Israele-Libano-Iran: il triangolo dell’escalation in Medio Oriente – AGGIORNATO
Le recenti incursioni israeliane sul Libano, terrestri e aeree, culminate con l’uccisione del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, hanno scatenato il 1° ottobre 2024 la rappresaglia dell’Iran che ha lanciato sullo stato ebraico ondate di missili balistici, di cui sembra che oltre il 10-15% sia riuscito a oltrepassare le difese ebraiche causando danni a basi militari.
L’Iran, che aveva già tenuto “congelata” fin da agosto, la preannunciata ritorsione per l’uccisione a Teheran, da parte del Mossad, del capo di Hamas, Ismail Haniyeh, ha colto l’occasione per rispondere una volta sola a titolo plurimo.
E Israele, dal canto suo, pur frenato dagli Stati Uniti, che non vogliono un’escalation in Medio Oriente nell’imminenza delle loro elezioni presidenziali, è tentata in questi giorni di approfittarne per attuare quei raid sulle installazioni nucleari a cui la sua aviazione si addestra ormai da anni.
La partita è sempre più intricata e il triangolo Israele-Libano-Iran sembra ormai divenuto il nuovo fulcro del conflitto in Medio Oriente, segnando il superamento, come fronte principale, della campagna nella Striscia di Gaza, rivelatasi dopo quasi un anno un vicolo cieco per il governo di Benjamin Netanyahu e apparentemente declassata, almeno in questo periodo, a fronte secondario.
Un anno dopo l’assalto di Hamas a Israele, che il 7 ottobre 2023 scatenò l’attuale conflitto, ennesima declinazione di un contrasto arabo/islamico-israeliano che dura da oltre 76 anni, la guerra mediorientale è ben lungi dal far intravedere una soluzione, quantomeno provvisoria.
Anzi, l’autunno 2024, con l’espansione dell’impegno israeliano contro la milizia sciita libanese Hezbollah, che, sostenuta dall’Iran, appoggia Hamas con lanci di razzi sullo stato ebraico, vede il conflitto montare in intensità e rischi potenziali, rendendo sempre più vicino uno scontro diretto, e prolungato, fra Israele e Iran.
L’attacco missilistico iraniano che il 1° ottobre 2024 ha causato vari danni a basi militari ebraiche può presto portare a una attesa rappresaglia israeliana che forse potrebbe colpire siti nucleari, basi militari oppure infrastrutture petrolifere.
L’incertezza regna, favorita dalla segretezza con cui Israele porta avanti i preparativi e sul momento dell’attacco. Per aumentare l’effetto sorpresa, infatti, il governo del premier Benjiamin Netanyahu tenderà a presentare l’azione come la classica “vendetta che si consuma come un piatto freddo”.
Non aiuta, certamente, quella vera e propria crisi aggiuntiva, fra Israele e l’ONU, causata dai colpi intimidatori verso le posizioni della missione Unifil per spingere i caschi blu a togliersi dalla linea del fuoco.
La pretesa non farà che danneggiare la già critica immagine di Israele presso la maggior parte delle nazioni del mondo, sebbene paia, almeno in parte, giustificata dal fatto che la missione Unifil, schierata sulla Linea Blu del confine israelo-libanese, tecnicamente una frontiera di guerra fin dal 1948, è schierata fin dal 1978 e nonostante il suo rafforzamento dopo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU 1701 del 2006 non è mai riuscita a stabilizzare il confine disarmando Hezbollah e assicurando la cessazione dei continui lanci di razzi su Israele.
Un’impotenza dettata anche dal timore di andare a turbare gli equilibri interni di un paese-detonatore come il Libano, dove convivono musulmani sciiti e sunniti, cristiano-maroniti e drusi.
Paese che a fatica s’è ripreso dalla tremenda guerra civile durata dal 1975 al 1990 grazie a una pace imposta dall’egemonia della Siria e dell’Iran, che contano come principale referente in loco proprio su Hezbollah, il partito armato sciita più forte dello stesso esercito nazionale di Beirut.
Negli ultimi tempi abbiamo, in buona sostanza, visto lo storico scontro Israele-Iran, che ha radici lontane, passare da una fase indiretta a una fase diretta, almeno in alcuni episodi. Ora, se questa tendenza proseguirà, lo scontro oltre a farsi diretto, potrà perfino divenire protratto nel tempo. In pratica, da “indiretto e protratto”, come è stato per decenni, a “diretto e protratto”. Ed è un’evoluzione degli eventi avvenuta per gradi nel corso dell’ultimo anno, sulla scia del colpo su colpo.
Già nella notte fra il 13 e il 14 aprile 2024 gli iraniani avevano per la prima volta bersagliato il territorio nazionale dello stato ebraico a partire dal loro territorio, rompendo la consolidata tradizione di affrontare quello che gli ayatollah di Teheran hanno sempre etichettato come “Piccolo Satana”, essendo il “Grande Satana” l’America, tramite l’intermediazione delle loro svariate milizie clienti.
Una svolta determinata, allora, dalla necessità politica, per il regime teocratico, di reagire al bombardamento dell’ambasciata iraniana in Siria, effettuato il 1° aprile dall’aviazione israeliana per uccidere un gruppo di ufficiali dei pasdaran, fra cui spiccava il generale Mohammed Reza Zahedi, capo del distaccamento siriano della Forza Quds, la suddivisione delle Guardie Rivoluzionarie iraniane deputata alle operazioni speciali all’estero.
L’Iran si sentiva obbligato a una rappresaglia anche da questioni di politica interna, per mostrare ai suoi stessi cittadini la forza e la coesione del regime dopo un periodo di crescenti proteste popolari interne.
A sua volta, il crescente coinvolgimento iraniano nel conflitto iniziato nell’ottobre 2023, già intuibile fin dai primi giorni per il fatto di essere la Repubblica Islamica dell’ex-Persia fra i maggiori finanziatori di Hamas, insieme al Qatar, era diventato palpabile con l’inizio dei lanci di razzi e droni su Israele da parte dei maggiori alleati-clienti di Teheran nella regione, ovvero le milizie libanesi sciite Hezbollah, gli sciiti Huthi del movimento Ansarallah dello Yemen e, in misura minore, le milizie sciite irachene di movimenti come Kataib Hezbollah.
Presto erano entrati nel mirino di Israele non solo queste milizie, ma anche gli stessi ufficiali iraniani distaccati presso di esse come consiglieri, tecnici, addestratori e ufficiali di collegamento con Teheran. Particolarmente irritante per la teocrazia sciita era stata l’eliminazione mirata del generale Seyed Reza Mousavi, massimo esponente della forza Quds in Siria, avvenuta il 25 dicembre 2023 a Sayyiddah Zainab, non lontano da Damasco, mediante un attacco aereo israeliano. Per rispondere a quell’azione, l’Iran bersagliò il 15 gennaio 2024 una “base del Mossad” a Erbil, nell’Iraq settentrionale, con 11 missili balistici Fateh 110 che colpirono la sede di due imprenditori curdi, Peshraw Dizayee e Karam Mikhail, uccidendoli insieme ad altri civili.
Lo stesso giorno le Guardie Rivoluzionarie colpivano anche, con 4 missili Kheibar Shekan, un covo dell’ISIS a Taltita, nella provincia siriana di Idlib, come ritorsione per il sanguinoso attentato rivendicato dal movimento terrorista sunnita il 3 gennaio 2024 a Kerman.
Subito l’indomani, il 16 gennaio, le Guardie Rivoluzionarie lanciavano missili e droni anche su un villaggio del Pakistan, Koh-e-Sabz, ritenuto una base del movimento dei ribelli del Balucistan Jaish ul-Adl, autore di varie stragi in Iran e nello stesso Pakistan.
Questi attacchi rappresentavano anche un chiaro monito a Israele, dato che sembravano per certi aspetti una “prova generale” di possibili lanci sullo stato ebraico.
Nell’attacco alla base ISIS in Siria, ovviamente nella parte di territorio non controllata dal governo alleato di Damasco, è stato usato per la prima volta un nuovo missile iraniano presentato nel 2022, quel Kheibar Shekan, con gittata di 1450 chilometri, che è stato lanciato dalla provincia iraniana del Khuzestan e ha coperto ben 1200 chilometri prima di ricadere sull’obbiettivo.
Teheran ha così effettuato il suo attacco missilistico di maggior distanza, fino a quel momento, dimostrando già allora di poter colpire Israele, data la gittata sviluppata.
Parimenti dimostrativi anche gli ordigni che gli Houthi hanno, fin dalla fine di ottobre 2023, tentato di far arrivare su Israele, distante ben 1800 chilometri dallo Yemen, e di chiara fabbricazione iraniana, come il balistico Qader, versione dello Shahab 3, che il 31 ottobre fu intercettato e distrutto sopra i 100 chilometri di quota da un antimissile Arrow 3, in quella che è stata di fatto la prima operazione bellica reale avvenuta alle porte dello spazio.
Le azioni degli Houthi, oltre a minacciare il traffico nel Mar Rosso, hanno spesso avuto come bersaglio il territorio di Israele e anche se quasi tutti i loro vettori sono stati intercettati, alcuni sono riusciti a passare. Il 19 luglio 2024 un drone chiamato Yafa dagli yemeniti, in realtà un iraniano Samad 3, è riuscito a raggiungere Tel Aviv colpendo un appartamento e uccidendo un civile. Il velivolo senza pilota è arrivato sulla città provenendo dal mare.
Ciò fa pensare che, prima di deviare a Est verso Tel Aviv, si sia tenuto sul Mar Rosso, arrivando al Mediterraneo passando sopra il Sudan e poi l’Egitto. Il drone ha approfittato del fatto che le difese della zona erano distratte da un arrivo di altri droni inviati dalle milizie irachene.
Il giorno dopo, l’aviazione israeliana ha bombardato per ritorsione le infrastrutture portuali ed energetiche di Hodeidah, il maggior porto yemenita sotto controllo di Ansarallah. Il 15 settembre gli Houthi hanno lanciato un missile ipersonico da essi denominato Palestina-2, ma probabilmente un’evoluzione dell’ipersonico iraniano Fattah, che arrivando sullo stato ebraico in 11 minuti, impiegati per coprire una distanza di circa 2000 chilometri, avrebbe dimostrato una velocità media di 11.000 km/h.
Il vettore, secondo il movimento yemenita avrebbe colpito “un obbiettivo militare” non lontano da Tel Aviv, anche se gli israeliani sostengono di averlo intercettato. Questo e altri successivi lanci di ipersonici da parte degli Huthi rafforzano l’ipotesi di un coordinamento con l’Iran, fornitore delle tecnologie, che in tal modo ha potuto raccogliere dati aggiuntivi sulle difese antimissile israeliane, specialmente i tempi di reazione e le eventuali falle derivanti da una sovrapposizione degli attacchi in determinati momenti.
Almeno in parte, ciò può aver contribuito al miglioramento, in termini di tasso di successo, registrato fra l’ondata di missili del 13 aprile e quella del 1° ottobre. In primavera, gli iraniani hanno lanciato 320 ordigni, fra missili balistici, da crociera e droni. Se consideriamo i soli balistici, su 120 vettori, almeno 9, su ammissione delle stesse fonti americane, hanno raggiunto le basi aeree di Ramon e Nevatim causando dei danni.
Nella salva autunnale, su circa 200 missili (pare 187), ne sarebbero arrivati a segno, danneggiando piste e hangar di Nevatim e di Tel Nof, oltre a obbiettivi presso sedi del servizio segreto Mossad e dell’intelligence militare Aman, un numero di ordigni stimati fra 20 e 32.
Un salto in avanti motivato anche dall’esperienza operativa accumulata con il raid di aprile. L’Iran s’è fatto più pericoloso e sembra essersi preparato, gradualmente, da molti mesi all’eventualità dell’allargamento del conflitto inizialmente scatenato dal solo Hamas.
Spada di Damocle
Che Israele sia più vulnerabile del previsto ad attacchi dal cielo lo ha dimostrato, nella notte fra il 13 e il 14 ottobre 2024, anche Hezbollah, che è riuscita a sferrare un attacco alla base militare israeliana Golani di Binyamina, nell’area di Haifa, grazie a un drone Ababil-T di fabbricazione iraniana, con raggio d’azione di 120 chilometri e velocità massima di 370 km/h, in grado di beffare il sistema antiaereo Iron Dome avvicinandosi all’obbiettivo a bassa quota dopo aver ingannato i radar, distratti da altri due droni e da razzi.
I primi due droni sono stati intercettati, uno dall’Iron Dome, l’altro dall’antiaerea di una nave, il terzo ordigno è piombato sul tetto di una delle caserme della base e ha ucciso 4 soldati israeliani, ferendone ben 67.
La gravità dell’assalto è stata sentita dallo stesso premier Benjamin Netanyahu, che il 15 ottobre ha visitato la base colpita e ha tenuto un discorso al personale, promettendo: “Non ce la faranno. Continuiamo a combattere. Paghiamo prezzi dolorosi, ma abbiamo ottenuto risultati straordinari, e continueremo a ottenerli. Voglio essere chiaro: continueremo a colpire Hezbollah senza pietà in tutte le parti del Libano, anche a Beirut”.
Visitando la base di Nevatim dopo l’attacco iraniano, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha dichiarato che i missili nemici “non hanno nemmeno scalfito le capacità dell’aeronautica militare” e che “Israele non si lascerà scoraggiare scegliendo il modo e il momento della sua risposta”.
Abbiamo visto come una ventina di missili, circa il 15% di quelli lanciati dall’Iran il 1° ottobre, sia riuscita a oltrepassare le difese israeliane, in parte grazie al numero simultaneo di ordigni che hanno saturato i sensori e gli intercettori dei sistemi ebraici. In parte sfruttando le capacità manovriere delle testate MARV, cioè manovrabili, dei più moderni di tali vettori.
Federico Borsari, ricercatore del Center for European Policy Analisys (Cepa) ha spiegato all’agenzia ADN Kronos: “Rispetto a quello di aprile, abbiamo assistito a un attacco meno diversificato. Teheran ha scelto di impiegare solo missili balistici, ma di capacità maggiore, mentre qualche mese fa ha schierato anche droni e missili da crociera. Tra i più moderni del suo arsenale – spiega Borsari.
Il Fattah 1, svelato poco più di un anno fa, un missile balistico a medio raggio (1.400 chilometri circa) che l’Iran definisce ipersonico, ma più precisamente ha una prima fase di lancio a velocità ipersonica, poi la testata si stacca dal booster e viene spinta da un secondo motore più piccolo che permette di manovrarla nella fase terminale. E’ più complicato da abbattere per i sistemi di difesa aerea. Dei missili balistici tradizionali si può calcolare la traiettoria dopo il lancio, questi invece possono essere ‘corretti’ in volo e dunque sono più difficili da intercettare”.
Borsari ha aggiunto: “In base alle immagini di alcuni componenti abbattuti, avrebbero usato anche il Kheibar Shekan, anche questo un missile balistico a medio raggio ma con testata non manovrabile. E poi l’Emad, che ha 1800 chilometri di portata. I primi due hanno testate intorno ai 500 chili, l’Emad arriva a 750 chili, quindi parliamo di armi che possono essere molto pericolose e fare pesanti danni all’obiettivo. L’impatto su Israele è stato limitato, le difese aeree hanno funzionato e anche gli Stati Uniti con i loro assetti navali nel Mar Rosso e nel Mediterraneo hanno dato una mano.
Ma dai video che circolano, pare che decine di missili abbiano impattato sul terreno, e ciò vuol dire che l’Iran è riuscito a ‘saturare’ le capacità di difesa israeliane. Tra gli obiettivi c’erano alcune basi aeree, tra cui quella di Nevatim, che ospita gli F-35.
Si tratta di 39 caccia di ultima generazione molto avanzati, che sicuramente l’aeronautica – avvertita con qualche ora d’anticipo dell’attacco imminente – avrà fatto decollare da quella base. Sia per contribuire alla difesa aerea, sia per evitare che fossero danneggiati. Per capire l’esatta entità dei danni bisogna però aspettare le prossime ore”.
A differenza di aprile Giordania e Gran Bretagna non hanno potuto aiutare Israele nell’abbattimento di missili: “E’ una questione più tecnica che di alleanze regionali: la scorsa volta l’aviazione giordana aveva abbattuto droni e missili da crociera, che viaggiano molto più bassi di quelli balistici. In questo caso non sarebbe riuscita a intercettarli”.
Il 10 ottobre, la tv israeliana Kan-11 ha riportato stime di intelligence secondo le quali Teheran disponeva di “600 missili di alta qualità” alla vigilia delle ondate del 1° ottobre.
Se davvero ne ha utilizzati fra 187 e 200, ora la forza missilistica iraniana, che, lo ricordiamo, è gestita direttamente dal Corpo delle Guardia Rivoluzionarie (pasdaran), resta con circa 400 missili avanzati di pronto impiego, mentre invece resta sostanzialmente ignota la celerità di produzione di nuovi ordigni. La stima totale comprendente anche i missili balistici più datati, eleverebbe però a circa 2.000 vettori, di varie gittate, la forza balistica persiana mentre lo US Central Command si spinge a stimare in 3.000 missili balistici gli arsenali strategici di Teheran.
Nello stesso giorno, il ministro della Difesa Yoav Gallant, visitando un quartier generale dell’intelligence militare Aman osservava che “gli attacchi dell’Iran sono stati aggressivi ma mancavano della necessaria precisione”.
Dal canto suo, l’agenzia israeliana i24 News ha citato un funzionario israeliano, che ha parlato sotto anonimato, dicendo che l’Iran ha “sprecato” gran parte delle sue capacità più avanzate in quell’operazione, senza tuttavia “raggiungere i suoi obiettivi”.
Ciò soprattutto per merito delle proverbiali difese israeliane, sebbene, come abbiamo visto, molti ordigni siano riusciti a passare. Infatti, il problema principe di Israele resta quello di assicurare piena operatività a quel vero e proprio “scudo multiplo” che, pur efficace, è sofisticato, costoso e dipende da forniture di munizioni dagli Stati Uniti.
La difesa aerea di Israele
Quella israeliana è una difesa antimissile a strati. L’Iron Dome, o “Cupola di Ferro”, in ebraico Kippat Barzel, è il sistema più usato contro i razzi di Hamas e Hezbollah.
All’Iron Dome spettano le quote più basse, sotto 10 chilometri ma il suo raggio d’azione orizzontale supera i 70 chilometri. E’ costituito da batterie su autocarri, alcuni dei quali portano moduli da 20 tubi di lancio caricati con altrettanti missili. Il vero missile si chiama Tamir. Lungo 3 m, pesa 90 kg e sfreccia a 2500 km/h verso il bersaglio, individuato via radar. Ogni missile Tamir costa 100.000 dollari ed è importato dagli USA, dove Israele ha una linea di produzione esterna. Gli altri autocarri portano radar e centri di comando coi computer.
Per non sprecare colpi, anche se il radar traccia tutti i razzi in arrivo, Iron Dome mira in automatico solo ai razzi dalla traiettoria più vicina alle case. Ma il sistema può essere saturato se gli ordigni sono troppo numerosi. Inoltre necessita un minimo di distanza e tempo per eseguire i suoi calcoli.
Non è in grado d’intercettare ordigni che vengano da una distanza inferiore a 4 chilometri e con tempo di volo inferiore a 28 secondi. Progettato dalla Rafael, è stato finanziato dagli Stati Uniti. Israele ha speso 200 milioni di dollari in progettazione fra 2005 e 2008, poi l’America ha contribuito per 2,6 miliardi di dollari fra 2008 e 2021, per la produzione.
Il sistema è in servizio dal 2011 e Israele lo sta ampliando da 10 a 15 lanciatori. Per risparmiare sui missili, gli israeliani stanno sperimentando l’arma laser Iron Beam, che verrà integrata nell’Iron Dome nel 2025, in modo che il computer scelga di volta in volta se usare il laser o il missile.
Le quote a livello di stratosfera, fra 15 e 20 km, spettano al sistema David’s Sling, la “Fionda di Davide”, in ebraico Kela David, ma anche Sharvit Ksamim, cioè “Bacchetta Magica”. Con raggio d’azione fra 40 e 300 km, usa il missile a due stadi, lungo 4,6 metri, Stunner, che costa 1 milione di dollari l’uno. Anche in tal caso, sono gli Stati Uniti a fornire le munizioni, infatti la “Fionda” è sviluppata da Rafael insieme alla Raytheon, l’azienda dei Patriot, ed è in servizio dal 2017.
Aiuto americano anche per il sistema Arrow (nella foto sopra), creato dall’israeliana IAI insieme alla Boeing. Copre lo strato più alto, oltre 100 chilometri di quota, in pratica già nello spazio. L’ultima versione Arrow 3, in servizio dal 2017, è un razzo con raggio d’azione di 2,400 chilometri che può colpire missili balistici all’apice della loro parabola, fuori dall’atmosfera, come è accaduto con vari ordigni iraniani e degli yemeniti Houthi.
Il dispositivo anglo-americano
In potenziamento di una difesa aerea già notevole (ma che risulterebbe a corto di munizioni come hanno riferito fonti dell’industria della Difesa) gli Stati Uniti hanno inviato anche un sistema THAAD, il cui invio in Israele è stato anticipato il 14 ottobre dal Wall Street Journal.
Il Terminal High Altitude Area Defense, che ha un raggio d’azione di 200 chilometri e arriva a una quota ormai “spaziale” di 150 chilometri, dunque paragonabile come inviluppo di volo a un Arrow, arriva a una velocità massima di Mach 8,2, quasi 10.000 km/h, ed è prodotto dalla Lockheed Martin al costo di 1,2 miliardi di dollari per batteria e di 12 milioni per singolo missile.
L’America ne ha inviata per ora una batteria, con “100 militari per gestirla”. Per il portavoce del Pentagono, generale Pat Ryder: “Il THAAD potenzierà il sistema di difesa di Israele ed è la dimostrazione dell’impegno ferreo degli Stati Uniti contro qualsiasi attacco con missili balistici da parte dell’Iran. Sarà inviato il sistema ed il relativo equipaggio di militari statunitensi in Israele per contribuire a rafforzare le difese aeree israeliane a seguito degli attacchi senza precedenti dell’Iran contro Israele il 13 aprile e di nuovo il 1° ottobre”.
Frattanto s’è rafforzato l’apparato militare americano nel Mediterraneo Orientale a sostegno di Israele, che comprende attualmente almeno sette navi principali, in attesa dell’arrivo della portaerei Truman.
Sono le navi da sbarco dei Marines New York, Oak Hill e Wasp, che hanno a bordo anche caccia F-35B a decollo verticale, più la nave appoggio Patuxent e ben tre incrociatori lanciamissili, Arleigh Burke, Bulkeley e Cole, questi ultimi dotati dei sistemi Aegis con missili antimissile Standard che hanno dato supporto a Israele nell’abbattere i missili iraniani.
Nel Mare Arabico, a Est del Mar Rosso e vicino all’Iran, c’è invece la grande portaerei Lincoln.
I britannici hanno trasferito caccia Eurofighter Typhoon della RAF in Oman, dopo uno scalo a Malta. E’ chiaro che ci troviamo di fronte al potenziale gradino di passaggio da una crisi locale a una globale, complice il peso petrolifero della regione. Una crisi che, dall’iniziale focolaio di Gaza s’è ingrandita per cerchi concentrici costituiti dagli alleati dell’Iran.
Da Gaza al Libano
Per quasi un anno il fulcro del conflitto è stato costituito dalla campagna militare israeliana contro la Striscia di Gaza, per vendicare le vittime della strage del 7 ottobre 2023 e per debellare Hamas, o almeno provarci, con bombardamenti aerei e con la penetrazione di truppe di terra con pesante appoggio di carri armati ed artiglieria.
Nonostante mesi di operazioni in un teatro urbano difficilissimo, che ricorda un po’ la Stalingrado del 1942/43, e le pesanti perdite inflitte al movimento palestinese, oltre che ai civili, Israele sembra essersi trovata a un certo punto in un vicolo cieco.
Al naufragare delle trattative per la liberazione degli ostaggi ancora in mano ai palestinesi e all’impossibilità di prendere un effettivo controllo del territorio della Striscia, al di là delle strette fasce attorno alle direttrici di movimento delle brigate ebraiche.
Nonostante il presidio di importanti “strade militari” aperte dai bombardamenti in mezzo alle macerie, come il corridoio Netzarim, e l’uccisione, confermata il 17 ottobre, del capo di Hamas, quello Yahya Sinwar (nella foto sotto), ricercato numero uno fin dai primi giorni del conflitto, non sembra che le operazioni israeliane nella Striscia siano terminate.
L’impegno militare israeliano in Cisgiordania, come anche sui confini della Galilea e del Golan, è sempre stato, tutto sommato, collaterale rispetto alla priorità data a Gaza, anche perché i lanci di razzi e droni da Hezbollah sono sempre apparsi sussidiari, di disturbo agli israeliani e di appoggio ai palestinesi. Del resto, lo stesso Hezbollah aveva dichiarato più volte, ammesso fosse sincero, negli scorsi mesi di essere “pronto a cessare i lanci di razzi su Israele in caso di raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco con Hamas”.
C’è stato il notevole successo, da parte israeliana, dell’uccisione del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, avvenuto nel cuore di Teheran il 31 luglio 2024 grazie a ordigni piazzati dal Mossad, ancora non si sa se droni manovrati da agenti in territorio iraniano o bombe piazzate grazie all’aiuto di “talpe” nello stesso albergo gestito dai pasdaran in cui Haniyeh era ospite.
Fatto sta che il passaggio di Sinwar da capo di Hamas nella Striscia a successore di Haniyeh, che viveva fra Qatar e Iran, e quindi numero uno assoluto del movimento, ha aumentato ulteriormente la pressione interna ai vertici israeliani per eliminarlo.
Specie in un contesto in cui il governo del premier Benjamin Netanyahu era, ed è tuttora, sempre più criticato da gran parte dell’opinione pubblica ebraica per lo stallo nei negoziati per la liberazione degli ostaggi e nella gestione di una guerra insolitamente lunga per la tradizionale dottrina strategica israeliana, che ha sempre teso a vittorie rapide.
Un’incertezza confermata indirettamente l’11 settembre dalle ammissioni del negoziatore israeliano Gal Hirsch all’agenzia Bloomberg, circa la disponibilità a concedere a Sinwar un salvacondotto verso un esilio all’estero, sebbene il riuscire a ucciderlo rappresenti la soluzione ideale per Israele.
Hirsch aveva dichiarato: “In parallelo devo lavorare al piano B, C e D perché devo portare a casa gli ostaggi. Le lancette dell’orologio girano e gli ostaggi non hanno tempo. Perciò sono pronto a concedere un passaggio sicuro a Sinwar, la sua famiglia e chi voglia unirsi a lui”.
Ciò a precise condizioni: “Vogliamo indietro gli ostaggi, vogliamo la smilitarizzazione, la deradicalizzazione, un nuovo sistema che gestisca Gaza”. Netanyahu ha taciuto sull’ipotesi di un lasciapassare per il capo di Hamas, non confermandola ufficialmente.
Ma è singolare che proprio quello stesso giorno il ministro della Difesa Yoav Gallant, abbia affermato che Gaza “non sarebbe più un’emergenza”, rispetto all’escalation con gli Hezbollah libanesi. Il ministro ha divulgato un messaggio che testimonierebbe le difficoltà di Hamas dopo un anno di martellamenti e combattimenti.
Un dispaccio, intercettato probabilmente dall’intelligence militare israeliana Aman, che il capo della Brigata Khan Yunis di Hamas, Rafaa Salameh, ha indirizzato a Sinwar e a suo fratello Muhammad, lamentando: “Abbiamo perso il 90-95% dei nostri razzi, il 60% delle armi portatili, il 65-70% delle armi anticarro. Peggio, abbiamo perso il 50% dei nostri uomini, fra martiri (cioè morti) e feriti, ma siamo rimasti col 25%, poiché l’altro 25% non ce la fa più in fisico e mente”. Che lo stato anche logorato, di una brigata di Hamas basti a dire che l’intero movimento sia allo stremo, è da vedersi.
Di certo, Gallant già assicurava a Netanyahu che “l’esercito è pronto a una vasta operazione in Libano”. Lo stesso 11 settembre, gli Hezbollah lanciavano 60 razzi sulla Galilea, mentre l’aviazione ebraica rispondeva colpendo 30 postazioni di lancio nel Libano del Sud, a Jebbayn, Naqoura, Deir Seryan e Zibqin.
Un drone israeliano, dal canto suo, centrava una motocicletta su cui viaggiavano due miliziani a Mays al-Jabal, uccidendone uno e ferendo l’altro. L’annunciata campagna in Libano, tambureggiata dal governo ebraico nelle settimane centrali di settembre come necessaria per far cessare i lanci di razzi sciiti e permettere ai circa 70.000 cittadini evacuati dalla Galilea di ritornare alle loro case, ha permesso, in sostanza, al “gabinetto di guerra” israeliano di far passare in secondo piano l’impasse sugli ostaggi, optando, in un certo senso, per dare la precedenza ai cittadini del Nord sfollati, rispetto alle famiglie dei rapiti.
Soprattutto, facendo diventare secondario il fronte di Gaza, passa in secondo piano anche il sostanziale insuccesso, dopo quasi un anno di guerra, nel piegare definitivamente Hamas, che resiste ancora fra ruderi, gallerie, trappole.
Ciò ovviamente non significa che la minaccia Hezbollah sia da sottovalutare poiché è stato stimato che, dall’8 ottobre 2023 al 24 settembre 2024, gli sciiti libanesi abbiano rovesciato su Israele qualcosa come 8.000 fra razzi, missili e droni. Seppure per la maggior parte intercettati, hanno causato varie vittime specialmente i 12 ragazzi drusi dilaniati il 27 luglio 2024 da un razzo sciita mentre giocavano in un campetto di Majdal Shams, nel Golan occupato da Israele.
Il 16 settembre Sinwar, oltre a “felicitarsi” con gli alleati Houthi per il lancio del loro missile ipersonico verso Israele il giorno prima, ribadiva, in un comunicato, che i miliziani di Gaza e tutti i loro alleati sono pronti a proseguire una guerra di lunga durata: “La resistenza si sta preparando per una battaglia di logoramento e spezzerà la volontà politica del nemico proprio come l’Alluvione Al Aqsa (l’attacco del 7 ottobre 2023 a Israele) ha spezzato la sua volontà militare. La resistenza in Libano, Gaza, Iraq e Yemen sconfiggerà Israele”.
E riguardo alle informazioni sull’indebolimento di Hamas: “Gli annunci del nemico sono bugie e guerra psicologica. I nostri sforzi combinati vinceranno”. Neanche 24 ore dopo, il 17 settembre, è avvenuto l’incredibile attacco asimmetrico israeliano ai quadri di Hezbollah, con l’esplosione di migliaia di cercapersone in uso al movimento sciita, replicato l’indomani, 18 settembre, con lo scoppio di walkie talkie.
Operazione che sarebbe stata attuata dal Mossad, forse insieme all’Aman, grazie all’inserimento di una piccola carica esplosiva azionata da un messaggio inviato nello stesso momento a tutti gli apparati di comunicazione che l’hanno ricevuto. Lo stillicidio di deflagrazioni ha ferito in tutto il Libano 3.500 persone e ne ha uccise 42.
Subito Hezbollah ha fatto sapere che il suo capo Hassan Nasrallah era illeso. Si discute su come, e quando, il Mossad possa essersi inserito nella catena logistica di Hezbollah per fornire gli apparati sabotati. Secondo alcune fonti sarebbe stato hackerato il firmware delle batterie al litio dei cercapersone e walkie talkie in modo da causarne il surriscaldamento su comando del messaggio-civetta, il che avrebbe a sua volta innescato l’esplosivo.
Poiché Nasrallah aveva ordinato lo scorso febbraio ai suoi uomini di rinunciare all’uso dei telefoni cellulari e delle connessioni internet, ritenuti più facilmente tracciabili da Israele, in favore di cercapersone e walkie talkie, s’è pensato che il Mossad si sia inserito con ditte fantasma nella catena di fornitura di tali apparecchi fabbricati, nominalmente, in Estremo Oriente.
Era il 13 febbraio, quando il capo di Hezbollah ammoniva: “In questa fase, sbarazzatevi di tutti i cellulari, sono agenti di morte, smettete di usarli, distruggeteli, seppelliteli o chiudeteli in una scatola di ferro”. Ciò ha fatto pensare che l’operazione del Mossad fosse stata organizzata nell’arco degli ultimi sette-otto mesi, ma la costituzione delle società ombra implicate rimonta ad alcuni anni addietro.
Segno che questa complessa operazione si inquadra nella preparazione di lungo periodo di Israele all’eventualità di ulteriori incursioni militari terrestri in territorio libanese, dopo quelle già verificatesi in passato, specialmente le due più ampie e note, nel 1982 e nel 2006.
Nasrallah tradito?
L’esplosione dei cercapersone ha fatto capire che stava procedendo il conto alla rovescia per la campagna militare di Israele in Libano. Mentre si intensificavano gli attacchi aerei israeliani che da mesi, colpivano postazioni Hezbollah lungo il confine, il 22 settembre il movimento sciita lanciava una massa di 100 razzi su varie zone di Israele, specie nell’area di Haifa. Quel giorno Hezbollah ha sostenuto di aver colpito “complessi industriali militari in risposta alle esplosioni di cercapersone e walkie-talkie, compresa l’industria Rafael”.
Rafael, con sede ad Haifa, è come noto, una delle maggiori industrie militari di Israele, fabbrica missili e sistemi elettronici, fra cui il sistema di difesa Iron Dome che intercetta gli ordigni nemici. Hezbollah avrebbe anche piazzato alcuni missili Fadi sulla base aerea israeliana di Ramat David.
Alcuni droni sono stati lanciati su Israele anche dalle milizie irachene filoiraniane ma sarebbero stati abbattuti. Mentre continuava la chiusura dello spazio aereo sul Nord di Israele, USA e Giordania invitano i loro cittadini a lasciare il Libano. Israele il mattino dopo affermava di aver “colpito 150 obbiettivi in Libano”.
In quelle ore, l’Iran è sembrato titubante, temendo l’espansione del conflitto. Lo stesso 23 settembre il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, a New York per l’Assemblea Generale dell’ONU, sosteneva: “Siamo pronti a colloqui sul nucleare all’assemblea ONU, se le altre parti saranno disposte”.
E il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, a dispetto dei legami con la Russia a cui Teheran ha fornito anche droni e missili tattici: “Vogliamo sederci insieme a europei e americani per avere un dialogo. Non abbiamo mai approvato l’aggressione russa contro il territorio ucraino”.
Sintomo dei timori iraniani, l’insinuazione del deputato Ahmad Bakhshayesh Ardestani, membro della Commissione Sicurezza e Politica estera, secondo cui il defunto presidente Ebrahim Raisi, morto nel maggio 2024 nell’incidente al suo elicottero di ritorno dall’Azerbaigian “aveva con sé un cercapersone che potrebbe essere esploso nel volo, le nostre agenzie di intelligence devono indagare”.
In effetti, la Guardia Rivoluzionaria dei pasdaran aveva appena vietato a tutti i suoi membri l’uso di “qualsiasi apparato elettronico di comunicazione”, sottoponendo tutti i sistemi, di produzione iraniana, russa o cinese, a ispezioni tecniche.
Era anche in corso un’indagine fra gli stessi pasdaran per scoprire eventuali sabotatori pagati da Israele per manomettere i dispositivi. Lo hanno dichiarato funzionari dei pasdaran all’agenzia Reuters, aggiungendo che, per il momento, i miliziani si stavano “limitando a usare messaggi criptati end-to-end”, per diminuire al minimo la tracciabilità elettromagnetica.
Al crescendo di incursioni aeree israeliane per cercare di decurtare l’arsenale missilistico di Hezbollah, il movimento ha risposto il 25 settembre lanciando da Nafakhiyeh un missile balistico a corto raggio Qader-1, che secondo i dati divulgati dai miliziani sciiti avrebbe una testata di 500 chili, un peso totale di circa 2.800 chili e una gittata di 190 chilometri.
Dalle immagini diffuse attraverso la tv sciita Al Manar e i social di Hezbollah, che mostrano solo il muso e non la coda e il motore del missile, si nota una testata a segmenti di cono con alette direzionali, spacciata per “testata manovrabile” nella parte terminale della traiettoria. L’ordigno viene presentato come un prodotto di Hezbollah, ma sembra, presumibilmente, una versione alleggerita di qualche missile iraniano come il Fateh 110. Comunque, l’ordigno puntava al quartier generale del Mossad nel sobborgo Glilot di Tel Aviv.
E’ entrato in azione il sistema antimissile israeliano di media quota “Fionda di Davide”, in ebraico Kela David, ma anche Sharvit Ksamim, cioè “Bacchetta Magica”, efficace fino alla stratosfera inoltrata, fra 15 e 20 chilometri d’altitudine. Con raggio d’azione fra 40 e 300 chilometri usa come vettore il missile a due stadi, lungo 4,6 metri, Stunner, che costa un milione di dollari l’uno ed è fornito dagli Stati Uniti, dato che la “Fionda” è sviluppata da Rafael insieme alla Raytheon, l’azienda dei Patriot, ed è in servizio dal 2017.
Il missile Qader-1 è stato intercettato e distrutto dalla “Fionda” prima che impattasse sull’area di Tel Aviv, ma l’episodio ha confermato la pericolosità di Hezbollah, tanto che le forze armate ebraiche hanno riconosciuto che si trattava “dell’attacco più in profondità finora effettuato dalle milizie libanesi”.
Nella preparazione all’offensiva con truppe di terra nella fascia di confine col Libano, ha avuto un ruolo primario la decapitazione di Hezbollah, giunta improvvisa, forse non a caso, poco dopo che era fallito un tentativo di mediazione.
Attorno al 26 settembre, il giorno precedente l’eliminazione di Nasrallah, nonostante Netanyahu sostenesse che “useremo tutta la nostra forza contro Hezbollah”, giungevano notizie sul fatto che israeliani e sciiti libanesi stessero esaminando “una proposta di tregua avanzata da USA e Unione Europea della durata di 21 giorni per consentire trattative fra Israele ed Hezbollah”.
Secondo Times of Israel, entrambe le parti “decideranno entro poche ore se accettare o no”. L’indomani, 27 settembre, nelle prime ore del mattino, mentre dallo Yemen gli Huthi lanciavano un nuovo missile balistico, intercettato “fuori dei confini israeliani dal sistema Arrow”, la tv ebraica Channel 12 riferiva che Netanyahu, inizialmente d’accordo con l’idea di una tregua, sarebbe stato “ricattato” dall’estrema destra, che minacciava di far cadere il governo, nonostante il ministro degli Affari strategici Ron Dermer, avesse raggiunto un’intesa di massima col consigliere per la Sicurezza Nazionale USA, Jake Sullivan.
Poche ore dopo, lo stesso 27 settembre, una squadriglia di caccia israeliani, pare F-15I Raams o F-16I Sufa, le varianti ebraiche dei noti velivoli americani, s’è avventata sul quartier generale di Hezbollah sganciando fino a 80 bombe ad alta penetrazione, fra BLU-109 e BLU-117 da 900 kg l’una, dotati di kit di guida satellitare JDAM.
Gli ordigni hanno colpito una sala operativa del movimento sciita in bunker a 18 metri sotto la superficie, riducendo in macerie anche quattro edifici sovrastanti nel quartiere Haret Hreik di Dahieh, alla periferia meridionale di Beirut, roccaforte del partito sciita.
L’indomani, ancora c’era incertezza sulla reale sorte del capo di Hezbollah. L’organizzazione sciita taceva, mentre un funzionario israeliano diceva al Jerusalem Post: “E’ difficile credere che sia sopravvissuto”. In quelle ore si ipotizzava però che fosse ancora vivo e che lui e altri vertici per il momento mantenessero un rigoroso silenzio radio per evitare che le loro emissioni da cellulari, radio o traffico internet, facessero da tracciatura per ulteriori bombe israeliane.
La conferma della morte di Nasrallah, 64 anni, che guidava Hezbollah fin dal 1992, quando era solo trentaduenne, è arrivata il 29 settembre, quando fonti arabe di CNN e Al Arabiya hanno reso noto che “il corpo di Nasrallah è stato recuperato intatto”.
In sostanza il capo di Hezbollah non è stato fatto a pezzi o bruciato dalle esplosioni, ma ha subito traumi fatali, forse fratture multiple o emorragie interne da contusioni, causati dalle onde d’urto delle esplosioni, magari amplificate dagli angusti corridoi dei rifugi sotterranei.
La tv ebraica Channel 12 sostiene invece che potrebbe essere “soffocato in un bunker non ventilato dai gas delle deflagrazioni”. Tsahal (le Israeli Defence Forces – IDF), ha comunicato che “Nasrallah è stato eliminato insieme ad altri 20 terroristi”, cifra poi arrivata a 33 morti.
Fra i defunti, i pasdaran iraniani hanno confermato la presenza del generale Abbas Nilforooshan, distaccato come capo delle brigate Quds in Libano, mentre Hezbollah piange, fra gli altri, Ali Karaki, comandante del “fronte Sud” del movimento.
Lo stesso giorno, l’aviazione ebraica dichiarava d’aver colpito con aerei e droni “45 obbiettivi di Hezbollah nella sola area di Kafra, nel Libano del Sud, su direttive del servizio di intelligence militare Aman contro arsenali e strutture terroristiche”, come hanno dichiarato le forze armate di Israele.
Molti altri raid hanno tartassato il “paese dei cedri”. Nel quartiere Dahieh di Beirut le bombe ebraiche hanno ucciso un ulteriore alto comandante del movimento filoiraniano.
Era Nabil Qaouk, capo della cosiddetta “unità di sicurezza preventiva di Hezbollah” e vice capo del consiglio esecutivo del movimento. Oltre che esponente religioso sciita, avendo studiato in gioventù nella città santa iraniana di Qom, Qaouk era anche stato addestrato militarmente dai consiglieri pasdaran. Era il settimo comandante di spicco di Hezbollah accoppato dalle incursioni israeliane a partire dal 20 settembre.
L’uccisione di Nasrallah, relativamente facile laddove invece a Gaza il capo di Hamas, Sinwar, è ancora uccel di bosco dopo molto tempo, ha subito sollevato sospetti di una possibile spia degli israeliani fra le file nemiche che può aver indicato l’esatta ubicazione del bersaglio all’aviazione ebraica.
L’ipotesi è stata per la prima volta lanciata il 29 settembre dal giornale francese Le Parisien, che ha citato “fonti dell’intelligence libanese” secondo cui sarebbe stata “una talpa iraniana” al servizio del Mossad o dell’Aman a tradire indicando la presenza di Nasrallah nel bunker.
Che lo spionaggio e il tradimento possano aver favorito la decapitazione di Hezbollah, da un lato confermerebbe che, tanto l’asse fra il movimento sciita e Teheran è vulnerabile alla penetrazione dell’intelligence israeliana, quanto, al contrario, è relativamente impermeabile Hamas e in genere il territorio della Striscia di Gaza, per le sue peculiari caratteristiche di chiusura, sovraffollamento e stretto controllo sociale esercitato dal movimento di Sinwar.
E che fra Iran ed Hezbollah, l’elemento debole, in termini di controspionaggio, sia proprio il primo, dunque la parte più forte ed egemonica dell’alleanza, non deve stupire troppo. Israele ha una lunga tradizione di contatti militari e di intelligence con Teheran fin dai tempi dello scià di Persia, Reza Palhavi, quando i due paesi erano amici in comune opposizione agli stati arabi.
Anche dopo la rivoluzione islamica del 1979 che rovesciò lo scià, il Mossad deve aver contato in Iran su una rete ereditata dai contatti precedentemente coltivati e negli anni seguenti ulteriormente cresciuta.
Come del resto testimoniano i ripetuti assassinii mirati di scienziati nucleari iraniani, dal 2007 al 2020, attuati da agenti al soldo israeliano, nonché l’introduzione nel 2010 del virus informatico Stuxnet negli impianti di arricchimento dell’uranio di Natanz, quasi sicuramente attuata da un agente umano tramite una banale chiavetta USB.
E, tornando all’oggi, la citata uccisione del segretario politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio nel cuore di Teheran, in barba ai pasdaran che presidiavano il suo albergo. Ha fatto scalpore, ma non troppo, l’intervista concessa il 30 settembre alla filiale turca della CNN dall’ex-presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejiad, in carica dal 2005 al 2013, che afferma di aver appreso nel 2021 che il capo stesso dell’unità di controspionaggio iraniana istituita per contrastare il Mossad era in realtà un agente ebraico, come 20 suoi colleghi e che probabilmente queste spie furono implicate nel furto di documenti segreti sui piani nucleari di Teheran trafugati nel 2018 in Israele.
Questo certamente getta una luce particolare anche sull’incidente occorso all’elicottero del presidente Ebrahim Raisi, precipitato la scorsa primavera.
Il 29 settembre ai vertici di Hezbollah è subentrato suo cugino Hashem Safieddine, 59 anni, mente organizzativa e finanziaria del movimento, nonché uomo di collegamento con l’Iran dato che suo figlio Rida è sposato a Zainab Soleimani, figlia del generale Qassem Soleimani, capo della forza Quds iraniana ucciso da un drone americano il 3 gennaio 2020 a Baghad.
Sulla sorte del successore di Nasrallah, si è quasi subito addensata una sorta di “nebbia”. Infatti Safieddine sarebbe stato l’obbiettivo di un attacco aereo israeliano il 3 ottobre sui bunker di Dahieh. Da allora, sarebbe “irreperibile” secondo Hezbollah, mentre Israele ha sostenuto di averlo ucciso. Potrebbe essere ancora vivo e, semplicemente, essere “svanito dai radar” per dirigere il movimento con maggior sicurezza.
Di certo, il 7 ottobre la sua sorte è stata accomunata a quella del generale iraniano Esmail Qaani, che tuttora sarebbe indagato come una delle possibili talpe in favore di Israele. Alcune tv israeliane, come N12, hanno insinuato che le bombe ebraiche che miravano a Safieddine possano aver ferito anche Qaani, il comandante della Forza Quds in quel momento in visita in Libano.
Ma, dapprima gli stessi pasdaran Quds hanno negato dicendo che “Qaani è sano e salvo e sta svolgendo il suo lavoro”. Poi, anche le IDF hanno dato a intendere una smentita parziale, restando sul vago: “Qaani non era un nostro obbiettivo e non sappiamo se fosse insieme al nuovo capo di Hezbollah, Hashem Safieddine”.
Il nome di Qaani è riemerso però, quasi a sorpresa, come sospetta spia del nemico, a conferma dei timori di Ahmadinejiad. Il 10 ottobre, infatti, fonti arabe riportate da Sky News e Middle Est Eye hanno dato il capo della Forza Quds per rientrato a Teheran, tuttora sotto interrogatorio dai pasdaran, e perfino trattenuto in isolamento, nell’ambito di un’ampia inchiesta interna, voluta dalla Guida Suprema della repubblica islamica, l’ayatollah Alì Khamenei, per scovare spie del Mossad fra gli alti “papaveri” regime.
Di più, secondo Sky News, Qaani sarebbe stato addirittura colto da un malore, pare un infarto, proprio mentre veniva interrogato. Una variante delle indiscrezioni voleva Qaani agli attesti domiciliari.
Sotto inchiesta ci sarebbe stato anche il suo vice, Ehsan Shafiqi, capo di stato maggiore della Forza Quds. Pare che un’ipotesi degli accusatori sia che Qaani possa essere stato la principale talpa ad indicare a Israele quando poter cogliere Nasrallah nel suo bunker essendo anch’egli invitato alla riunione operativa coi vertici di Hezbollah, ma non essendocisi poi recato, evitando quindi di rimanere ucciso.
La tesi è stata poi messa in crisi il 15 ottobre dalla presunta riapparizione di Esmail Qaani in pubblico, ai tardivi funerali a Teheran di Nilforoushan, ucciso insieme a Nasrallah. Si vede il capo della Forza Quds, a meno che non si tratti di un sosia, partecipare alla funzione funebre e piangere per il camerata. Del resto, può darsi che l’inchiesta l’abbia riguardato solo per interrogatori dovuti, ma da Teheran prevale comunque il riserbo.
Che formazioni di élite del paese siano sospettate di essere incistate da traditori e spie, è uno schiaffo alla reputazione del regime e, se il sospetto avesse basi reali, potrebbe dare adito, col passare del tempo, a purghe interne. Gli ayatollah potrebbero anche essere tentati dal “terrore” per compattare il paese con misure draconiane, specie in caso di pesanti attacchi israeliani che possano minare la credibilità di Teheran. Non diversamente da quanto fatto nel 1937 da Stalin in Unione Sovietica col dramma dei processi e delle fucilazioni di migliaia di ufficiali dell’Armata Rossa, a cominciare dallo sfortunato maresciallo Michail Tuchachevskij.
Le capacitò militari di Hezbollah
L’intensificazione delle incursioni aeree israeliane sugli obbiettivi Hezbollah a partire dal 23 settembre 2024, di cui l’eliminazione mirata di capi e “colonnelli” è solo un aspetto, ha fatto da apripista alla inizialmente timida, poi sempre più spedita, penetrazione di truppe terrestri in territorio libanese dal 1° ottobre, per cercare di sgomberare dalla presenza dei miliziani sciiti tutta la fascia di territorio dalla Linea Blu fino al fiume Litani.
Principali scopi degli attacchi, la distruzione, o almeno la decurtazione, dell’immenso arsenale e delle infrastrutture tattiche e strategiche di Hezbollah.
Per Israele la guerra totale con Hezbollah, il “Partito di Dio” degli sciiti libanesi, si sta rivelando, almeno in questi giorni, un filo da torcere. Il movimento è molto più forte di Hamas, che già non è stato possibile, finora, sradicare da un territorio piccolo, ma densamente abitato, come la Striscia di Gaza.
Hezbollah controlla un territorio molto più vasto di Hamas, specialmente nel Libano del Sud, e ciò assicura una certa profondità di manovra e abbondanza di linee di retrovia, specie in fatto di collegamenti via terra con l’alleata Siria, da cui proviene il grosso delle forniture di armi e munizioni iraniane. Il movimento sciita, inoltre, ha molto aumentato la sua forza rispetto al conflitto dell’estate 2006, l’ultima grande invasione israeliana del Libano di una certa consistenza.
L’ala armata di Hezbollah è comandata da un “Consiglio della Jihad” a cui rispondono le unità operative, raggruppate nella “Resistenza Islamica”, la quale è affiancata da due servizi segreti, uno per lo spionaggio estero e uno per la sicurezza interna.
All’intelligence di Hezbollah si può magari rimproverare la “falla” dovuta all’introduzione in Libano di migliaia di apparati elettronici, appunto i cercapersone e i walkie-talkie, “minati” dal Mossad, sebbene si debba riconoscere che quel piano, tuttora poco chiaro, fosse talmente diabolico e ben congegnato che anche i servizi segreti delle maggiori potenze, con tutta probabilità, ne sarebbero stati soverchiati.
D’altro canto, invece, si può pensare che i servizi di sicurezza di Hezbollah siano stati, almeno finora, relativamente abili nell’offrire poco spazio all’infiltrazione di agenti israeliani, almeno al confronto con l’assai più potente e attrezzato Iran. A tale conclusione porterebbe la citata constatazione che Nasrallah è stato centrato grazie a fughe di informazioni dal lato iraniano, quando non dell’aperto tradimento.
Hezbollah è nel complesso assai superiore in forze e capacità rispetto alle forze armate regolari del Libano, nonostante in teoria sia un partito armato. Di fatto è uno “Stato nello Stato” che espropria automaticamente la sovranità di Beirut. Negli ultimi anni della sua vita, Nasrallah vantava di disporre di “100.000 combattenti”.
La cifra reale sarebbe inferiore, ma sempre formidabile. S’ipotizzano fra 50.000 e 60.000 uomini, dei quali forse 30.000 sarebbero i miliziani a tempo pieno, il resto riservisti.
C’è stata una crescita esponenziale rispetto ai 1000 combattenti professionisti, più un numero di volontari compresi fra 6000 e 10.000, che il movimento schierava nel 2006 contro l’incursione delle truppe israeliane in Libano. Allora, Hezbollah aveva già nei suoi arsenali 14.000 razzi, in massima parte della famiglia delle Katjusha, ma ancora nessun missile balistico guidato. Disponeva però già di missili anticarro, anche avanzati come i russi Kornet, con cui distrusse vari carri armati pesanti ebraici Merkava, o come i missili antinave cinesi C-802, con cui bersagliò navi ebraiche sulla costa.
Già il movimento aveva avamposti fortificati, collegati da tunnel e costruiti con la consulenza di ufficiali nordcoreani, grazie ai quali inflisse gravi perdite all’esercito ebraico, alias Tsahal, 18 anni fa. In seguito il movimento di Nasrallah s’è via via rafforzato, a dispetto della presenza della forza ONU Unifil, di cui dal 2006 hanno fatto parte anche un migliaio di militari italiani della missione Leonte. Negli ultimi anni Hezbollah ha spostato molte sue strutture a nord del fiume Litani, aumentando il ricorso ai consiglieri iraniani delle brigate Quds. Già nel 2010 l’arsenale di razzi e missili si stima fosse salito a 45.000 ordigni.
Dal 2013 in poi, Hezbollah è intervenuto nella guerra civile siriana a fianco dei pasdaran e del governo di Damasco, conflitto che è stato la palestra per 4000 veterani che oggi ne formano il nucleo più esperto. Ha ricevuto dai siriani anche vecchi carri armati sovietici, tra T-55 e T-72, che attualmente non sembrano usati contro Israele perché sarebbero troppo facili bersagli.
Per difendersi dai raid aerei, Hezbollah conta, grazie ai finanziamenti iraniani, su nuovi tunnel in grado d’accogliere autocarri lanciamissili, nonché su una rete di cavi sotterranei a fibre ottiche, più preziosa ora dopo i sabotaggi israeliani alle comunicazioni senza fili. L
‘antiaerea sembra, al momento, un tallone d’Achille, ma il movimento avrebbe ottenuto, via Iran e Siria, missili insidiosi almeno per elicotteri e droni, come gli SA-18 russi lanciabili a spalla o i Sayyad iraniani a guida radar.
Nerbo di Hezbollah sono, come ben noto, razzi e missili. Nei bunker sarebbe radunata una forza variamente stimata in 120.000, 150.000 o perfino 200.000 ordigni, di cui la frazione più numerosa è costituita da razzi non guidati, economici e lanciabili in massa per saturare un’area, anche solo a scopo dimostrativo e terroristico. Fra essi primeggiano versioni di Katjusha russe come il BM-21 Grad, con una gittata fra 20 e 40 chilometri, a seconda della testata, da 6 o 21 chili e un calibro di 122 mm. Il BM-27 Uragan tira fino a 35 chilometri ma ha una testata di ben 100 chili, dato un calibro di 220 mm.
Alcuni di questi ordigni sono stati adattati al camion lanciatore iraniano Hadid, che monta un sistema di 40 tubi per bordate simultanee.
I miliziani libanesi hanno realizzato anche adattamenti artigianali locali come il Tharallah, una sorta di apparato di lancio binato munito di due tubi lanciamissili per anticarro Kornet, appaiati in modo da scaricare su uno stesso carro armato nemico un doppio colpo di maglio istantaneo. E’ possibile che alcuni dei Merkava distrutti o danneggiati a inizio ottobre 2024 sulla linea del fuoco possano essere stati colpiti in questo modo.
Fra i razzi più potenti di Hezbollah si segnala lo Zelzal 2 iraniano, lungo 8 metri e pesante 3,5 tonnellate, con una testata di 600 kg. Ha una gittata di ben 210 km e può colpire mezza Israele, arrivando comodamente su Tel Aviv, ma non ha sistemi di guida e può solo servire come arma del terrore su una vasta area urbana.
Ci sono poi anche missili guidati, non disponibili nel 2006, consegnati, anche in tal caso, dall’Iran e anche dalla Siria. Il missile iraniano Fateh 110, di cui Hezbollah avrebbe alcune centinaia di unità, ha una gittata di 300 chilometri, è lungo 9 metri e porta una testata da 500 chili.
Sembra abbia un sistema di guida satellitare abbinato a una guida ottica terminale, ma è chiaro quale sia il suo reale grado di precisione. C’è un numero imprecisato di vettori della serie Scud, che potrebbero essere una variante evoluta nordcoreana, Hwasong 7, fornita dalla Siria e in grado di colpire oltre 1000 chilometri di distanza.
Pericolosi, ma forse pochi, sarebbero i missili antinave russi Yakhont, in grado di volare a velocità supersonica solo 10 metri sopra la superficie del mare, fino a 300 chilometri dalla costa. Gli 8.000 tra razzi e missili consumati dai miliziani libanesi nell’ultimo anno sono solo una minuscola frazione dell’arsenale sciita.
Il 1° ottobre il New York Times ha ipotizzato, da fonti dei soliti “funzionari anonimi israeliani e americani”, che nei recenti attacchi aerei ebraici sul Libano siano stati distrutti al suolo, nei loro arsenali, “circa metà dei razzi e missili di Hezbollah”, ma sembra troppo ottimistico.
Tantopiù che i bunker, talvolta abbastanza grandi da accogliere anche autocarri con rampa di lancio per missili balistici, sono una realtà nota che il movimento sciita ha spesso pubblicizzato anche con video diffusi in rete.
In più ci sono i droni. Hezbollah ne ha circa 2.000, di vari tipi, anche in tal caso di origine prevalentemente iraniana. Come il Karrar, capace di volare fino a 1000 chilometri in modalità kamikaze o 500 km se vettore di bombe con velleità di ritorno alla base.
O i velivoli della serie Ababil, già citati all’inizio di questo lavoro. Hezbollah sa che i sistemi antimissile israeliani, specie l’Iron Dome, funzionano a patto che non venga lanciato un numero eccessivo di ordigni, che soverchierebbe il sistema e in qualche caso i riusciti impatti sono stati frutto del sacrificare magari l’80-90% dei vettori impiegati per una singola salva.
Di fronte a questa forza irregolare ben strutturata, da più parti reputata il più forte esercito non-statale al mondo, è scattata dal 1° ottobre 2024 la finora cauta offensiva terrestre ebraica che ha per oggetto l’introdursi oltre il confine libanese e ripulire dalla presenza di Hezbollah tutta la fascia di confine compresa fra la Blue Line e il fiume Litani, profonda 30 chilometri.
All’avvio della campagna, il contingente ONU Unifil ha ricevuto una notifica da Israele secondo cui le forze ebraiche hanno “l’intenzione di attuare incursioni di terra limitate”.
Ciò è in sostanza conseguenza del fatto che la risoluzione 1701 dell’ONU, seguita alla guerra del 2006, che già chiedeva lo sgombero della zona dalle milizie sciite, è sempre rimasta lettera morta, né l’Unifil ha mai avuto la forza di farla applicare. Hezbollah, ufficialmente, ha sempre detto di non potersi ritirare “finchè Israele occuperà la zona delle Fattorie di Shebaa”, su cui vige un rebus diplomatico, poiché l’ONU le considera territorio siriano occupato da Israele, mentre per il governo libanese e il partito armato sciita sarebbe invece territorio libanese.
Guerra totale
Il nucleo maggiore della forza mobilitata per entrare in Libano appartiene alla 98a Divisione del generale Dan Goldfuss, fra 10.000 e 20.000 uomini, composta soprattutto da elementi dei paracadutisti e particolarmente adatta ad azioni in profondità di cui hanno accumulato grande esperienza anche negli ultimi mesi a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza.
A essa fanno corollario quattro brigate di riservisti. Così è iniziata l’operazione Frecce del Nord, che secondo Axios è stata “concordata con Washington dopo 48 ore di colloqui in cui gli americani hanno espresso il timore di un’offensiva su larga scala, mentre invece è un’azione mirata”.
Il rapporto con l’America è però rimasto ambiguo, dato che all’amministrazione del presidente uscente Joe Biden preme moderare il conflitto per evitare ripercussioni elettorali alla vigilia delle presidenziali di novembre e della sfida fra la vicepresidente Kamala Harris, delfina di Biden, e l’ex-presidente Donald Trump.
Il portavoce del dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, ha detto già il 1° ottobre che la campagna ebraica nel paese dei cedri sarebbe stata relativamente limitata, di fatto limandone il mordente: “Al momento ci hanno detto che si tratta di operazioni limitate alle infrastrutture di Hezbollah vicino al confine, ma siamo in continuo dialogo con loro”. Ha reagito, piccato, il portavoce di Tsahal, Daniel Hagari: “Nelle ultime ore ci sono stati molte notizie e voci sull’attività delle Idf al confine libanese. Chiediamo che non vengano diffuse notizie sulle attività delle forze. Attenetevi solo ai resoconti ufficiali e non diffondete voci irresponsabili”.
Hezbollah, fra i suoi primi rapporti di combattimento, ha comunicato già il 1° ottobre di aver aperto il fuoco “sui soldati nemici in movimento nei frutteti di fronte ad Adaisseh e Kfarkila”. Il giorno dopo gli sciiti affermavano di aver “costretto i soldati israeliani a ritirarsi con perdite”. Alla 98° Divisione israeliana s’è quasi subito aggiunta la 36° Divisione.
Solo fra 1* e 2 ottobre, le brigate di Tsahal hanno sofferto 8 morti, d’età fra 21 e 23 anni, a seguito del fuoco di Hezbollah dai bunker. Ben 6 dei militari, i capitani Eitan Itzhak Oster, Harel Etinger, Itai Ariel Giat e i sergenti Noam Barzilay, Or Mantzur e Nazar Itkin, sono stati uccisi presso un villaggio, gli altri due caduti, i sergenti Almken Terefe e Ido Broyer, sono stati centrati in un altro punto del fronte. Hezbollah ha dichiarato inoltre di aver “distrutto tre carri armati israeliani Merkava presso il villaggio di Maroun al-Ras”.
Pur essendo il Merkava un carro possente, nel cui progetto è stata messa al primo posto la corazzatura, la milizia libanese può aver usato missili anticarro come i russi Kornet, oppure potenti mine predisposte lungo un passaggio obbligato, che possono aver sfondato il fondo dello scafo dei cingolati.
Il 3 ottobre ecco i primi scontri con l’esercito nazionale libanese, dopo che due soldati di Beirut sono stati uccisi da due distinti attacchi aerei, su un convoglio transitava dal villaggio di Tabyeh e su una postazione militare nella zona di Bint Jbeil.
I libanesi hanno sparato con artiglieria per ritorsione sull’esercito ebraico, ma l’esito dei colpi era parso incerto. Intanto l’aviazione israeliana ha colpito con bombe guidate il quartier generale dell’intelligence di Hezbollah a Beirut.
E in un altro raid ha ucciso Khader Shahabiya capo del distaccamento Hezbollah del Monte Dov responsabile del lancio che in luglio ha ucciso i 12 ragazzi a Majdal Shams.
Gli sciiti hanno dichiarato nel frattempo di avere “respinto con fuoco d’artiglieria soldati israeliani che avanzavano verso il passo di Fatima”, vicino Metula. E di aver arrestato l’ingresso di truppe israeliane “nell’area del cimitero di Yaroun” facendo esplodere una bomba al loro passaggio. Avrebbero poi “colpito un carro armato Merkava sul confine, a Netua”.
Il 4 ottobre Israele ha interrotto con bombe aeree e crateri da 4 metri di diametro, la strada Siria-Libano sul valico di Masnaa, dove passa il contrabbando d’armi dirette a Hezbollah. Sempre sul confine siriano, caccia ebraici hanno distrutto un tunnel lungo 3,5 km, gestito dall’Unità 4400 di Hezbollah, che “consentiva trasferimento e stoccaggio di grandi quantità di armi”.
Frattanto, nei combattimenti terrestri sono stati uccisi due soldati israeliani della Brigata Golani, mentre Hezbollah ha lanciato 70 razzi in un’ora sulla Galilea. Quel giorno, mentre a Beirut, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi incontrava il presidente del Parlamento libanese Nabih Berri, il partito cristiano-maronita Forze Libanesi, il cui capo storico Samir Geagea è sempre stato avversario del partito sciita, ha iniziato a chiedere “sessioni parlamentari a tempo indeterminato per eleggere un nuovo presidente, poiché Hezbollah continua a bloccare le elezioni”.
Riferimento al fatto che dal 2022 manca un presidente della repubblica nel paese ostaggio del partito armato sciita, oltre che monito circa il fatto che i cristiano-maroniti non intendono subire attacchi aerei attirati da Hezbollah.
Il 7 ottobre, il primo anniversario della strage terroristica del 2023 è stato “festeggiato” da Hamas col lancio di 10 razzi Maqadmeh M90 verso l’area di Tel Aviv, quasi tutti intercettati dall’Iron Dome o caduti in campo aperto, a cui è seguito un attacco aereo israeliano sulle rampe di Khan Yunis, nel sud di Gaza, da dove erano stati sparati.
Assai più potente, la “celebrazione” di Hezbollah, con ben 140 razzi piovuti sulla Galile, su Haifa e il lago di Tiberiade, causando 10 feriti, sebbene per in maggioranza centrati dalle difese antiaeree.
Parimenti fermato, dal sistema Arrow, un missile balistico, probabilmente un Qader-1, con cui gli Huthi hanno voluto far sapere di essere presenti alla “festa”. Israele, dal canto suo, ha inviato quel giorno 100 aerei, fra F-15, F-16 ed F-35 sul Libano.
Secondo il comunicato di Tsahal: “Sono stati colpiti 120 obbiettivi che appartenevano a diverse unità dell’organizzazione terroristica Hezbollah. Fra esse, le unità regionali del Fronte meridionale, le Forze Radwan, la Forza missili e razzi e la Direzione dell’intelligence.
L’operazione fa seguito ad attacchi mirati a degradare le capacità di comando, controllo e tiro di Hezbollah e ad assistere le forze di terra nel raggiungimento dei loro obiettivi operativi”. Fra gli obbiettivi colpiti c’erano anche fabbriche di armi e postazioni di tiro nella valle della Bekaa.
L’8 ottobre gli sciiti hanno lanciato una salva di razzi mirando alla base dell’Unità 8200 del servizio d’intelligence Aman, deputata allo spionaggio elettronico, al chi Israele ha rinnovato i raid sul quartier generale del movimento a Dahieh-Beirut. Veniva resa nota l’eliminazione del capo del quartier generale logistico di Hezbollah, Suhail Hussein Husseini, in pratica la “mente” organizzativa del trasferimento di materiale bellico dall’Iran al Libano, tramite l’intermediazione del territorio siriano.
Quel giorno, il premier Netanyahu affermava che era certa la morte del successore di Nasrallah, Safieddine, ma prima di sera ci pensava il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, a smentirlo, ricordando che l’eliminazione del nuovo capo di Hezbollah non era sicura. Intanto l’esercito israeliano ha preso il controllo di Maroun El Ras, piantandovi la bandiera con la stella di Davide, facendo sapere di aver fatto saltare vari tunnel in cui s’annidavano guerriglieri sciiti e specificando che, a quel momento, commandos di forze speciali appoggiate da mezzi corazzati avevano “eliminato 200 terroristi in tre aree del Sud del Libano”.
Era l’9 ottobre quando, per la prima volta, venivano osservati e fotografati 40 fra carri armati e altri mezzi militari ebraici vicino a postazioni dell’Unifil, in particolare presso la posizione 6-52. In seguito si sono ritirati, ma il giorno dopo, 10 ottobre, ecco un primo ferimento di due caschi blu del contingente indonesiano, seguito l’indomani da quello di due militari cingalesi.
Sullo sfondo, colpi di carri Merkava che hanno colpito recinzioni, telecamere e torrette d’osservazione del contingente delle Nazioni Unite.
L’11 ottobre, Unifil comunicava: “Oggi diversi muri a T nella nostra posizione ONU 1-31, vicino alla linea blu a Labbouneh, sono caduti quando un caterpillar delle forze israeliane ha colpito il perimetro e i carri armati si sono mossi in prossimità della posizione Onu.
Le nostre forze di peacekeeping sono rimaste sul posto e una forza di reazione rapida dell’Unifil è stata inviata per assistere e rinforzare la posizione”. Israele ha sostenuto di aver sparato vicino alle postazioni ONU, “in risposta a una minaccia rilevata a 50 metri di distanza” dalle stesse. Si è così approfondita la crisi Israele-ONU, determinata dal fatto che le forze di Tsahal aumentano la pressione per far arretrare il contingente ONU.
Il 12 ottobre, ecco un quinto ferito ONU, un altro indonesiano, per granate sulla base di Naqoura. Sui 10.058 militari membri di Unifil, l’Indonesia è il primo paese contributore, con 1231 uomini, seguita al secondo posto dall’Italia, con 1068, e poi, per limitarsi ai primi paesi, da India, con 903, Nepal, con 876 e Ghana, con 873.
E ghanesi sono stati i caschi blu che hanno subito, sempre il giorno 12, danni alla posizione ONU di Ramyah, con esplosioni che hanno danneggiato i container del complesso. Israele seguita a chiedere all’Unifil di ritirarsi e i suoi colpi intimidatori potrebbero proseguire.
Il governo ebraico ha scoperto e occupato il 14 ottobre un tunnel di Hezbollah “a 200 metri da posizioni ONU”, al che il ministro israeliano dell’Energia, Eli Cohen, ha additato i caschi blu: “Queste forze non hanno contribuito al mantenimento della stabilità e della sicurezza nella regione, non hanno garantito l’applicazione delle risoluzioni Onu e fungono da scudo per Hezbollah”.
Le truppe di Tsahal hanno anche occupato una vera e propria base sotterranea degli sciiti libanesi “larga 800 metri” e predisposta come trampolino per la programmata infiltrazione di miliziani nella Galilea. Il complesso ipogeo era munito, stando ai dispacci dell’esercito, di un magazzino con “missili per elicotteri, proiettili di mortaio, motociclette, alloggi e mezzi per lunghi soggiorni, con ulteriori pozzi sotterranei, cibo, una cucina e salotti”.
La base alla Forza Radwan e pare fosse presidiata da “un solo terrorista”, catturato dai soldati ebrei. Una seconda postazione sotterranea, all’interno di un edificio, è stata espugnata il 15 ottobre e dentro di essa i militari israeliani hanno catturato tre miliziani della Radwan.
Il 15 ottobre il portavoce ONU Stephane Dujarric ha reso noto che “le posizioni Unifil sono state attaccate 20 volte” finora. Dal canto suo, il capo delle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite Jean-Pierre Lacroix, ha detto che per il momento “l’Unifil rimarrà in tutte le sue posizioni”.
Ufficialmente Israele sta conducendo un’inchiesta sugli incidenti, ma sembra un semplice paravento per nascondere il fatto che Tsahal vuole arrivare al ritiro della forza ONU per avere mano libera.
Netanyahu e i suoi ministri sanno che la missione ONU è resa intrinsecamente fragile dal fatto che gli scopi e le regole d’ingaggio della forza internazionale possono essere cambiate solo passando attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove tutto è condizionato da potenziali veti di Russia o Cina. Caschi blu italiani hanno intanto trovato ordigni esplosivi incendiari posizionati lungo la strada presso la base ONU UNP 1-32A. I nostri soldati hanno bonificato la zona anche se uno degli ordigni è esploso, senza danni.
La posizione del migliaio di militari italiani in Libano è assai delicata e, a tale scopo, il 15 ottobre è stato divulgato un colloquio fra il capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, generale Luciano Portolano (già comandante di Unifil), e il suo omologo israeliano, generale Herzl Halevi: “I due hanno discusso dei recenti eventi operativi, della situazione della sicurezza e delle sfide associate. Tra queste, hanno affrontato lo sfruttamento da parte di Hezbollah delle aree in cui si trovano posizioni e postazioni UNIFIL per le sue attività terroristiche contro lo Stato di Israele”.
La campagna israeliana in Libano è pesante e il 15 ottobre le forze ebraiche hanno diramato di aver colpito in 24 ore “200 obiettivi di Hezbollah, tra cui lanciarazzi e posizioni anticarro in Libano”, inoltre “decine di miliziani sciiti” sono stati uccisi negli scontri di terra.
L’escalation è ancora graduale, anche perché se l’ingresso delle truppe ebraiche in Libano è stato frenato dalla volontà di contenere le perdite, e di farsi precedere dal rullo compressore delle incursioni dal cielo, la stessa Hezbollah ha mantenuto probabilmente il grosso delle sue forze intatte.
Naim Qassem, numero due di Hezbollah, ha dichiarato il 15 ottobre, parlando alla tv Al Manar: “Visto che il nemico israeliano prende di mira tutto il Libano, ora attaccheremo ogni punto di Israele, al nord, al sud, al centro”.
Ma ha anche aperto alla possibilità di un cessate il fuoco collegato con Gaza, a conferma del fatto che il ruolo di Hezbollah sembra sussidiario rispetto all’origine stessa del conflitto: “Sto dicendo agli israeliani che la soluzione è smettere di sparare. La soluzione è un cessate il fuoco. Dopo un cessate il fuoco, i coloni israeliani potranno tornare al nord. La resistenza non sarà mai sconfitta perché sono loro a possedere la terra. Combatteranno e moriranno con dignità. La vittoria arriverà con pazienza”.
Il 18 ottobre il capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi, parlando con i comandanti della Brigata Golani, ha affermato che le forze israeliane hanno ucciso 1.500 miliziani di Hezbollah – secondo una stima prudente – da quando Israele ha intensificato gli attacchi. “Abbiamo eliminato il loro intero livello di comando. Voi state eliminando i comandi locali. Il gruppo terroristico continua a ridursi e a ridursi. Hezbollah nasconde le perdite, nasconde i comandanti morti. I miliziani continuano ad arrendersi: questo la dice lunga sul loro morale e sul livello dei combattimenti”.
Lo stesso giorno Hezbollah ha annunciato di aver lanciato un attacco contro una base militare in Israele, impiegando uno “sciame di droni carichi di esplosivi”. L’attacco ha preso di mira una base di difesa aerea situata a est di Hadera, nel centro di Israele, e che l’operazione è stata dedicata alla memoria di Hassan Nasrallah.
Il 19 ottobre un drone lanciato da Hezbollah è sfuggito alla difesa aerea ed è esploso a Cesarea, quanto pare contro la casa (o nelle vicinanze) di Netanyahu. Dopo l’attacco fallito, (il premier e la moglie non erano in casa) un alto funzionario del governo israeliano ha puntato l’indice contro Teheran, affermando che “l’Iran ha cercato di eliminare il primo ministro di Israele”.
Teheran ha però fatto sapere che l’azione è stata intrapresa dagli Hezbollah libanesi. L’attacco contro la residenza di Netanyahu, secondo l’emittente Channel 12, è stato eseguito da uno Ziyad 107, lo stesso drone utilizzato da Hezbollah per colpire la base di addestramento della Brigata Golani a Regavim, costato la vita ad almeno quattro militari.
Obbiettivo Iran
Se anche la guerra in Libano potesse potenzialmente terminare grazie a un doppio compromesso, relativo anche a Gaza, ciò che allontana questa ipotesi è il rischio che nel frattempo sul piatto della bilancia si aggiunga la rappresaglia israeliana.
Della quale s’è avuto un primo timido assaggio, quasi un tentativo di sondare il terreno, il 12 ottobre. Quel giorno, un’ondata di attacchi informatici s’è abbattuta su uffici governativi dell’Iran e anche sui centri di ricerca nucleare. Oltre a malfunzioni dei computer s’è anche avuta la violazione di banche dati. Il cyberattacco, di probabile origine israeliana, doveva essere volto a carpire gli ultimi aggiornamenti sulla situazione dei potenziali bersagli, nonché delle difese aeree iraniane.
Così ne ha parlato l’ex segretario del Consiglio supremo iraniano per la sicurezza informatica, Abolhassan Firouzabadi, principale fonte sull’evento: “Quasi tutti i settori del governo iraniano, la magistratura, la legislatura e l’esecutivo, sono stati colpiti da questi attacchi informatici. Di conseguenza, sono state rubate anche informazioni importanti. Anche i nostri impianti nucleari e le reti critiche come la distribuzione del carburante, i servizi municipali, i trasporti e i porti sono stati oggetto di attacchi informatici. Questi incidenti sono solo una piccola parte dei tanti diffusi in tutto il Paese”.
Dopo giorni di consultazioni con gli Stati Uniti, Israele avrebbe ormai assicurato che “non colpirà centri nucleari e petroliferi iraniani”, come reazione ai missili sparati da Teheran il 1° ottobre, come confermava il 15 ottobre l’Associated Press. Ciò non toglie che la rappresaglia “ci sarà presto e sarà precisa e letale”, stando al ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant.
Un possibile compromesso sottobanco Teheran-Washington, per il tramite di alleati e neutrali allo scopo di spingere gli americani a moderare Israele emergeva già il 12 ottobre, quando la CNN, da varie indiscrezioni indicava cui Teheran starebbe facendo un lavoro sotterraneo per far sì che gli USA convincano Israele a non toccare la capitale e gli impianti petroliferi.
Anche gli stati del Golfo, in primis l’Arabia Saudita, non vogliono che vengano bombardati i pozzi iraniani, per evitare scompensi sul mercato del greggio. E anche, probabilmente, per evitare che gli iraniani, se messi troppo con le spalle al muro, blocchino lo stretto di Hormuz imbottigliando le petroliere che portano gran parte del greggio mondiale.
Il 5 ottobre la CNN ha fatto trapelare indiscrezioni da “un alto funzionario del Dipartimento di Stato USA” secondo cui “Israele non ha dato all’America alcuna garanzia che non colpirà installazioni del programma nucleare iraniano”.
E ha aggiunto: “Difficile dire se lo stato ebraico userà l’anniversario dell’attacco di Hamas. Penso vorrebbero evitarlo. Secondo la mia stima, se c’è qualcosa, sarà prima o dopo”. I fatti hanno poi dimostrato che lo stato ebraico ha inteso attendere e procrastinare la data di una rappresaglia, previa intesa con gli Stati Uniti, in modo da non infiammare la regione.
Inizialmente Washington preferiva “un raid su installazioni petrolifere, anziché atomiche”. Ma il presidente Joe Biden ha rettificato: “Penserei ad alternative ai pozzi di petrolio”.
Colpire centri nucleari porta l’incognita delle fughe radioattive. Ma se nel mirino ricadono pozzi o raffinerie, oltre all’inquinamento, si rischiano forti turbative del mercato globale del greggio.
E’ arrivato in Israele, per consultazioni, il comandante del Centcom, il comando USA per il Medio Oriente, generale Michael Kurilla. Fra i bersagli potenziali dei caccia F-35I Adir israeliani, quando non dei missili Popeye, in versione convenzionale, imbarcati sui sottomarini classe Dolphin, ci sarebbero gli impianti d’arricchimento dell’uranio di Natanz e Fordow, scavati in bunker sotterranei, ma raggiungibili dalle bombe “bunker buster” fornite a Israele dagli americani, come la GBU-28 in grado di penetrare nel sottosuolo per 50 metri e forare 5 metri di cemento armato prima d’esplodere.
Fra altri obbiettivi, i reattori di ricerca di Teheran, Arak e Isfahan. Meno probabile la centrale di Busher, usata per produrre elettricità, a meno che non la si reputi un obbiettivo facile e poco protetto.
Nel mirino anche Parchin, base militare che ospita ricerche per l’adattamento di un ordigno nucleare a una testata imbarcabile su missili e dotata di un efficiente detonatore. Senza contare le miniere di uranio, Israele ha l’imbarazzo della scelta. E ancor più nel caso del settore petrolifero.
Pozzi e giacimenti di gas sono raggruppati soprattutto nella parte occidentale dell’Iran, come anche le 8 principali raffinerie.
Gli oleodotti, specie quelli che s’incrociano a Teheran da Tabriz, Isfahan e Arak, sono pure vistosi e vulnerabili. Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, in visita in Siria, ha ammonito che “la nostra risposta a ogni aggressione israeliana sarà più forte e più dura”.
Ma l’aviazione ebraica da anni s’addestra a raid sui centri nucleari iraniani. I piani sono pronti a scattare in ogni momento. Israele ha ampia esperienza in azioni simili.
Nel 1981 i suoi caccia distrussero il reattore nucleare iracheno di Osirak, segnando la fine del sogno atomico di Saddam Hussein. Nel 2007 gli F-15 ebraici centrarono anche il reattore nucleare siriano di Dir Al Zur, a cui collaborava la Corea del Nord. Azione appoggiata dal Mossad con spie sul terreno che illuminarono con laser i bersagli per le bombe a guida laser sganciate dagli aerei.
Nell’attesa di un’incursione aerea israeliana, Teheran punta sulla deterrenza minacciando nuovi attacchi per scoraggiare l’avversario. L’8 ottobre il giornale iraniano Kayhan ha scritto che, in caso di raid, “prima che gli aerei israeliani riescano a raggiungere lo spazio aereo iraniano, i missili iraniani raderebbero al suolo Tel Aviv e Haifa in meno di 10 minuti”.
Riferimento ai missili iraniani con velocità ipersonica, superiore a 5 volte la velocità del suono (da 6000 km/h in su), Fattah e Kheibar Shekan.
Ci si vantava che “il comandante dell’Aeronautica dei pasdaran, generale Amir Ali Hazijadeh, ha ancora il dito sul grilletto”, poiché i missili del 1° ottobre sarebbero solo “l’inizio di operazioni più ampie per distruggere il regime sionista”. Chiaramente può essere solo propaganda, anche perché a metà ottobre l’Iran era impegnato in un lavorio diplomatico per evitare un attacco.
Che nella narrazione della deterrenza, per far credere che l’ex-Persia sia più forte di quanto sia, entra anche il sospetto di una sorta di incerto “limbo” nucleare. C’è chi sospetta infatti che l’Iran sia più vicino all’arma atomica di quanto previsto. Si discute su ciò che pare essere stato un terremoto di magnitudo 4,6 verificatosi il 5 ottobre vicino Aradan, nella provincia iraniana di Semnan, a una profondità stimata di 10 chilometri.
Sisma che gli esperti, compresa la società geologica americana US Geological Survey (USGS), hanno notato privo delle onde di compressione dei terremoti naturali. Ciò ha fatto pensare potesse essere una prova segreta di un’atomica detonata negli “inferi”. Le massime perforazioni note si spingono a 10-12 chilometri di profondità ed è teoricamente possibile che gli iraniani, magari potenziando tecnologie petrolifere, possano averla raggiunta. Inoltre la stima di 10 km, comune a molti terremoti, è indicativa, basandosi su prove indirette come la propagazione delle onde.
La Foundation for Defense of Democracy di Washington già dal 2019 accenna a un progetto iraniano, il Progetto Midan, relativo allo scavo di pozzi profondissimi per testare, dapprima esplosivi convenzionali, per testare sistemi di rilevamento, poi ordigni nucleari.
All’inizio del 2024 l’agenzia internazionale atomica AIEA stimava che l’Iran potesse impiegare un paio d’anni per realizzare una vera testata nucleare imbarcabile su missili, ma pochi mesi per un ordigno sperimentale.
Il semplice sospetto, ammesso e non concesso, che gli iraniani abbiano provato un ordigno nucleare sottoterra senza rivelarlo, pare speculare alla stessa dottrina della deterrenza israeliana, basata sulla segretezza dell’arsenale nucleare ebraico e sull’incertezza della forza dell’avversario. Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha detto che “l’Iran è pronto a qualsiasi scenario e le sue forze sono completamente preparate, avendo individuato gli obbiettivi necessari”.
Lo ha dichiarato visitando Riad per parlare coi sauditi della guerra, anche per mostrare a Israele che, dopo la parziale riappacificazione fra Iran e Arabia Saudita, mediata nel 2023 dalla Cina, non potrebbe contare sulla rivalità fra la potenza sciita e quella sunnita.
Il presidente iraniano Masoud Pezehskian ha annunciato che s’incontrerà col russo Vladimir Putin domani ad Ashkabad, in Turkmenistan. Seguirà un nuovo summit Putin-Pezeshkian già tra 22 e 24 ottobre, al vertice dei paesi Brics a Kazan, in Russia. Teheran cerca di non mostrarsi isolata e la stessa agenzia di stampa Tasnim comunica che l’Iran rinforzerà i legami con tutti i suoi alleati in Medio Oriente creando “una struttura di difesa comune i cui membri siano obbligati a sostegno reciproco in caso di attacchi da parte di Israele o degli USA”.
L’11 ottobre, comunque, l’Iran ha anche minacciato i vicini, in un’alternanza fra bastone e carota. Secondo fonti arabe riportate dal Wall Street Journal, Teheran ha avvisato tramite canali riservati i paesi vicini, in particolare Giordania, Emirati, Arabia Saudita e Qatar che potrebbe attaccarli, magari nelle strutture petrolifere, se non chiuderanno i rispettivi spazi aerei all’aviazione israeliana quando si verificherà l’incursione.
L’Iran, tuttavia, anche se coperto da paesi confinanti dal lato dei confini occidentali, si affaccia sul Mare Arabico per un largo tratto. Israele può quindi colpirlo da Sud, dal mare, con missili lanciati dai suoi sottomarini classe Dolphin, solitamente missili Popeye che possono avere testata nucleare ma anche convenzionale.
Inoltre, seppure molto laborioso, potrebbe organizzare una missione a lunga autonomia per i suoi F-35 con rifornimento in volo, facendo sorvolare loro tutto il Mar Rosso fino a deviare sul Mare Arabico.
Foto: IDF, UNIFIL, EPA, Tasnim, IRNA, Lockheed Martin, Al Manar e Ansar Allah
Mappe: Institute for the Study oh the War e EIA
Mirko MolteniVedi tutti gli articoli
Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.