esame del comportamento del Landser medio.

Dal punto di vista tedesco, la Seconda guerra mondiale, in particolare quella parte combattuta in Russia, fu la guerra ideologica per eccellenza, poiché in fondo era intesa come una guerra di idee, con l’idea nemica che minacciava la validità dei concetti nazionalsocialisti che un numero sorprendentemente elevato di Landser aveva abbracciato. E la tenacia del soldato tedesco medio, il suo senso di serietà e finalità nella vita – che spesso andava oltre il sacrificio, il coraggio e la determinazione fino al fanatismo – dipendevano in larga misura dalla convinzione che la Germania nazionalsocialista avesse redento i fallimenti della Prima guerra mondiale e avesse ripristinato, sia individualmente che collettivamente, un senso di identità unicamente tedesco.

La doppia tragedia del Landser, quindi, risiedeva nel fatto che, in nome dell’ostilità verso un’idea nemica apparentemente estranea e minacciosa, commise indicibili atti di aggressione e distruzione, venendo allo stesso tempo consumato, sia fisicamente che spiritualmente, dalla macchina della guerra. “È così importante la difesa delle nostre idee, delle nostre definizioni di noi stessi e delle nostre società”, sottolinea Robin Fox, “che ci impegneremo volontariamente a distruggere coloro che le percepiscono come nemiche e a dimostrare le più alte forme di coraggio umano nel farlo”. In definitiva, però, questa è la giustificazione più profonda di uno studio sul soldato comune, perché, come conclude Fox, “Dopotutto sono le idee che ci rendono umani”.

Foto: Sammlung Berliner Verlag Archiv

 

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