Operazija Potok, grimaldello per Sudzha

La già fallimentare invasione ucraina della regione russa di Kursk, con cui le stesse truppe di Kiev si sono messe in trappola da sole fin dal 2024, venendo stornate dal vitale fronte del Donbass, è stata definitivamente compromessa nelle scorse settimane da un’azione spettacolare con cui le forze speciali russe hanno sorpreso il nemico alle spalle riprendendo il controllo della città di Sudzha.
L’ardita infiltrazione, per vie sotterranee, di alcune centinaia di uomini dell’esercito di Mosca dietro le linee ucraine utilizzando come “cavallo di Troia” un ampio tratto di gasdotto in disuso, che peraltro ha un precedente, su scala minore, nel gennaio 2024 durante la battaglia di Avdiivka, entrerà nella storia delle operazioni militari. E dimostra una volta di più che la Russia è stata ampiamente sottovalutata da certa disinformazione, risultando capace di azioni tattiche originali e creative.
Fin dal febbraio 2022, allo scoppio del conflitto russo-ucraino, molta disinformazione raccontava di un esercito russo dagli arsenali vuoti e, per così dire, dagli stivali di cartone.
Una disinformazione, o almeno informazione superficiale, aiutata da effettivi errori tattici e strategici dei dirigenti di Mosca che avevano inizialmente sottovalutato la resistenza dell’Ucraina e l’apporto degli aiuti militari occidentali. La Russia, oltre a dimostrare da subito tutto il suo potenziale di riserve, in uomini e materiali, e di mobilitazione nazionale, ha via via migliorato la sua condotta di guerra imparando dagli errori e facendo tesoro della drammatica esperienza sul campo.
Anche l’Ucraina ha imparato giorno per giorno, ma è rimasta perennemente svantaggiata nel complessivo divario dimensionale fra le rispettive nazioni e forze armate. L’esercito di Mosca è riuscito a risolvere spesso situazioni critiche non solo facendo affidamento sulla massa e sul martellamento d’artiglieria e d’aviazione, secondo la sua peculiare tradizione, ma anche grazie a interventi asimmetrici, originali e creativi, i classici “stratagemmi” che possono fare da acceleratore di situazioni di fatto già decise sul campo, ma a cui manca l’elemento decisivo che rompe un equilibrio precario e fa pendere del tutto la bilancia da una parte con una sorta di effetto a cascata.
E’ questo il caso dell’incredibile azione svoltasi molto probabilmente (i dettagli più precisi sono ancora segreti) l’8 marzo 2025 alla periferia di Sudzha, la principale città di quella parte del territorio russo, nella regione di Kursk, che era stata occupata dall’esercito ucraino fin dall’agosto 2024 con una offensiva oltre confine dal valore militare praticamente nullo, caldeggiata dai vertici di Kiev solo per meri motivi di immagine politica.
Alcune centinaia di uomini dell’esercito russo, si stima fra 600 e 800, a seconda delle fonti, hanno marciato, anzi, si può dire strisciato, per giorni, all’interno di un lungo tratto di gasdotto in disuso, per circa 15 chilometri, secondo alcune fonti quasi 16, preparandosi a uscire al momento giusto per sbucare alle spalle dello schieramento ucraino alla periferia di Sudzha e mettendo talmente in crisi il nemico da causarne la ritirata generale dalla città.
Le fonti ucraine, nei primissimi giorni, hanno minimizzato la portata dell’azione avversaria, sostenendo che era stata neutralizzata dalle proprie forze, ma in seguito è emerso in tutta la sua portata il successo dell’ardita infiltrazione russa che ha accelerato la rotta delle truppe ucraine a Sudhza.
Per ironia della sorte, poiché il tratto di conduttura utilizzato per l’assalto appartiene al grande gasdotto Urengoy–Pomary–Uzhhorod, o “Bratsvo Potok”, “Gasdotto della Fratellanza”, che fin dai tempi sovietici porta metano verso l’Europa Occidentale passando dal territorio ucraino, si può dire che sia stata Kiev stessa a favorire l’azione delle truppe russe.
Infatti il gasdotto, nonostante lo scoppio della guerra nel 2022, aveva seguitato a funzionare, sulla base del contratto quinquennale Mosca-Kiev per garantire il passaggio del gas verso Austria, Ungheria e Slovacchia. Contratto che garantiva agli ucraini 800 milioni di dollari l’anno in royalties. Alzando la posta nell’illusione che fosse una manifestazione di forza, l’Ucraina ha annunciato alla fine del 2024 la volontà di non rinnovare il contratto, come previsto, il 1° gennaio 2025.
Pertanto Mosca allo scadere del vecchio anno ha serrato il flusso del gas. Arrecando un danno economico ai russi, gli ucraini non hanno immaginato che i russi potessero utilizzare la tubazione come via d’assalto sotterranea oltre le loro linee. E ciò nonostante ci fossero stati dei precedenti abbastanza simili nel corso del conflitto.
La suggestiva azione ha già iniziato a essere ricordata con un alone di leggenda, tanto che, ad esempio, il 25 marzo è stato inaugurato a Ekaterinburg una sorta di monumento, presso la Cattedrale sul Sangue costruita sul luogo in cui nel 1918 vennero trucidati dai bolscevichi lo zar Nicola II e la famiglia Romanov.
E’ stata installata una sezione di oleodotto lunga 16 metri, che simbolizza, grossomodo, la millesima parte del tratto percorso dagli incursori russi a Sudzha. Un comunicato della chiesa locale ha precisato che le misure della sezione di tubo “riproducono fedelmente quelle del gasdotto ha consentito ai nostri soldati di ottenere un’eroica vittoria”.
Imprecazioni nel buio
La successione degli eventi non lascia dubbi sull’effetto di vero e proprio “grimaldello” che l’infiltrazione per via sotterranea di fanterie scelte russe quantificate grossomodo nell’equivalente di un battaglione, sebbene aggregate a partire da più reparti differenti, ha avuto sulle già provate e martoriate posizioni ucraine a Sudzha e in generale in quel poco della regione di Kursk che rimaneva sotto occupazione delle forze di Kiev (meno di 400 kmq degli oltre mille conquistati nell’agosto 2024).
Le prime indiscrezioni sull’azione sono state rilanciate in rete fra 8 e 9 marzo da blogger filorussi come Yuri Podolyaka e Two Majors che hanno pubblicato in rete, specie su Telegram, i primi video che mostravano i soldati russi avanzare faticosamente nell’oscurità, chini all’interno della tubazione, del diametro di appena 1,42 metri, e dal respiro affannoso per l’uso di maschere a ossigeno.
Una situazione claustrofobica e pericolosa che però non toglieva ai soldati russi la voglia di scherzare per darsi coraggio. I video sono stati ripresi fin dalle prime ore anche da giornali occidentali, come i britannici The Telegraph e Times.
Alcune immagini (reperibili facilmente in rete, ad esempio da questo link youtube del Times e Sunday Times) mostravano i soldati lamentarsi dei propri superiori che li hanno mandati in quel tetro budello, con scambi di battute che però, più che vere espressioni di sfiducia negli ufficiali, sembrano solo il classico borbottare con cui soldati di ogni epoca e di ogni paese hanno accompagnato le loro azioni più rischiose.
Magari calcando sul linguaggio come naturale, e opportuna, valvola di sfogo psicologica per la tensione di quei momenti. Alcuni esclamano: “Fottuto inferno! Che dite, ragazzi, dove cazzo siamo?”. E altri: “Dove va questo fottuto tubo? Nella fottuta Sudzha? Questa è una cazzata”. E poi: “Non avrei mai immaginato di trasportare acqua per 12 chilometri dentro il tubo”.
A un certo punto, data la lentezza della marcia, qualcuno esclama: “Che succede lì? Un ingorgo di traffico? Non ci fanno andare avanti o cos’altro?”. “Khna, cosa stai dicendo, fratello?”. “Fottiti, questo è un fottuto inferno. Ecco come dobbiamo camminare!”. “Qui puoi perdere la tua fottuta mente. Che state facendo, ragazzi?”. “Se solo la mia ragazza vedesse cosa sto facendo. Glielo mostrerò quando usciamo, ne resterà scioccata”. E poi ancora: “Ci arriveremo certamente, ma siamo arrabbiati perché siamo stanchi del comando del diavolo. Ci hanno preso anche i fucili”.
Le immagini mostrano alcuni dei fanti russi che avanzano ingobbiti nel tubo, molti senza armamento evidente, ma con zaini in spalla, perché assegnati a una funzione logistica, cioè trasportare nel gasdotto materiali per permettere alla forza d’infiltrazione di stazionare là sotto in attesa dell’ordine di irrompere all’esterno.
I post sui blog sono stati rilanciati poche ore dopo dai media russi, che parlavano di “800 soldati” coinvolti nell’azione, mentre Ukrainska Pravda minimizzava in appena “100 russi”, sostenendo che le truppe di Kiev erano riuscite a sventare l’assalto sul nascere.
Il giornalista ucraino Yuriy Butusov affermava però nelle prime ore: “I russi hanno usato un gasdotto per muovere una compagnia d’assalto, non avvistata dai droni, e hanno piantato un cuneo nelle nostre formazioni”. Già l’8 marzo lo Stato Maggiore generale dell’esercito ucraino sosteneva in un suo comunicato che l’azione avversaria era stata respinta: “Le forze nemiche sono state rilevate in tempo dalle unità di ricognizione aerea (con droni) delle Forze d’Assalto Aerotrasportate”.
Contemporaneamente, l’ufficiale ucraino, nonché capo della Ukraine’s Peace and Co Foundation, Miroslav Hai, scriveva su Facebook, con qualche dettaglio in più, che una brigata d’assalto di paracadutisti ucraini aveva “eliminato circa l’80% del gruppo di sabotaggio russo” infiltratosi nel gasdotto.
In particolare raccontava: “I nostri parà hanno soverchiato gli occupanti. Un’imboscata ben pianificata ha permesso a loro di attendere che il nemico uscisse dal tunnel e si radunasse. Al momento critico, l’uscita è stata bloccata, intrappolando il nemico all’interno senza via di scampo. Poi è arrivata la decisione del combattimento”.
Ha poi riportato che “da intercettazioni radio è emerso che i russi impegnati nell’azione erano già convinti di essere condannati a morte certa”. In realtà sembra dubbio che gli ucraini possano aver intercettato comunicazioni che avvenivano sottoterra all’interno del tubo e può darsi si sia trattato della riproposizione delle “lamentele”, o meglio “imprecazioni” di prammatica, di cui abbiamo parlato poc’anzi.
Nonostante l’iniziale versione ucraina parlasse di un’azione fallita, col passare delle ore e dei giorni è invece emerso che l’infiltrazione ha avuto successo come elemento scatenante per velocizzare lo sgretolamento delle difese ucraine a Sudzha.
I russi hanno iniziato ad ammettere ufficialmente l’azione dal 10 marzo, quando, fra i primissimi a rivendicarla, s’è distinto il generale Apti Alaudinov, che ha definito in russo la missione “Operacija Potok”, ovvero “Operazione Flusso”, nel senso di Gasdotto, passata nelle fonti in lingua inglese come “Operation Pipeline” o “Operation Flow”.
Comandante delle forze russe sul fronte di Kursk e delle unità speciali cecene Akhmat, Alaudinov ha commentato la riuscita dell’Operazione Potok insieme al governatore di Kursk, Alexander Khinshtein.
Alaudiniv ha rimarcato che “le truppe speciali Akhmat hanno giocato un ruolo decisivo dimostrando una grande abilità tattica”, mentre per Khinshtein “questa operazione verrà scritta a lettere d’oro nella storia dell’operazione militare speciale in Ucraina, verrà raccontata ai bambini nelle scuole, ci faranno film e verranno scritti libri”.
Alaudinov ha cominciato in tale occasione a dare qualche dettaglio sulla lunga preparazione dell’azione, in particolare il rifornimento di bombole d’ossigeno per garantire una certa respirabilità all’interno del gasdotto. Facendo intuire che ci sono voluti giorni per organizzare l’azione, il generale ceceno e il governatore hanno raccontato un curioso episodio.
Il 1° marzo, una settimana prima dell’attacco, uno dei graduati addetti a procurare le bombole d’ossigeno, noto col nome di battaglia “Moses”, ha richiesto il suddetto materiale direttamente all’amministrazione della regione di Kursk, saltando la normale procedura che prevedeva di passare attraverso il comando.
Khinshtein ha fatto notare che la richiesta di bombole d’ossigeno non poteva essere soddisfatta se non per vie formali e fornendo i dati precisi dell’unità operativa richiedente, approfittando dell’occasione per ricordare a tutte le truppe presenti nel Kursk di rispettare le procedure previste per ottenere supporto logistico dall’amministrazione regionale.
Dal canto suo, Alaudinov ha spiegato che “Moses” non aveva l’autorità per rivolgersi direttamente al governatore e ha ricordato che esiste un canale d’interazione prestabilito fra l’amministrazione regionale di Kursk e il comando dell’Akhmat che consente la risoluzione rapida di ogni questione.
A quanto si sa, Alaudinov sarebbe stato fra i promotori della missione istruendo personalmente i suoi uomini, ma la conferma della partecipazione di numerosi altri reparti è arrivata due giorni dopo da parte del generale Valerij Gerasimov, capo di Stato Maggiore delle forze armate.
Effetto domino
Era il 12 marzo quando Gerasimov ha riferito ufficialmente dell’Operazione Potok al presidente russo Vladimir Putin, quel giorno in visita in uno dei posti di comando avanzati del fronte del Kursk. Nel rimarcare che, fino a quel momento, l’esercito di Mosca aveva liberato “l’86% del territorio del Kursk occupato dagli ucraini”, Gerasimov ha dichiarato che l’azione aveva coinvolto circa “600 soldati” provenienti da vari reparti.
Oltre all’unità cecena Akhmat, la Brigata Veterani, l’11a Brigata d’Assalto Aereo della Guardia (forza paracadutisti VDV), la 106a Divisione Aerotrasportata della Guardia, (anch’essa delle VDV), il 30° Reggimento Fucilieri Motorizzati, la Brigata volontari Vostok e un’unità non dichiarata di Fanteria di Marina.
Il generale ha esaltato “le eroiche azioni dell’unità d’assalto combinato che ha sorpreso il nemico, causando l’abbandono delle sue difese e aiutando il progresso dell’esercito russo nella regione di Kursk”.
Il capo di Stato Maggiore ha atteso che fosse chiara la portata dell’azione, prima di riferirne in prima persona al presidente russo. La crisi degli ucraini a Sudzha, che montava dai primi di marzo, con le avanzate russe sui lati della città da liberare e le puntate sul confine ucraino con la regione di Sumy, a minacciare le residue linee di rifornimento e a far temere un imminente accerchiamento, è stata incentivata dallo sbucare dal sottosuolo degli incursori che hanno minato alle spalle la tenuta di difese già fragili, non certo consolidate come nel Donbass.
Al 10 marzo, due giorni dopo l’azione nel gasdotto, risalgono i primi ordini di ritiro alle unità ucraine presenti in città. E il 12 marzo, durante il vertice Putin-Gerasimov, veniva mostrato per la prima volta un video con soldati russi che stendevano la bandiera tricolore nazionale bianco-blu-rossa su una piazza centrale di Sudzha.
Nel video diffuso dal canale Telegram “Russian_airborne”, descritto “vicino alle truppe paracadutiste VDV”, si vedono sette parà russi sulla piazza, mentre stendono a braccia la bandiera russa e anche il vessillo azzurro-verde del corpo VDV, ovvero Vozdušno-Desantnye Vojska, “truppe aerotrasportate”, il corpo d’elite dei paracadutisti russi.
Un commilitone li inquadra da lontano, dall’alto di un edificio vicino, e li indica con la sua mano in primo piano. Alle stesse ore risale un altro video, di RusVesna.SU, ripreso da DRM News, in cui un singolo parà, ripreso probabilmente da un drone, s’inerpica in cima a una torre metallica, sempre nel centro di Sudzha, e sventola sia la bandiera russa, sia quella delle VDV.
L’accento posto sul contributo dei paracadutisti alla liberazione di Sudzha e il fatto che aliquote VDV abbiano partecipato all’Operazione Potok, rende plausibile il fatto che in entrambi i video, o in almeno uno di essi, alcuni dei protagonisti siano gli stessi che si sono insinuati nel centro della città.
E non è un caso che, sempre il 12 marzo, si apprendeva che il presidente ucraino Volodymir Zelensky aveva deciso di destituire il generale Dmytro Krasylnykov, capo del Comando Operativo Nord competente per le operazioni nel Kursk, per rimpiazzarlo con Oleksii Shandar.
Proprio mentre il portavoce della Guardia di frontiera ucraina, Andriy Demchenko, rincarava la dose affermando che “c’è ora il rischio che i russi entrino nella nostra provincia di Sumy”, limitrofa al Kursk. Il 13 marzo il Ministero della Difesa di Mosca confermava ufficialmente di aver ripreso il controllo di Sudzha.
La sostituzione, con l’assegnamento di Krasylnykov a un battaglione della riserva, secondo le fonti ucraine, sarebbe avvenuta “fin dal 7 marzo e senza ragione apparente”, ma era intuibilmente legata al catastrofico andamento delle operazioni ucraine nel Kursk.
Solo il 16 marzo lo Stato Maggiore ucraino ha confermato ufficialmente il ritiro da Sudzha, ma in forma molto indiretta, sintomo di grande imbarazzo poiché, come riportato dallo stesso giornale ucraino Kyiv Independent, non c’è stata alcuna dichiarazione, ma solo la pubblicazione “delle ultime mappe del campo di battaglia che mostravano una completa ritirata da Sudzha”.
L’indomani, 17 marzo, un reportage della tivù britannica BBC dava voce alle testimonianze di molti militari ucraini che parlavano di “scene da film dell’orrore, collasso e panico” per dipingere quella che è stata una rotta, con le strade “costellate di veicoli bruciati e distrutti”.
La portata dell’inaudita infiltrazione russa dal gasdotto, vero “deus ex machina” che Kiev non poteva prevedere, complice anche la sospensione, in quei giorni, dell’assistenza di intelligence da parte degli Stati Uniti su volere del nuovo presidente Donald Trump, nel contribuire alla disfatta ucraina nel Kursk è emersa sempre più come decisiva alla luce delle analisi successive.
Già il 19 marzo Alaudinov poteva affermare che “i soldati ucraini erano terrorizzati perfino dopo essere stati catturati, non riuscivano a capire cosa fosse accaduto. Per loro l’Operazione Potok è diventata un incubo assoluto poiché tutti i loro comandanti sono semplicemente fuggiti, abbandonandoli e fallendo persino nel notificare la loro ritirata”.
Quello dipinto dal comandante russo-ceceno a proposito del nemico è un quadro da “si salvi chi può”, con ufficiali che abbandonano i loro uomini a sé stessi pur di evitare l’accerchiamento e la cattura, che, a prima vista, potrebbe sembrare semplice propaganda trionfalistica di Mosca.
Ma a corroborare questa lettura ha contribuito il 22 marzo uno dei maggiori quotidiani statunitensi, il Wall Street Journal, raccogliendo testimonianze di militari di Kiev appena ripiegati nella regione di confine di Sumy dopo la fuga da Sudzha. Tra le fonti del WSJ, un sergente maggiore dell’unità droni ucraina Sova, tale Zenon Dashak, il sergente Sergei Savchuk e altri militari identificati coi nomi di battaglia Avenger e Mesnik.
Hanno rammentato che Sudzha era ormai indifendibile da alcuni giorni, a causa della manovra russa ad avvolgimento da tre lati, unita al fitto bombardamento con droni, artiglieria e aviazione sulle vie di rifornimento da Sumy. E che quando ci si è resi conto dell’infiltrazione dei russi dal gasdotto è scattato il fuggi-fuggi, senza attendere ordini superiori di ripiegamento.
In particolare, Dashak, ferito, coi suoi uomini, è stato costretto a marciare per circa 20 chilometri da Sudzha fino alle retrovie in territorio ucraino, evitando le strade, battute da droni e bombe plananti russi, e passando per campi e foreste.
Agli italiani una situazione del genere dovrebbe ben ricordare quanto accadde a Caporetto il 24 ottobre 1917, e nei giorni seguenti, con la precipitosa ritirata del Regio Esercito dal fiume Isonzo fino al Piave di fronte allo sfondamento operato dall’armata austro-tedesca. Anche in quel caso dilagò la paura dell’aggiramento e dell’infiltrazione, con interi reparti allo sbando che in quei momenti concitati pensavano solo ad evitare la cattura da parte del nemico.
E se nel 1917 gli elementi decisivi per causare il panico e il crollo nello schieramento italiano sull’Isonzo furono, oltre all’impiego dei gas tossici, i nuclei d’assalto delle Sturmtruppen/Stosstruppen tedesche, infiltratisi come acqua dalle fessure, nel 2025 abbiamo assistito a un’iniziativa per molti aspetti concettualmente simile.
Protetti dalla terra
Fra i primi commenti sull’azione s’è segnalato il 13 marzo quello dell’esperto ucraino Ivan Stupak, che ha spiegato a Radio Free Europe: “Se la Russia trova strutture d’ingegneria nei luoghi dove si svolgono operazioni di combattimento, essa le userà al 100%. Certo, possiamo usarle anche noi. Comunque abbiamo bisogno di avere accesso a mappe e documenti tecnici. Sono sicuro che i russi stanno usando tuttora gli archivi sovietici per tali operazioni”.
Tutte le strutture civili presenti in aree di combattimento, in effetti, formano un tutt’uno col paesaggio topografico e, soprattutto in una guerra senza quartiere come quella russo-ucraina, possono essere usate in modo spregiudicato, se consentono azioni che risparmiano le vite dei propri uomini.
Così come in un contesto di guerra urbana qualsiasi edificio, muro, rudere, può dare copertura a un reparto che si sta facendo “sotto” alle posizioni nemiche, il non plus ultra è il farsi scudo della stessa superficie della Terra avvicinandosi per vie sotterranee. E quale migliore via di un passaggio già esistente, interrato alcuni metri nel sottosuolo, che può essere adattato al passaggio di truppe?
Il manto della terra consente di procedere senza essere visti dai droni. Il suolo scherma ovviamente dal punto di vista ottico, in primis, e anche infrarosso, dato che il terreno è cattivo conduttore di calore, come sa chiunque disponga di una cantina.
Dal punto di vista delle onde radar, alcune frequenze permettono di capire cosa accade fino a una certa profondità, ma si tratta in genere di sistemi particolari, come georadar a uso scavi o radar di satelliti da osservazione geologica, non immediatamente disponibili a truppe sul campo.
Come narra la secolare storia della guerra di mina e contromina, esplicatasi nelle classiche gallerie scavate sotto le mura nemiche negli assedi di castelli e città, un sistema affidabile è costituito dall’analisi dei rumori sotterranei, oggi possibile mediante geofoni, data la facilità estrema di propagazione del suono attraverso terra e roccia.
Ma, anche in tal caso, bisogna prima presupporre che il nemico stia tramando qualcosa, per posizionare i sensori nella zona di probabile attacco sotterraneo, altrimenti risulta privo di significato monitorare alla cieca e a casaccio un’intera area di battaglia. L’impresa di Sudzha sembra la replica moderna di numerose azioni sotterranee che hanno sempre caratterizzato la storia militare.
A cominciare, fra gli esempi più precoci, dalla conquista romana della città etrusca di Veio, nel 396 avanti Cristo. L’esercito romano, guidato dal celebre Marco Furio Camillo, risolse un lungo assedio scavando una galleria che sbucava nel centro della rocca nemica. Da lì uscirono a sorpresa nuclei scelti di legionari che attaccarono alle spalle i veienti proprio mentre il grosso delle truppe romane li teneva impegnati sulle mura.
Lo stesso schema tattico, in linea di massima, dell’Operazione Potok. Ma i russi hanno potuto trovare un modello di riferimento assai più vicino nel tempo, anzi storicamente accaduto appena “ieri”, durante l’attuale guerra russo-ucraina.
Un precedente clamoroso, ma poco ricordato, dell’infiltrazione via gasdotto, si è infatti verificato nel gennaio 2024 durante la fase culminante della lunga battaglia di Avdiivka, città nel Donetsk espugnata definitivamente dai russi il 17 febbraio 2024 dopo una lunga e sanguinosa battaglia che durava dall’ottobre 2023.
In questo caso si trattava di passare attraverso una vecchia tubazione di un condotto idrico di drenaggio. Per alcune settimane plotoni di soldati russi della brigata Veterani, la stessa poi fra i protagonisti di Sudzha, hanno lavorato duramente per liberare la conduttura, ostruita da tonnellate di fango e acqua ghiacciata, entrandovi da un punto presso il villaggio di Spartak, alla periferia sudorientale di Avdiivka.
A partire dal 15 gennaio 2024 hanno iniziato a inviare truppe attraverso la conduttura avanzando inizialmente, di un chilometro verso le linee ucraine, creando anche degli sbocchi d’uscita ogni 100 metri.
In totale i russi sono arrivati a utilizzare 2 chilometri di conduttura, che da Spartak, andava in direzione Nordovest verso l’area del parco Tsarska Okhota, trasformata dagli ucraini in una zona fortificata ricca di trinceramenti. Utilizzando fino a 150 elementi delle forze speciali, l’esercito di Mosca ha così potuto sorprendere alle spalle vari distaccamenti ucraini e occuparne le posizioni difensive con una serie di incursioni durate fino al 6 febbraio.
Le fonti ucraine avevano riportato inizialmente che gli incursori nemici emersi dal canale sotterraneo erano stati sgominati con attacchi di droni, ma nel complesso sembra che l’operazione russa si sia conclusa con un bilancio positivo, come dimostra l’andamento della battaglia.
Compromessa anche grazie a queste infiltrazioni, la resistenza ucraina ad Avdiivka è infine cessata 11 giorni dopo. Come nel caso di Sudzha, quindi, la penetrazione per vie sotterranee allo scopo di creare una diversione aggirando l’avversario ha preceduto di pochi giorni la successiva vittoria tattica.
Se l’episodio di Avdiivka è il più famoso precedente dell’Operazione Potok, altri meno noti si sono registrati durante il conflitto, rivelando come lo sfruttamento di vie ctonie si attagli perfettamente a un contesto che ricorda fin troppo la Prima Guerra Mondiale e la guerra di posizione, o di avanzate lentissime, che imperversò in Europa fra il 1914 e il 1918.
Del resto lo stesso soffice terreno delle pianure russo-ucraine aiuta opere di questo tipo. Come ricordato anche da Newsweek del 2 luglio 2024, il Ministero della Difesa russo ha annunciato il 30 giugno sul suo account Telegram la conquista di importanti postazioni ucraine a Pivnichne, chiamata Kirov dai russi, nel Donetsk, proprio grazie all’utilizzo di un tunnel di 3 chilometri.
Così diramava Mosca: “Una grande roccaforte delle forze armate ucraine alla periferia orientale del villaggio di Kirov è stata occupata dalle unità d’assalto del distaccamento Veterani del gruppo di truppe Centro, utilizzando un tunnel sotterraneo. I soldati del distaccamento hanno segretamente ripulito e utilizzato un tunnel lungo più di 3 chilometri lungo il canale Seversky Donets e sono arrivati alle spalle di una postazione ben fortificata con postazioni di tiro a lunga gittata e rifugi sotterranei.
Attraverso il tunnel, il personale militare ha fornito munizioni, armi e cibo ai combattenti. Sfruttando il fattore sorpresa, il personale militare dell’unità ha sfruttato il proprio successo e ha catturato completamente il punto forte, costringendo il nemico ad arrendersi o abbandonare le proprie posizioni e ritirarsi”.
Sembrava proprio la fotocopia dell’Operazione Potok, i cui dettagli sono emersi pochi giorni dopo l’esecuzione.
Giù all’inferno…
Non si sa con certezza quando i comandi russi possano aver avuto l’idea di utilizzare come via d’attacco il tratto di gasdotto Urengoy–Pomary–Uzhhorod in ingresso a Sudzha. Risultando chiuso al flusso di gas dal 1° gennaio 2025, il gasdotto diventava potenzialmente accessibile solo da quel momento in poi, previo svuotamento del metano da quel tratto, accompagnato da una, per quanto imperfetta, bonifica dei residui tossici rimasti all’interno del budello.
Fra i primi testimoni diretti a parlare dell’azione, il 10 marzo, c’è stato un comandante di battaglione della brigata Vostok, nonché ex-capo del 3° distaccamento d’assalto della compagnia mercenaria Wagner, noto col nome di battaglia Zombie, che ha parlato di “almeno tre settimane di preparazione” per l’impresa, ossia partendo da metà febbraio 2025.
Il 21 marzo un altro comandante di battaglione, della Brigata Veterani, con nome di battaglia Morpekh, ha invece dichiarato all’agenzia TASS: “L’operazione è stata preparata in realtà nell’arco di tre mesi”. Il che significa nel dicembre 2024, quando già appariva chiara la prossima chiusura del gasdotto dopo la denunzia ucraina del contratto quinquennale di transito.
Morpekh ha anche rivelato che le uscite predisposte per uscire allo scoperto nella zona d’occupazione ucraina erano due: “Non c’era una sola uscita dalla tubazione, ce n’erano due. La prima uscita era stata preparata per il movimento del personale sul fianco destro, verso Sudzha e la regione di Sumy. La seconda era predisposta per il movimento sul fianco sinistro, verso i ponti e la zona industriale”.
Ciò perché, spiega: “Era impossibile fa uscire centinaia di soldati da una sola uscita. Se noi avessimo tentato di fare così, avremmo dovuto sostenere pesanti perdite perché i soldati sarebbero usciti lentamente dal tubo”. Morpekh ha anche dichiarato che “per aumentare la confusione i nostri soldati erano mascherati da ucraini portando fasce blu sulle braccia in modo simile a quanto fanno le truppe di Kiev”.
Sul momento in cui è stata concepita l’azione, a corroborare la retrodatazione c’è un reportage di Izvestija del 15 marzo: “Secondo informazioni non ufficiali, l’idea di utilizzare il gasdotto è venuta ai nostri militari nell’autunno del 2024, quando si stavano elaborando varie opzioni per la liberazione di Sudzha, ma in quel momento c’era del gas all’interno del tubo. Quasi immediatamente iniziarono i lavori di costruzione su larga scala. I combattenti della brigata Veterani hanno impugnato picconi e pale, Esattamente un anno fa, hanno fatto una manovra altrettanto astuta e audace: sono pentrati per 2 chilometri alle spalle della guarnigione di Avdiivka delle forze armate ucraine attraverso i tubi di fognatura.
I soldati vivevano e dormivano proprio lì, sul posto sotterraneo, praticamente senza uscire. Una volta alla settimana venivano portati alle baracche. Nessuno sapeva cosa e perché stessero costruendo”.
Poiché all’inizio dei lavori, specie all’atto dell’apertura del primo varco nel tubo, lo spazio interno era ancora colmo di residui tossici, sono stati frequenti i malori nei giorni iniziali. Un altro elemento importante per comprendere la dinamica dell’azione è un’intervista concessa dal comandante Apti Alaudinov (nella foto sotto) a Military Schedule in cui egli afferma di aver personalmente incontrato “la notte del 1° marzo” i partecipanti all’azione, assegnando loro principalmente compiti di sabotaggio una volta arrivati oltre le linee nemiche. Alaudinov potrebbe essere stato una delle menti effettive dell’azione, sebbene per ora lo si possa solo ipotizzare, essendo ancora i russi avari di dettagli.
Il primo segreto del successo dell’incursione è stata la pazienza nello scavare fino al programmato punto di accesso, pompare fuori dal tubo con dei compressori, per giorni e giorni, i residui di gas e immettere aria fresca, per quanto ancora insufficiente.
Subito s’è capito che si sarebbero dovute indossare, almeno parzialmente, respiratori a ossigeno. Il personale sarebbe stato tutto di volontari, provenienti dai reparti già citati. Molti di essi sarebbero stati ex-mercenari della compagnia Wagner, riassorbiti dalle forze armate regolari dopo il caos della ribellione del loro defunto capo Evgenij Prigozhin nel 2023.
Sembra, stando a quanto riferito dal giornale russo Novaja Gazeta del 14 marzo, che in particolare l’unità Veterani si sia occupata dei lavori di scavo di un tunnel lungo 500 metri per distanziare e dissimulare alla ricognizione dei droni ucraini l’accesso al tubo. La zona era una radura vicino a un’autostrada a Nordest di Sudzha, non lontano da Bolshoe Soldatskoe.
Per capire le difficoltà della missione, si deve tenere conto che il gasdotto correva a una profondità variabile da 2 a 6 metri nel sottosuolo. Quando all’interno l’aria era mediamente respirabile, alcune delle truppe hanno iniziato a entrare per allestire lungo i 15-16 chilometri della tratta interessata tutto un apparato logistico e di sussistenza in grado di assicurare la marcia e anche la permanenza per qualche giorno della forza d’assalto in attesa dell’ordine fatidico.
Tutte le ricostruzioni finora disponibili sembrano concordi infatti nell’affermare che, nel pieno della fase esecutiva, la forza d’assalto dei 600-800 uomini (la discrepanza potrebbe essere dovuta al fatto che i 200 di differenza erano assegnati ai compiti tecnici e logistici e non di combattimento) ha impiegato 4 giorni per percorrere tutto il tubo e radunarsi presso le due uscite predisposte, attendendo poi ulteriori 2 giorni prima che arrivasse l’ordine di attacco.
Significa che la forza di attacco deve aver iniziato a radunarsi fra l’1 e il 2 marzo, completando lo schieramento attorno al 6 marzo. L’ordine di attacco e l’irruzione degli incursori nelle retrovie delle posizioni ucraine a Sudzha sarebbe avvenuto fra le 5.00 e le 6.00 del mattino dell’8 marzo 2025.
Marcia nell’oscurità
I russi hanno per settimane compiuto un lavoro più da minatori che da guerrieri. Hanno steso lungo il percorso cavi elettrici per l’illuminazione e le comunicazioni, accumulatori per l’energia, bagni chimici per i bisogni fisiologici. Hanno installato ventilatori elettrici per la circolazione dell’aria, spillandola ove possibile da cappe collegate a pertugi aperti fino alla superficie.
Ma queste cappe d’aerazione pare fossero solo una ogni chilometro. Prima che alle armi e alle munizioni s’è pensato all’acqua e al cibo, distribuiti lungo il percorso. Marciare 15 chilometri in un tubo alto solo 1,42 metri può sembrare una follia se si è da soli. Figurarsi quando si è in almeno 600 uomini che devono anche sostare e riposarsi.
Per avanzare s’è adottata la prassi di tenere 10 metri di distanza fra un uomo e l’altro. Per trasportare i rifornimenti ci si è ingegnati con carriole, ma anche piccoli scooter elettrici e carrelli.
Fra i testimoni sentiti da Izvestija c’è il comandante dell’unità comunicazioni dell’Akhmat, identificato come Timso, che ha narrato: “La nostra unità doveva stabilire una comunicazione di combattimento all’interno di tutti i gruppi d’assalto. Ho selezionato dieci combattenti affidabili per entrare nel tubo. Nel processo di preparazione, il loro numero è aumentato a 17. Inizialmente, ho capito che non avrei preso persone di età superiore ai 40-45 anni, non troppo sviluppate fisicamente e non troppo alte. Non avevamo idea di cosa ci aspettasse. Anche il punto di uscita nell’area di Sudzha non è stato sufficientemente esplorato. In teoria, saremmo potuti uscire e saremmo stati immediatamente coperti di razzi Grad o cannoneggiati da un carro armato. Ciononostante, non c’erano dubbi se andare o non andare”.
Il carico per ogni soldato comprendeva un fucile mitragliatore, giubbotto antiproiettile, acqua, cibo e munizioni per 5 giorni di battaglia. Poiché il peso era spossante, molti hanno deciso di tenere addosso solo acqua e barrette energetiche. Timso non ha esitato a narrare episodi di cedimento psicologico per casi di claustrofobia.
“Stavano urlando, correndo, c’era un orrore completo nei loro occhi. E non c’è modo di girarsi, 500 indietro, 500 avanti, come cantava Vysotsky. In questi casi, bisognava non allontanarsi da una persona del genere, calmarla, dire: ‘Siamo vicini, andrà tutto bene’. Alcuni di loro tornarono indietro”.
Il panico portava alcuni ad accalcarsi verso i commilitoni per non sentirsi soli nell’oscurità appena lacerata da pochi lumi. Ciò causava fame d’aria, data la scarsità d’ossigeno e molti, per sicurezza, prendevano l’abitudine di accendere di tanto in tanto il loro accendino per verificare che, bruciando bene la fiamma, ci fosse ossigeno sufficiente. Altre testimonianze dicono che nelle prime 72 ore di permanenza, molti uomini dovettero consumare medicinali ansiolitici.
La marcia in senso stretto fino a punti d’uscita richiedeva 2 giorni per ogni uomo e il sonno era ridotto a pisolini di 1-2 ore, talvolta solo 15 minuti. I residui oleosi di detriti del gas e dell’umidità, che rendevano il fondo del tubo scivoloso, davano esalazioni con casi di vomito curati al momento con flebo e farmaci.
Il vice di Tismo, Hrovath, racconta: “Non sapevamo, ovviamente, che il percorso sarebbe stato così lungo. Io e il mio compagno abbiamo portato con noi, ad esempio, solo una latta di stufato e 2 litri di acqua. Abbiamo pensato, beh, scapperemo in fretta. Niente, era abbastanza. Poi, mentre camminavamo, abbiamo trovato un altro litro e mezzo d’acqua”.
E’ stato certamente un calvario e, a tutt’oggi, sullo svolgimento tattico dell’azione una volta usciti dal tubo, regna l’incertezza. Secondo alcune fonti, solo un decimo dei combattenti sarebbe sopravvissuto all’azione, sviluppatasi appunto con l’uscita da due punti distinti della tubazione nella parte settentrionale di Sudzha.
Se gli ucraini affermano di aver bersagliato le truppe russe con droni, a loro volta i russi affermano di aver preparato la loro irruzione con massicci raid aerei con bombe guidate FAB nelle aree di ingaggio, solo all’ultimo momento, per non mettere sull’avviso il nemico.
Da quanto si intuisce da alcuni filmati un primo gruppo di assaltatori, con al braccio la banda blu ucraina a mo’ di inganno, era composto da 300 uomini, a cui seguirono gli altri 500. I punti d’uscita sarebbero stati localizzati in un’area in parte coperta da un filare di alberi a 4 chilometri a Nord del centro di Sudzha.
Per quanto possano essere state importanti le perdite subite da questi distaccamenti che emersero dalla terra con la faccia annerita, dopo aver affrontato già una prova non comune, la loro impresa di fatto è riuscita poiché seminando il panico sul retro della linea settentrionale di difesa ucraina hanno innescato la rotta del nemico e la rapida riconquista della città russa.
Via dal Kursk
Per comprendere appieno l’importanza dell’infiltrazione sotterranea di Sudzha chiuderemo inquadrandola nel suo contesto di quel teatro operativo e ricordando come la riconquista della città abbia sancito la fine di un’avventura militare disastrosa per l’Ucraina e che, in prospettiva, può aver minato di molto la capacità delle forze di Kiev di resistere ancora per molti mesi a quelle russe.
Secondo il rapporto pubblicato dall’istituto americano ISW il 1° aprile, in quel momento le truppe ucraine ancora nel territorio della regione di Kursk occupavano soli 80 chilometri quadrati, probabilmente ulteriormente in diminuzione nei giorni seguenti. I russi del resto, almeno dal 25 marzo hanno ripreso saldamente il controllo del grosso del confine con la regione ucraina di Sumy, dove sono penetrati allo scopo di creare, secondo il funzionario del Ministero degli Esteri Rodion Miroshnik, “una fascia di sicurezza di 30-40 chilometri per impedire agli ucraini di porre sul confine artiglieria e lanciarazzi multipli” con cui colpire il territorio russo.
Il 29 marzo l’esercito di Mosca è entrato nel villaggio ucraino di Veselivka, nella regione ucraina do Sumy, iniziando a porre salde posizioni oltre il confine, dopo fugaci incursioni di ricognizione che lo stesso presidente Putin aveva segnalato nelle settimane precedenti. Tutta la dimensione della disfatta ucraina nel Kursk emerge dai dati ricapitolati dall’ISW.
Dal picco di circa 1300 kmq occupati di slancio nell’agosto 2024, quando i russi non si aspettavano un’offensiva da parte di un nemico pressato nel Donbass e dal fronte diversivo a nord di Kharkiv, l’area invasa è presto scemata grazie all’arrivo di rinforzi russi e nordcoreani che hanno insaccato e via via logorato il corpo di spedizione avversario (nelle msappe dell’SW sopra e sotto i territori della regione di Kursk invasi dagli ucraini il 27 agosto 2024 e il 2 aprile 2025).
Se verso la fine del 2024 erano ancora 500 i kmq occupati, col nuovo anno sono scesi sotto i 400 fino a ridursi a poca cosa dopo la presa di Sudzha, che ha segnato il collasso definitivo di un’operazione inutile, nata male fin dal principio.
Destinata solo a impegnare e sperperare le proprie stesse forze, che sarebbero state preziose come riserve per il Donbass, l’operazione ucraina nel Kursk è stata voluta dal presidente Zelensky ed approvata dal capo di Stato Maggiore Oleksandr Syrsky, che, assai più docile verso il potere politico, ricopre la carica dalla destituzione del predecessore Valeryi Zaluzhnyi nel febbraio 2024, per puri scopi di immagine politica, per dimostrare agli alleati occidentali che valeva la pena scommettere su ulteriore sostegno a Kiev e anche nell’illusione di procurarsi un possibile pegno di trattativa con Mosca.
I consiglieri militari americani, come è emerso, erano contrari a un simile azzardo, militarmente rischioso e anche inficiato dallo spinoso nodo dell’utilizzo di armamenti di fornitura USA e NATO sul territorio nazionale russo (anche se diversi video hanno mostrato militari in uniforme ucraina ma che comunicavano in lingua inglese attivi nella regione di Kursk).
Anche al suo effimero picco di 1300 kmq occupati, la penetrazione ucraina si è limitata a solo 1/14.000 dell’intera superficie della Russia e poco più di 1/30 dei 30mila kmq della superficie della regione di Kursk, mentre le truppe di Mosca, per contro, occupano 1/5 dell’Ucraina.
I lati oscuri di quell’offensiva che al suo avvio, nell’agosto 2024, era stata frettolosamente esaltata da troppi mass media occidentali, sono stati definitivamente confermati dall’inchiesta uscita il 30 marzo 2025 sul New York Times, che parla di un vero e proprio “ricatto ucraino” a Washington.
“Quando il generale Syrsky fece la sua mossa, inviando forze oltre il confine russo sudoccidentale, nella regione di Kursk per gli americani fu una significativa violazione della fiducia. Gli ucraini avevano segretamente oltrepassato una linea concordata, portando attrezzature fornite dalla coalizione nel territorio russo”.
Il New York Times, citando i commenti di un funzionario del Pentagono sotto anonimato, ha spiegato che, in pratica, Zelensky ha obbligato l’allora presidente USA Joe Biden e la sua amministrazione a ingoiare il rospo del fatto compiuto, sapendo che Washington non avrebbe potuto cessare il suo supporto di ricognizione, intelligence e tracking, specie per armi come i lanciarazzi campali Himars, pena condannare fin dall’inizio l’operazione alla disfatta.
Secondo il NYT: “Non si è trattato di un quasi ricatto, ma di un ricatto. Gli americani avrebbero potuto interrompere il supporto militare, ma ciò avrebbe potuto portare a una catastrofe”.
E poi: “Kursk era la vittoria a cui Zelensky aveva sempre accennato. Era anche la prova dei suoi calcoli. Parlava ancora di vittoria totale. Ma uno degli obiettivi dell’operazione, spiegò agli americani, era l’effetto leva: catturare e tenere il territorio russo che poteva essere scambiato con quello ucraino in futuri negoziati”.
La disfatta nel Kursk è arrivata ugualmente, seppure dopo vari mesi, e se anche ai primi di marzo, proprio mentre i parà russi e i miliziani ceceni si apprestavano a sgusciare in superficie dal gasdotto, il nuovo presidente americano Donald Trump ha sospeso temporaneamente il sostegno d’intelligence del Pentagono alle forze ucraine, la situazione era già decisa sul campo.
Che poi, dalla fine di marzo, gli ucraini abbiano tentato una piccola manovra diversiva inviando nella regione russa di Belgorod reparti di incursori specie nelle aree di Popovka e Demidovka, sembra finora militarmente ininfluente poiché queste avanguardie sono penetrate solo per una ristretta fascia profonda al massimo un paio di chilometri.
Un’offensiva in corso di tamponamento da parte di fanti della 34a Brigata Fucilieri Motorizzati e di truppe speciali “spetsnaz” della 155a Brigata Fanteria di Marina.
In conclusione, l’Operazione Potok s’è dimostrata un elemento chiave per decidere la risoluzione sostanziale della campagna del Kursk, facendo da catalizzatore per la destabilizzazione dell’ormai precaria situazione delle truppe ucraine a Sudzha, come il classico calcio che, infine, divelle una porta dai cardini arrugginiti.
A sua volta, essendo Sudzha l’ultimo apprezzabile territorio fra quelli tenuti dagli ucraini nel Kursk, la sua caduta ha chiuso rapidamente un capitolo delle operazioni ucraine di questa guerra che la dirigenza di Zelensky avrebbe fatto meglio a non aprire nemmeno.
Ciò nonostante, il 3 aprile il presidente Zelensky ha affermato che “oggi ero nella regione di Sumy, una delle direzioni in cui molto è in gioco. Ho ringraziato personalmente i nostri guerrieri e tutti coloro che svolgono missioni nella regione di Kursk, difendendo il nostro Stato e la nostra regione di Sumy dal desiderio implacabile dei russi di avanzare in Ucraina. Da agosto dell’anno scorso, le nostre unità hanno combattuto in territorio nemico, uno dei risultati più significativi dell’Ucraina in questa guerra.
È del tutto giusto riportare la guerra da dove è venuta. Abbiamo parlato con i comandanti delle nostre unità in questa zona, abbiamo discusso delle esigenze chiave, del supporto aggiuntivo, della fornitura di equipaggiamento, dei droni, delle questioni operative. Stiamo lavorando per difendere le nostre posizioni. Sappiamo su cosa conta il nemico. In ogni caso, difenderemo il nostro Stato, la nostra indipendenza e il nostro popolo”.
Foto TASS, RV Voenkor e Ministero Difesa Russo
Mappe ISW
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Mirko MolteniVedi tutti gli articoli
Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.