Gli Stati Uniti rilanciano le sanzioni contro la Russia

 

Nei giorni scorsi, il Kiel Institut, centro studi tedesco che quantifica quasi in tempo reale l’entità dell’assistenza militare e finanziaria erogata a beneficio dell’Ucraina dai suoi sponsor internazionali, ha segnalato una caduta verticale del supporto bellico accordato a Kiev dall’Unione Europea.

Nello specifico, il controvalore medio delle forniture militari è crollato da 3,85 miliardi di euro nel primo semestre del 2025 a 1,65 miliardi nei mesi di luglio e agosto. Si parla di un calo del 57%, emblematico di una tendenza riscontrabile anche tra i sostenitori extraeuropei dell’Ucraina.

L’assistenza complessiva è diminuita del 43% nel medesimo arco temporale, a dispetto del pacchetto da 1,2 miliardi di dollari annunciato dal Canada lo scorso agosto.

Dati inequivocabili, attestanti una declinante capacità di rifornire con continuità e regolarità l’Ucraina da parte del gruppo di sostegno internazionale, da cui gli Stati Uniti sono fuoriusciti all’inizio del 2025 per riciclarsi come “piazzisti” a gettone di materiale militare.

Il riposizionamento statunitense varato sotto l’amministrazione Trump ha indotto l’Unione Europea a sobbarcarsi gran parte degli oneri e perfino ad allargare ulteriormente i cordoni della borsa per l’acquisto di armamenti statunitensi da trasferire a Kiev, nell’ambito della Prioritized Ukraine Requirements List (Purl) predisposta dalla Nato. Al punto da portare la media mensile degli stanziamenti a favore di Kiev registrata nella prima metà del 2025 al di sopra della quota registrata durante il periodo 2022-2024, nonostante l’interruzione del supporto statunitense.

Gli sforzi addizionali profusi dall’Unione Europea nel primo semestre di quest’anno rendono ancor più sorprendente il cambio di registro emerso rispetto ai mesi di luglio e agosto, che riguarda tuttavia il solo settore militare. Nel bimestre in oggetto è stata infatti erogata assistenza finanziaria e umanitaria per un controvalore di 7,5 miliardi di euro, in perfetta continuità con i mesi precedenti. «Il livello complessivo del sostegno finanziario e umanitario è rimasto relativamente stabile, anche in assenza dei contributi statunitensi.

Ora è fondamentale che questa stabilità si estenda anche al sostegno militare, poiché l’Ucraina fa affidamento su di esso per sostenere i propri sforzi di difesa sul terreno», ha sottolineato Cristoph Trebesch, a capo dell’Ukraine Support Tracker del Kiel Institut.

Dichiarazioni dello stesso tenore sono state formulate dal segretario alla Guerra Hegseth, che durante il recente vertice del gruppo di contatto sull’Ucraina tenutosi presso il quartier generale della Nato a Bruxelles ha esortato i Paesi europei a incrementare gli investimenti previsti dal PURL così da porre gli Stati Uniti nelle condizioni di garantire a Kiev la “potenza di fuoco” necessaria a reggere l’urto russo.

 

Le nuove sanzioni statunitensi

L’impegno dichiarato e solennemente assunto – perfino dalla recalcitrante Spagna – a incrementare il sostegno militare all’Ucraina va di pari passo con l’aumento della pressione economica sulla Russia. Il 23 ottobre, dopo aver proclamato la cancellazione del vertice di Budapest con Putin annunciato solo pochi giorni prima, il presidente Trump ha irrogato pesanti sanzioni contro i colossi dell’energia russi Rosneft e Lukoil. L’obiettivo, spiega il segretario al Tesoro Bessent, è quello di punire, colpendo le esportazioni petrolifere russe via mare,  «il rifiuto del presidente Vladimir Putin di porre fine a questa guerra insensata, colpendo le due maggiori compagnie petrolifere che finanziano la macchina bellica russa in Ucraina. Incoraggiamo i nostri alleati a unirsi a noi e ad aderire a queste restrizioni».

Prevedibilmente, le nuove sanzioni hanno impresso una poderosa e immediata spinta al prezzo del petrolio, come certificato dalla crescita vigorosa delle quotazioni del Brent del Mare del Nord, del West Texas Intermediate statunitense e dell’Urals russo. Analogamente a quanto verificatosi sulla scia delle misure punitive imposte a suo tempo dall’amministrazione Biden contro Gazprom Neft e Surgutneftegas, la rivalutazione della materia prima innescata dalle sanzioni va a compensare la riduzione quantitativa dell’export che ne deriva.

Lo dimostrano i dati forniti dal Ministero delle Finanze di Mosca, da cui emerge che, a dispetto delle sanzioni, la Russia ha ricavato nel 2024 entrate dalla vendita di petrolio e gas del 26% superiori rispetto all’anno precedente, ovviando alla caduta del 24% su base annua registrata nel 2023.

La Cina, principale acquirente di petrolio russo e legata a Mosca da intese pluridecennali quali quella relativa alla realizzazione del gasdotto Power of Siberia-2, non manifesta segnali di cedimento alle pressioni statunitensi, continuando a importare via mare circa 1,4 dei 2,2 milioni di barili giornalieri di petrolio russo attraverso le cosiddette “teiere”.

Vale a dire raffinerie private di piccole dimensioni concentrate nella provincia costiera di Shandong, istituite a partire dal 2015 per garantire l’approvvigionamento iraniano attraverso le sanzioni. Non vincolate al regime sanzionatorio statunitense, le “teiere” ricevono petrolio russo, lo lavorano e lo trasferiscono alle compagnie statali PetroChina, Sinopec, Cnooc e Zhenhua Oil, che continuano a beneficiare indirettamente dei flussi provenienti dalla Russia.

Il governo cinese, per di più, si è premurato di riaffermare la solidità granitica delle relazioni sino-russe diramando, in occasione della recente visita a Pechino del primo ministro russo Mišustin, un comunicato congiunto in cui si legge che: «entrambe le parti [Cina e Russia] sosterranno ogni sforzo necessario per fornire reciproca assistenza e cooperazione nell’opposizione alle misure coercitive unilaterali. Qualsiasi misura coercitiva unilaterale adottata da qualsiasi Paese che eluda le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è illegale». Pechino e Mosca hanno quindi «sottolineato la necessità di impedire a un Paese di abusare del proprio monopolio e della propria posizione dominante in specifici settori dell’economia mondiale».

Dal punto di vista di Pechino, per di più, le nuove sanzioni statunitensi rappresentano un formidabile incentivo per aggirare strutturalmente il dollaro, attraverso l’accelerazione del processo di “internazionalizzazione dello yuan-renminbi” di cui il «Financial Times» documenta il costante avanzamento imputandolo proprio all’effetto propulsivo esercitato dalle sanzioni statunitensi ed europee contro la Russia.

Secondo i calcoli del quotidiano britannico, il volume dei prestiti esteri, degli investimenti obbligazionari e dei depositi in yuan-renminbi gestiti da banche cinesi è quadruplicato nell’arco di un quinquennio, raggiungendo quota 3,4 trilioni di yuan-renminbi – pari a circa 480 miliardi di dollari.

I dati forniti dall’Amministrazione Statale dei Cambi di Pechino attestano un rapido incremento della quota denominata in yuan-renminbi delle attività esterne a reddito fisso riconducibili al circuito bancario cinese, più che raddoppiate nell’ultimo decennio – superando 1,5 trilioni di dollari. La Bank for International Settlements di Basilea quantifica in 373 miliardi di dollari in un quadriennio l’incremento del credito bancario estero in yuan-renminbi erogato a favore dei Paesi in via di sviluppo, precisando che «il 2022 ha segnato una svolta, passando dal credito denominato in dollari ed euro a quello denominato in renminbi» per i debitori del cosiddetto “Sud del mondo”.

Approfittando dei bassi tassi di interesse vigenti in Cina, Paesi come Kenya, Angola ed Etiopia hanno convertito in yuan-renminbi vecchi debiti espressi in dollari. Indonesia e Slovenia, invece, hanno annunciato l’intenzione di emettere obbligazioni denominate in valuta cinese, emulando l’esempio della banca di sviluppo del Kazakistan che ha piazzato un’obbligazione offshore da 2 miliardi di yuan-renminbi a un rendimento del 3,3%.

La New Development Bank, l’istituto di credito di riferimento del Brics, ha emesso nel 2025 “Panda Bond” per un controvalore di 7 miliardi di yuan-renminbi, pari al 70% delle emissioni internazionali.

L’affermazione della valuta cinese si riflette nelle statistiche del sistema di pagamenti transfrontalieri Swift, da cui emerge una quadruplicazione nell’arco di un triennio della quota di commercio globale finanziata in yuan-renminbi, giunta a settembre al 7,6% del totale. L’incremento del valore delle transazioni denominate in valuta cinese all’interno del Cips, il sistema di pagamenti transfrontalieri messo a punto da Pechino, ha tuttavia registrato una crescita ancor più rapida e consistente, passando da un importo prossimo allo zero a 40.000 miliardi di yuan-renminbi per trimestre dall’inizio del 2025.

Segno, evidenzia Bert Hoffman, docente presso l’East Asian Institute della National University of Singapore, di una «migrazione dei pagamenti verso il sistema cinese, che rafforza l’ambizione di Pechino di abbandonare il sistema monetario globale basato sul dollaro in favore di un’architettura multipolare e multivalutaria».

I dati pubblicati dalle dogane cinesi mostrano che il volume dell’interscambio della Cina con il resto del mondo liquidato ogni mese in valuta locale supera regolarmente il trilione di yuan-renminbi, divenuta ormai la seconda moneta maggiormente impiegata nel commercio internazionale dopo il dollaro. Per Hoffman, «tutti gli elementi che renderebbero possibile un’internazionalizzazione [dello yuan-renminbi, nda] molto più rapida si stanno concretizzando». Sanzioni statunitensi comprese.

L’India, altro grande importatore di petrolio russo, si trova in una situazione più delicata. Non disponendo di un ecosistema di “teiere” modellato sul calco cinese e approvvigionandosi in larghissima parte via mare, importa petrolio greggio russo attraverso una rete di raffinerie private, come Reliance Industries, che operano per conto delle compagnie statali Indian Oil Corporation, Bharat Petroleum Corporation e Hindustan Petroleum Corporation.

Lo scorso 16 ottobre, il governo Modi ha annunciato una diversificazione degli approvvigionamenti per soddisfare parzialmente le richieste dell’amministrazione Trump e ottenere la revoca dei nuovi dazi del 25% (che combinati a quelli in essere portano la soglia al 50%) imposti da Washington ad agosto con l’obiettivo di forzare Nuova Delhi a indebolire la partnership energetica con Mosca.

L’apertura indiana non è tuttavia coincisa con un blocco delle importazioni di energia dalla Russia, cresciute a dismisura a scapito di quelle mediorientali in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino con il consenso degli stessi Stati Uniti che ne apprezzavano l’effetto stabilizzatore sul mercato energetico mondiale. I dati disponibili attestano che, nel mese di settembre, i centri di lavorazione indiani hanno importato dalla Russia oltre 1,5 milioni di barili al giorno, compensando alla diminuzione del 45% degli acquisti da parte delle compagnie statali registrata nel periodo giugno-settembre.

Secondo KPLER, società di consulenza finanziaria con sede a Singapore, nemmeno a ottobre si è registrato «alcun segno visibile di riduzione, con le importazioni stabilizzatesi intorno a 1,8 milioni di barili al giorno», a dispetto dei roboanti annunci di Trump che asseriva di aver ricevuto assicurazioni dal suo omologo Modi circa l’impegno dell’India a interrompere le importazioni di petrolio russo.

Reliance Industries, il maggiore acquirente privato di petrolio russo in India, ha proclamato una “ricalibrazione” degli acquisti. Meno chiara risulta la posizione di Nayara Energy, secondo importatore di greggio russo partecipato per di più da Rosneft e quindi particolarmente vulnerabile alle stilettate Usa. Una diminuzione provvisoria delle importazioni di petrolio russo è altamente probabile, così come una successiva risalita ai livelli tradizionali dovuta alla politica energetica indiana, incline a privilegiare prezzi stabili e forniture sicure impossibili da ottenere includendo la Russia nell’elenco delle fonti di approvvigionamento proibite, in cui Nuova Delhi aveva già inserito Iran e Venezuela sempre dietro il pungolo statunitense.

Sebbene, anche alla luce della riduzione tendenziale degli sconti sulle forniture applicati da Mosca, Amitendu Palit della National University of Singapore sostenga che «i vantaggi economici dell’acquisto di petrolio russo non sono poi così significativi» rispetto alla prospettiva di un accordo commerciale con gli Stati Uniti, il punto è che non esistono canali di rifornimento alternativi in grado di rimpiazzare completamente il petrolio russo.

Come ha dichiarato Anuj Jain della Indian Oil Corporation, «non interromperemo assolutamente le importazioni [di petrolio russo, nda] nella misura in cui rispetteremo le sanzioni. Attualmente, il greggio russo non è soggetto a sanzioni. Sono le entità e le compagnie di navigazione ad avere sanzioni.

Quindi, se oggi qualcuno si presenta con un’entità non sanzionata, per quanto ci riguarda la spedizione è regolare, e continueremo ad acquistarlo. Varie forme di triangolazione potrebbero inoltre essere messe in piedi per aggirare i provvedimenti punitivi statunitensi, sul calco dei modelli allestiti dalla Turchia e dai Paesi dell’Asia centrale dal 2022 in poi.

In compenso, il rialzo dei prezzi del petrolio stimolato dalle sanzioni risulta pienamente confacente con gli interessi riconducibili ai produttori di idrocarburi non convenzionali statunitensi, che necessitano di un break even piuttosto elevato (65-70 dollari per barile) e costituiscono uno dei bacini elettorale di riferimento più rilevanti per Trump. Il quale rischia in compenso di inimicarsi il favore dei consumatori statunitensi, per i quali la rivalutazione del prezzo del petrolio si traduce in un aumento del costo del carburante sempre più difficile da sostenere, come certificato dall’aumento costante del debito delle famiglie.

Lo ha sottolineato lo stesso Putin, secondo cui le misure punitive appena irrogate rappresentano «un atto ostile che potrebbe ritorcersi contro, facendo impennare i prezzi globali del petrolio», già sospinti verso l’alto dalla “strana” catena di esplosioni registrate a brevissima distanza di tempo una dall’altra presso ben tre raffinerie dell’Europa orientale che processavano idrocarburi russi.

La Russia, ha spiegato il leader del Cremlino, risentirà dei provvedimenti statunitensi diretti contro Rosneft e Lukoil, ma l’impatto sull’economia nazionale risulterà scarsamente significativo.

 

L’Unione Europea si allinea, senza andare fino in fondo

Alle misure punitive statunitensi ha fatto seguito il 19° pacchetto di sanzioni dell’Unione Europea, implicante un divieto graduale di importazione di GNL e idrocarburi aciclici; limitazioni sulle operazioni finanziarie a carico di Rosneft e Gazprom Neft; ulteriori restrizioni nei confronti della “flotta ombra” russa, di banche e aziende sia russe che straniere e di produttori d’oro russi; messa al bando della stablecoin A7A5.

Secondo i rappresentanti danesi che occupano la presidenza di turno dell’Unione Europea, quello appena approvato rappresenta «un pacchetto significativo, che mira a colpire le principali fonti di entrate russe attraverso nuove misure in ambito energetico, finanziario e commerciale».

Senonché, come ha spiegato nel corso del recente Verona Eurasian Economic Forum di Istanbul l’amministratore delegato della compagnia energetica russa Novatek (leader nazionale del settore del GNL) Leonid Mikhelson, «la Russia rappresenta attualmente oltre il 10% della produzione globale di GNLl» e occupa pertanto una posizione strategicamente inaggirabile, poiché «è impossibile soddisfare la futura crescita della domanda senza le riserve artiche, gran parte delle quali si trovano sotto la giurisdizione russa».

Ne consegue che le consegne messe al bando dall’Unione Europea «si indirizzeranno semplicemente verso altri mercati», mentre a pagare il prezzo maggiore degli «aumenti dei prezzi senza precedenti» generati dalle recenti misure punitive saranno «in particolare i consumatori europei».

La nuova tornata di sanzioni europee ha aperto il varco al disegno di legge predisposto dal Consiglio d’Europa che affida alla Commissione Europea il compito di fornire le basi giuridiche per l’erogazione di una linea di credito a favore di Kiev da 140 miliardi di euro garantita dagli asset pubblici russi sottoposti a congelamento dal marzo 2022.

Si parla di 185 miliardi di dollari di beni depositati soltanto in Euroclear, società di compensazione finanziaria con sede in Belgio la cui affidabilità risulta strettamente vincolata all’osservanza del principio di neutralità e delle norme giuridiche vigenti in materia di custodia dei titoli.

L’escamotage individuato dagli specialisti europei per aggirare il problema consiste nel subordinare la restituzione dei fondi russi impegnati a garanzia del prestito alla disponibilità di Mosca a rifondere riparazioni di guerra a beneficio dell’Ucraina.

e facto, tuttavia, l’iniziativa promossa dal Consiglio d’Europa contempla un esproprio forzoso di proprietà a danno dello Stato russo. Finora, l’Unione Europea aveva evitato di spingersi così in profondità, “limitandosi” all’implementazione di un meccanismo di sequestro, trasferimento sul bilancio comunitario e reimpiego sotto forma di assistenza nei confronti dell’Ucraina degli interessi e dei redditi generati dagli asset russi depositati presso Euroclear e altri istituti di credito.

Redditi e interessi non rientrano infatti nella categoria di “proprietà sovrana”, a differenza del capitale originario che li produce. Agire unilateralmente su quest’ultimo, rappresentato nel caso specifico dalle riserve valutarie russe, significherebbe violare deliberatamente il pilastro giuridico dell’immunità sovrana degli Stati, esponendo il Belgio a colossali richieste di indennizzo per inadempienza agli obblighi contrattuali e condannando l’Unione Europea a una perdita definitiva e irreparabile di credibilità internazionale, già pesantemente danneggiata dal congelamento dei beni russi.

L’Ufficio Federale di Giustizia svizzero lo aveva già rilevato nel 2023, sottolineando che «l’espropriazione di beni privati di lecita provenienza senza indennizzo non è consentita dal diritto svizzero. La confisca di beni privati bloccati è incompatibile con la Costituzione Federale e l’ordinamento giuridico vigente. Viola inoltre gli impegni internazionali della Svizzera. Altri Paesi godono di diritti e garanzie costituzionali analoghi».

Le autorità belghe sono approdate a conclusioni sostanzialmente analoghe, ponendo per tramite del primo ministro Bart De Wever tre condizioni vincolanti per la concessione del proprio via libera: «mutualizzazione del rischio, garanzie concrete da parte di tutti i Paesi in materia di contribuzione a fronte di eventuali rimborsi e impiego di tutti i beni russi immobilizzati, anche al di fuori del territorio belga.

Se queste tre ragionevolissime richieste saranno soddisfatte, allora potremo andare avanti. In caso contrario, farò tutto ciò che è in mio potere a livello europeo, anche a livello nazionale, politicamente e giuridicamente, per bloccare questa decisione».

Anche perché «subiremo enormi richieste di risarcimento. Vogliamo garanzie circa il fatto che, qualora il denaro debba essere restituito, tutti gli Stati membri contribuiscano. Le conseguenze non possono riguardare solo il Belgio. Inoltre, ogni Paese che ha immobilizzato beni si muova insieme a noi, perché noi siamo gli unici, Euroclear èl’unica istituzione finanziaria che offre extra-profitti all’Ucraina. Sappiamo che ci sono ingenti somme di denaro russo in altri Paesi che sono sempre stati silenziosi al riguardo. Se ci muoviamo, dobbiamo farlo tutti insieme. Questa è la solidarietà europea».

L’irremovibilità di De Wever (nella foto sotto) – definito un “bad boy” dalla rivista «Politico» per via del suo “ostruzionismo” – ha fin da subito palesato la conclamata indisponibilità alla condivisione dei rischi da parte di diversi Stati, i quali hanno invocato «rassicurazioni sulla solidità giuridica dello schema» predisposto dalla Commissione Europea, accusata di aver «sottovalutato la complessità tecnica e legale dell’operazione», in linea con la posizione assunta dalla Banca Centrale Europea dichiaratasi «preoccupata per le implicazioni sulla credibilità dell’euro come valuta di riserva mondiale».

Per il presidente dell’Eurogruppo Paschal Donohoe, «ci sono alcuni elementi che è necessario continuare a preservare, il primo è che dobbiamo agire in modo coerente con il diritto internazionale; il secondo è che dobbiamo agire in modo da evitare nuovi rischi economici, sia per l’eurozona che per i singoli Stati membri; in terzo luogo, dobbiamo trovare soluzioni alternative per sostenere l’economia ucraina e la sua difesa».

I dubbi e timori generalizzati nei confronti dell’impianto tecnico-giuridico predisposto dalla Commissione Europea ha pregiudicato qualsiasi possibilità d’intesa collegiale in merito all’impiego a beneficio dell’Ucraina dei fondi russi congelati.

Come si legge all’interno della dichiarazione finale del summit del 23 ottobre, sottoscritta da 26 dei 27 leader europei (Ungheria astenuta), «il Consiglio d’Europa invita la Commissione a presentare, il prima possibile, proposte di sostegno finanziario basate su una valutazione delle necessità dell’Ucraina, e invita le parti coinvolti a portare avanti i lavori affinché il Consiglio d’Europa possa tornare su questa questione nella sua prossima riunione», prevista per dicembre. Permane, nel documento, il passaggio alquanto vago secondo cui: «fatto salvo il diritto dell’Unione Europea, i beni della Russia dovrebbero rimanere congelati fino a quando Mosca non porrà fine alla sua guerra di aggressione contro l’Ucraina e non verserà i danni causati dalla sua guerra».

Il Consiglio d’Europa sembra quindi aver preso atto che l’esproprio dei beni russi mette a repentaglio la stabilità dell’architettura finanziaria internazionale, imperniata sulla sacralità della custodia delle riserve sovrane, oltre ad aprire il varco a un’ondata di cause legali.

Come ha rivelato il premier belga, «Mosca ci ha avvertito che, se tocchiamo i soldi, ne sentiremo gli effetti per l’eternità […] Gli attivi congelati non sono stati confiscati nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale […]. Se prendiamo i soldi di Putin, lui prenderà i nostri».

Sebbene abbia esplicitato l’intenzione di non rivalersi su alcun bene europeo, «comprese aziende e banche», il Ministero delle Finanze di Mosca ha comunque chiarito che «valuterà la sua posizione qualora l’Unione Europea dovesse procedere alla confisca dei beni sovrani russi congelati».

Di recente, il presidente Vladimir Putin ha firmato un decreto che snellisce radicalmente l’iter procedurale per la nazionalizzazione la successiva riprivatizzazione di aziende sia domestiche che a capitale estero. Attualmente, all’interno della Federazione Russa operano banche e imprese quali Unicredit, Raiffeisen Bank e Pepsi.

A dispetto delle implicazioni potenzialmente catastrofiche, il presidente Macron e il cancelliere Merz hanno sostenuto con forza la confisca de facto degli asset russi, di cui i vertici dell’Unione Europea stanno cercando di imporre la digestione ai governi più recalcitranti.

Lo rivela «Politico», secondo cui «l’Unione Europea è in corsa contro il tempo su due fronti. In primo luogo, l’Ucraina è destinata a esaurire i fondi entro la fine di marzo. In secondo luogo, il processo decisionale potrebbe presto diventare molto più difficile, dal momento che l’Ungheria sta tentando di unire le forze con la Repubblica Ceca e la Slovacchia, così da formare un’alleanza scettica nei confronti dell’Ucraina. Molti ritengono che occorra agire ora o mai più».

Dal momento che l’eccessiva indisciplina fiscale di diversi Paesi europei rende estremamente ardua la costruzione di un consenso unanime attorno alla prospettiva degli eurobond, la requisizione dei beni russi viene inesorabilmente a configurarsi come l’unica soluzione alternativa per garantire sostegno all’Ucraina.

L’«Economist» quantifica in circa 389 miliardi di dollari per il prossimo quadriennio l’ammontare del supporto di cui Kiev necessita, e aggiunge che «l’Europa deve farsi coraggio e riconoscere la propria forza. Il suo budget militare è già quattro volte superiore a quello della Russia. La sua economia, dieci volte più grande. Invece di esitare nella battaglia finanziaria con il Cremlino, l’Europa ci si getti a capofitto e vinca la guerra».

Le valutazioni della rivista britannica superano vistosamente quelle formulate settimane addietro dal ministro della Difesa ucraino Denys Šmyhal’ secondo cui «per il 2026 il nostro fabbisogno per la guerra è di 120 miliardi: 60 verranno dal nostro bilancio, il resto deve essere fornito dai partner, o con un contributo dello 0,25% del loro Pil, tra Europa e Paesi esterni, oppure grazie all’uso degli asset russi immobilizzati».

Oltre a esortare l’Unione Europea a procedere alla confisca dei beni russi, le autorità ucraine hanno intensificato le pressioni sui vertici della struttura comunitaria affinché non pongano alcun vincolo alle loro modalità di impiego. Iryna Mudra, consulente legale di alto livello del presidente Zelensky, ha affermato che: «l’Ucraina ritiene che qualsiasi condizionalità mini il principio di giustizia. Deve essere la vittima, e non i donatori o i partner, a decidere come affrontare le sue esigenze più urgenti».

 

Capacità industriale insufficiente

 Nello specifico, la Mudra sostiene che parte del prestito debba essere destinato a «urgenti esigenze di ricostruzione» riguardanti soprattutto le infrastrutture energetiche prese sistematicamente di mira dagli attacchi russi e, in misura minore, al risarcimento delle vittime. Il grosso dei fondi va tuttavia indirizzato verso il settore della difesa, e non necessariamente, come caldeggiato dalla Commissione Europea, verso l’acquisto di armi fabbricate all’interno del “vecchio continente”.

Anche perché l’Europa non dispone di adeguate capacità produttive, come specificato dal primo ministro svedese Kristersson nel sottolineare che la fornitura di «un massimo di 150 caccia» Gripen (fabbricati dalla Saab) concordata recentissimamente con il presidente Zelensky seguirà ritmi di consegna molto lenti. «Questo – ha dichiarato Kristersson – è l’inizio di un lungo percorso di 10-15 anni».

Pur riconoscendo l’importanza degli accordi di cooperazione siglati con le industrie europee operanti nel settore della difesa, la Mudra ha infatti posto l’accento «sul nostro diritto di stabilire come allocare le risorse tra i settori della difesa: se non ci sono sufficienti capacità di difesa nei Paesi europei, allora dobbiamo avere la possibilità di acquistare materiale militare da Paesi extraeuropei».

Cioè dagli Stati Uniti, anche se parimenti sprovvisti di una capacità industriale commisurata alle necessità ucraine. Lo scorso luglio, l’Ucraina era riuscita a ottenere soltanto tre nuovi sistemi Patriot a fronte dei dieci richiesti da Zelensky, il quale puntualizzò di aver «ricevuto ufficialmente la conferma dalla Germania per due sistemi e dalla Norvegia per uno», più un altro dall’Olanda.

Il 20 ottobre, il presidente ucraino ha annunciato l’imminente finalizzazione di un accordo con Washington che impegna gli Stati Uniti a fornire all’Ucraina 25 sistemi Patriot «nel corso degli anni, con quantità diverse ogni anno», in attesa che gli ordini in essere nel portafoglio di Raytheon (produttrice del sistema Patriot) e Lockheed Martin (produttrice dell’intercettore Pac-3) vengano regolarmente evasi.

Il problema è che, sottolinea il «Financial Times», «con l’avvicinarsi dell’inverno, Mosca sta tornando alla sua consueta strategia consistente nel colpire la rete elettrica ucraina per far sprofondare il Paese nell’oscurità e indebolire il morale. Quest’anno, l’evoluzione della tecnologia missilistica russa rende la minaccia ancora più grave».

 

I Patriot non funzionano più, i russi stringono la morsa a Pokrovsk

Più specificamente, attestano le rivelazioni formulate dall’ex vicecapo di Stato Maggiore delle forze armate ucraine Igor Romanenko, l’Ucraina registra da qualche mese una caduta verticale dell’efficacia dei Patriot, considerati per lungo tempo dalle autorità di Kiev come gli unici sistemi dotati di un significativo livello di funzionalità.

Rielaborando i dati forniti dall’alto comando ucraino, il Centre for Information Resilience di Londra ha calcolato un crollo del tasso di intercettazione dei vettori Pac-2 e Pac-3 dal 37% registrato a luglio al 6% di settembre, a fronte di un numero inferiore di attacchi missilistici russi.

Un funzionario ucraino raggiunto dal «Financial Times» attribuisce questo risultato proprio alla maggior manovrabilità conferita ai missili balistici dall’aggiornamento dei relativi software. I missili ipersonici Iskander-M e Kinžal, in particolare, seguono attualmente «una traiettoria tipica prima di deviare e tuffarsi in una picchiata terminale ripida, o eseguire manovre che confondono ed evitano gli intercettori Patriot».

La valutazione del funzionario è supportata dal contenuto di un rapporto redatto dall’ispettore generale speciale della Defense Intelligence Agency degli Stati Uniti, focalizzata sul periodo intercorrente tra l’1 aprile e il 30 giugno. Il documento sostiene che le forze armate ucraine «hanno riscontrato crescenti difficoltà nell’impiegare in maniera coerente i sistemi di difesa aerea Patriot per proteggersi dai missili balistici di Mosca a causa dei recenti miglioramenti tattici apportati dai russi, inclusi i potenziamenti che consentono ai loro missili di cambiare traiettoria ed eseguire manovre anziché volare lungo una traiettoria balistica tradizionale».

 

Il costante deterioramento della macchina militare ucraina

La declinante efficacia dei sistemi antiaerei in dotazione alle forze armate di Kiev si traduce in aumento proporzionale dei livelli di distruzione raggiunti dagli attacchi missilistici condotti dai russi, che proprio in questi giorni stanno accerchiando migliaia di soldati ucraini nel settore di Pokrovsk.

Si tratta di un caposaldo fondamentale: «se cade, l’Ucraina perde il più grande distretto fortificato e può cadere tutta la difesa strategica. Ha un’importanza politica, economica, militare e logistica assoluta», ha sottolineato l’ex colonnello ucraino Oleg Starikov.

Secondo l’ex viceministro della Difesa ucraino Vitalij Deynega, invece, «se nessuno firmerà un ordine di ritiro delle truppe da Pokrovsk e Mirnohrad, potremmo trovarci in una situazione non solo di perdita di un numero significativo di paracadutisti e marines motivati al massimo (per tacere sulle centinaia di milioni di dollari di mezzi perduti e impossibili da evacuare), ma anche di forze insufficienti per rattoppare i buchi nella nostra difesa. I rapporti dello Stato Maggiore sono sempre più pieni di menzogne.

In effetti, abbiamo praticamente perso Pokrovsk, il che significa che non ha senso mantenere Mirnohrad. Non è un grande segreto: i russi se ne accorgono perfettamente in tempo reale, con tutti i droni di cui dispongono».

Le difficoltà crescenti sul campo di battaglia si combinano a un vero e proprio esodo di massa di giovani ucraini: si parla di quasi 100.000 persone espatriate a partire dall’entrata in vigore, nel mese di agosto, del provvedimento che ha sancito l’apertura parziale delle frontiere. Anche le diserzioni stanno aumentando a ritmo sostenuto.

Lo riferisce la pubblicazione ucraina «Strana», che stima 15-18.000 casi al mese avvalorando la denuncia presentata giorni prima durante una trasmissione radiofonica dal deputato del partito Servitore del Popolo Galina Yančenko.

A suo avviso, circa 300.000 elementi inquadrati nelle forze armate ucraine hanno disertato o si sono resi irreperibili, e altri 1,5 milioni non hanno aggiornato i loro dati nel registro dei richiami alla leva.

Foto: TASS, Xinhua, Fox News, Reliance, Forze Armate Ucraine, Forze Armate Olandesi, Commissione Europea, Die Morgen, Presidenza Ucraina

 

Giacomo GabelliniVedi tutti gli articoli

Analista economico e geopolitico, saggista, gestore del canale YouTube "Il Contesto | Analisi economica a geopolitica" e dell'omonimo sito web. Ha all'attivo numerose collaborazioni con testate sia italiane che straniere, tra cui le riviste "La Fionda" e "Krisis" e il quotidiano cinese "Global Times". È autore di numerosi volumi, tra cui Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell'ordine economico statunitense (Mimesis, 2021), Ucraina. Il mondo al bivio (Arianna, 2022), Dottrina Monroe. L'egemonia statunitense sull'emisfero occidentale (Diarkos, 2022), Taiwan. L'isola nello scacchiere asiatico e mondiale (LAD, 2022), Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana (Diarkos, 2023), Scricchiolio. Le fragili fondamenta di Israele (Il Cerchio, 2025).

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