Negoziati per la pace in Ucraina tra malintesi diplomatici e strategia del tempo

A seguito dello svolgimento del summit in Alaska tra Donald Trump e Vladimir Putin, la testata giornalistica Reuters ha pubblicato le proposte che quest’ultimo avrebbe presentato al presidente statunitense quali elementi fondanti della prosecuzione dei negoziati.
La fonte di tale rivelazione sembrerebbe essere stata proprio la delegazione statunitense e non si tratterebbe quindi di indiscrezioni carpite dalla stampa. Vale quindi la pena elencarle e commentarle, nell’ordine presentato dalla citata testata, poiché credo che non ci sia alcun dubbio sul fatto che si tratti dell’ipotesi di lavoro in riferimento alla quale Stati Uniti ed Europa stanno cercando di elaborare una via d’uscita dal conflitto. Ipotesi che però come presto vedremo, potrebbero essere non del tutto reali.
Non è previsto alcun cessate il fuoco prima della firma di un accordo completo.
Nel corso dei colloqui il cancelliere tedesco Merz ha sostenuto la necessità, più volte sostenuta dai “volenterosi” di cessare le ostilità prima di ulteriori negoziati con la Russia, ma Trump non ha accolto la richiesta poiché si tratta di un aspetto dirimente per i russi che hanno sempre visto nella proposta europea il pretesto per schierare truppe NATO in territorio ucraino direttamente al confine con la Russia, il che è in contrasto con una delle principali ragioni per cui la Russia combatte questo conflitto esistenziale. Gli USA, su questo, sembra abbiano compreso che non ci sono spazi di manovra.
Le forze armate ucraine si ritireranno dalle regioni di Donetsk e Luhansk; la Russia congelerà le linee del fronte nelle regioni di Kherson e Zaporizhia e restituirà il controllo delle aree nelle regioni di Sumy e Kharkiv all’Ucraina
Si tratta dell’annosa questione della cessione dei territori, uno degli aspetti principali dei negoziati sui quali Kiev (o meglio, Zelensky) è irremovibile, ma c’è qualcosa che non torna. Infatti, se fosse vero, si tratterebbe di un sostanziale allontanamento dalle precedenti richieste della Russia. È difficile da credere, tuttavia, perché Putin ha già incluso i confini amministrativi sia di Zaporizhia che di Kherson nella costituzione russa e non risulta che Mosca abbia emendato il cosiddetto “Piano di Istanbul” al riguardo.
Anche dal punto di vista militare ci sarebbero evidenti incongruenze. In particolare, l’Oblast di Kherson costituisce la via di accesso per Odessa via Mykolaiv. È difficile pensare che i russi non abbiano un disegno operativo al riguardo nel contesto di un’eventuale ripresa del conflitto nel lungo termine. Per ciò che riguarda Donetsk e Luhansk, è indubbio che la cessione della rimanente parte del Donbass costringerebbe Kiev a rinunciare alla cintura di formidabili fortificazioni che per undici anni è stata destinata a contenere la Russia e Putin le acquisirebbe senza spendere un solo soldato. Ma è anche vero che l’Ucraina dispone oramai di ben pochi mezzi e, soprattutto, soldati per utilizzare quelle linee difensive e conquistarle, per Mosca, è solo questione di tempo.
È anche difficile credere che Mosca rinunci ai successi ottenuti nei settori di Sumy e Kharkiv, ritenuti indispensabili per garantire profondità a quella fascia di sicurezza a ridosso del confine russo ucraino che possa evitare future “incursioni” come quella di Kursk. Dunque, cosa sta succedendo? Probabilmente la Russia sa che nessun accordo potrà mai essere raggiunto e quindi sta prendendo tempo fingendo concessioni per influenzare Trump e trasferire la responsabilità di un mancato accordo sull’Ucraina e sull’Europa.
Oppure, secondo quanto riportato da un’impietosa e recentissima inchiesta del Washington Post sarebbe stato semplicemente l’incapacità dell’inviato di Trump, Steve Witkoff, di riportare con esattezza le posizioni dei russi al riguardo ingenerando ambiguità e incomprensioni.
Al momento, sarebbe da escludere il punto di vista di alcuni analisti secondo i quali è possibile che Trump e Putin abbiano fatto un accordo segreto per fingere che la Russia sia disposta a fare concessioni al fine di intrappolare reciprocamente Zelensky per far apparire lui e gli europei come gli oppositori della pace, in modo che Trump possa poi esercitare un maggiore margine di manovra politica scaricando il fallimento dei negoziati su di loro.
Troppo sofisticato. Tra l’altro, i russi hanno prontamente scaricato Witkoff puntualizzando il fatto che si erano dati disponibili a congelare il conflitto a sud, confermando la richiesta della cessione da parte ucraina del Donbass, ma senza nulla in cambio.
Inoltre, bisogna ricordare che Zelensky è considerato dalla Russia legalmente illegittimo il che presumerebbe da parte di Mosca che qualsiasi finalizzazione degli accordi dovrebbe comunque attendere un successore riconosciuto.
E in tal caso, la Russia è fiduciosa di aver già conquistato la maggior parte delle regioni contese al centro delle “concessioni”. Di fatto, la prospettiva di nuove elezioni in Ucraina si stia velocemente concretizzando. Secondo la giornalista statunitense Katy Livingston, citata dal quotidiano Ukraine Today, l’ex comandante in capo delle forze armate ucraine, l’ambasciatore dell’Ucraina nel Regno Unito, Valeriy Zaluzhny, ha istituito a Londra un quartier generale della campagna elettorale e ha iniziato a prepararsi segretamente per le prossime elezioni presidenziali per opporsi direttamente a Zelensky.
La notizia è stata pubblicata quasi contemporaneamente a quella del quotidiano britannico “Daily Express”, secondo il quale il Regno unito avrebbe firmato un memorandum con l’Ucraina per “supervisionare” le elezioni post-belliche.
Si prevede che Londra svolgerà un ruolo nell’organizzazione del voto all’estero, nel controllo del finanziamento della campagna e nella sicurezza sia dei candidati che delle attività di voto. L’articolo sottolinea anche che il tema principale della campagna elettorale sarà quello del timore di interferenze russe nel processo elettorale.
Dunque, si tratterà di attendere (mesi?) l’organizzazione della campagna elettorale, gli esiti del voto, l’uscita di scena di Zelensky e l’insediamento dell’oramai unico candidato credibile, uomo di Londra. Se la trazione del nuovo governo di Kiev sarà britannica, come d’altronde sembra oramai evidente, dobbiamo attenderci la prosecuzione del confronto con la Russia probabilmente sotto altre forme, ma sostanzialmente conforme alle aspettative russofobe del Paese che guida la coalizione dei “volenterosi”. Tutto ciò non potrà che confermare la strategia del tempo di Putin.
Riconoscimento formale della sovranità della Russia sulla Crimea e annullamento di almeno una parte delle sanzioni
I due temi costituiscono, per Mosca, due facce della stessa medaglia perché strettamente connessi con gli eventi del 2014 in merito ai quali Putin intende chiudere definitivamente la partita. Il piano di pace di Trump, presentato da Steve Witkoff ai colloqui di Parigi dello scorso 17 aprile, prevedeva già il riconoscimento” de jure”, da parte di Washington, della Crimea come “Russia” e il controllo russo “De Facto” di Luhansk, Donbas, Zaporizhia e Kherson.
Inoltre, lo stesso piano prevedeva l’annullamento delle sanzioni poste nel 2014 dagli Stati Uniti. Si tratterebbe di aperture importanti degli Stati uniti alla Russia, con effetti tutt’altro che marginali a favore di quest’ultima.
Togliendo le sanzioni non ci sarebbero più motivi per non commerciare con la Crimea russa e se gli USA iniziassero, alcuni stati europei “non allineati” potrebbero per primi avviare rapporti commerciali ed esercitando pressioni perché anche le sanzioni di Bruxelles non continuino ad essere applicate. Anche dal punto di vista militare ci sarebbero dei benefici: gli Stati Uniti impedirebbero a chiunque (Ucraina per prima) di colpire il nuovo territorio russo. Un vero e proprio paradosso: gli USA garanti della sicurezza del territorio russo. Ma lo hanno capito?
All’Ucraina sarà vietato di aderire alla NATO
È un altro tema esistenziale per la Russia, ed è strettamente connesso con l’aspetto della neutralità dell’Ucraina, sempre presente nell’agenda ufficiale di Mosca. I russi continuano a ribadirlo, e sembra che la posizione russa sia stata ben recepita dalle controparti occidentali.
Nonostante alcune dichiarazioni ufficiali, come quella Segretario generale della NATO Mark Rutte, che indicano il futuro di Kiev nell’Alleanza atlantica, tutti sanno che non è più un punto negoziabile. Questo tema è inevitabilmente legato a quello successivo delle garanzie di sicurezza all’Ucraina.
Apertura a garanzie di sicurezza per l’Ucraina
La disponibilità dei russi a lavorare sulle garanzie di sicurezza per Kiev è stata annunciata da Putin nel corso della conferenza stampa tenuta assieme a Trump a chiusura del vertice di Anchorage ed ha avviato immediatamente la narrativa del successo occidentale.
Il presidente USA ha parlato solo in termini vaghi delle garanzie che sarebbero state fornite dai vari Paesi europei, con un coordinamento con gli Stati Uniti. Ma in precedenza, rivolgendosi ai giornalisti nello studio ovale quando gli è stato chiesto se Washington avrebbe inviato truppe americane in Ucraina come parte di uno sforzo per il mantenimento della pace, Trump non ha risposto direttamente alla domanda, ma ha affermato che gli USA li avrebbero aiutati.
“Saremo coinvolti”, ha detto il leader americano. Il mainstream dell’informazione occidentale ha subito celebrato il successo: se Trump ha offerto garanzie di sicurezza a Kiev significa che le relazioni transatlantiche sono salve e che la Russia ha fallito nel tentativo di dividere l’occidente.
In realtà il coinvolgimento americano è ancora molto vago a sembra proprio che l’impegno di Zelensky di acquistare circa 100 miliardi di dollari in armi americane pagate da noi europei sia servito fondamentalmente per “comprare” una generica dichiarazione dell’attenzione di Washington. Anche in questo caso vale la pena ricordare che, secondo il già citato piano di pace USA del 17 aprile, le garanzie di sicurezza per l’Ucraina sarebbero state fornite unicamente da un contingente militare di stati europei che potevano essere integrati dalla partecipazione volontaria di stati non europei. Opzione, quest’ultima, non più comparsa nelle discussioni per i motivi già commentati.
Tuttavia, nelle ultime ore è emersa la questione della protezione che si ispirerebbe alla clausola della difesa collettiva della NATO (il famoso articolo 5). L’affermazione di Steve Witkoff secondo cui Putin avrebbe accettato che gli Stati Uniti offrano all’Ucraina “protezione simile all’articolo 5” durante il vertice di Anchorage, che Trump ha ribadito durante il suo vertice alla Casa Bianca con Zelensky e alcuni leader europei, solleva la questione di quale forma potrebbe ipoteticamente assumere se fosse vera.
In realtà i russi hanno rispedito al mittente anche questa ipotesi di lavoro che sembrerebbe essere un’altra fantasia di Witkoff. Quest’ultimo ha detto al Washington Post Eric Ciaramella, ex consigliere per l’Ucraina durante il primo mandato di Trump e ora analista presso il Carnegie Endowment for International Peace. “ha chiaramente frainteso ciò che i russi stavano offrendo in Alaska in termini di garanzie di sicurezza.
Witkoff ha ulteriormente confuso tutti dicendo che la garanzia sarebbe modellata sull’Articolo 5 della NATO, ma senza un impegno americano a intervenire in difesa dell’Ucraina. Beh, questa è l’essenza dell’articolo 5, quindi di cosa stiamo parlando?”
Nel frattempo, The Guardian riferisce che il Ministro degli esteri russo Lavrov, ha affermato che la Cina, alleata della Russia nella guerra, dovrebbe essere tra i garanti della sicurezza dell’Ucraina, rilanciando una proposta avanzata per la prima volta dai negoziatori russi durante i colloqui in Turchia nella primavera del 2022, quando fu redatto e concordato il piano di pace successivamente sabotato da Boris Johnson e Joe Biden.
La proposta è stata respinta da Zelensky che ha sottolineato come le garanzie di sicurezza debbano essere offerte dalle nazioni che hanno sostenuto l’Ucraina in guerra.
“Non abbiamo bisogno di garanti che non aiutano l’Ucraina e che non hanno aiutato nel momento in cui era veramente necessario. Abbiamo bisogno solo di garanzie di sicurezza da quei paesi che sono pronti a sostenerci”, ha dichiarato Zelensky.
Status ufficiale della lingua russa in alcune parti dell’Ucraina (o in tutta l’Ucraina), nonché il diritto della Chiesa ortodossa russa di operare liberamente
Zelensky ha appena rifiutato di cambiare lo status della lingua russa in Ucraina. “Abbiamo una lingua di stato, l’Ucraino. I russi possono dire quello che vogliono. Credo che facciano tali ultimatum per complicare il processo di negoziazione”, ha dichiarato il presidente ucraino nel corso di una recente intervista ad una emittente televisiva ucraina.
Inoltre, alla fine del mese di agosto dello scorso anno, nel giorno dell’indipendenza dell’Ucraina, ha firmato un disegno di legge che vieta i gruppi religiosi legati alla Russia. L’obiettivo principale del disegno di legge è la Chiesa Ortodossa ucraina che è stata storicamente legata alla Chiesa Ortodossa russa, nota anche come Patriarcato di Mosca. Zelensky ha fatto riferimento al disegno di legge nel suo discorso notturno, affermando che “l’ortodossia ucraina oggi sta facendo un passo verso la liberazione dai diavoli di Mosca”.
Anche in questo caso Lavrov, in un’intervista rilasciata alla Società Radio-Televisiva di Stato Russa lo scorso 19 agosto, è stato molto chiaro affermando che “quando a Washington i presidenti e premier europei hanno affermato che è necessario partire dalla formulazione di garanzie di sicurezza per l’Ucraina, e poi per l’Europa, nessuno ha menzionato una sola volta la sicurezza della Russia. Se non si rispettano gli interessi di sicurezza della Russia, se non si rispettano a pieno titolo i diritti dei russi e dei russofoni che vivono in Ucraina, non si può parlare di alcun accordo a lungo termine: proprio queste, infatti, sono le cause del conflitto che vanno tempestivamente eliminate nel contesto di una risoluzione”.
Come a dire che i due aspetti della lingua e della religione non sono affatto marginali, ma direttamente connessi con le questioni esistenziali dell’identità della Federazione russa e. E si ritorna al punto di partenza. Usando la metafora del Monopoli: “andate in prigione senza passare dal via”.
Quali conclusioni possiamo trarre dalla nostra analisi? Certamente di una grande confusione da parte degli Stati Uniti, confermata dalla citata inchiesta del Washington Post secondo la quale “Trump e i suoi principali consiglieri non sono riusciti a cogliere gli elementi centrali delle posizioni di Putin in Ucraina, che rimangono in gran parte invariate da quando la Russia ha lanciato un’invasione su vasta scala nel paese tre anni fa”.
Diversi esperti di politica estera, secondo gli autori dell’articolo, avrebbero affermato di essere preoccupati che le decisioni della Casa Bianca si basino su desideri irrealizzabili.
“C’è una linea retta tra le richieste fatte in Alaska e ciò che i negoziatori russi hanno messo sul tavolo a Istanbul nell’aprile 2022″ e le posizioni del Cremlino non sono fondamentalmente cambiate”. La valutazione dell’amministrazione Trump sulla disponibilità di Mosca a fare concessioni ha allarmato gli analisti di politica estera, preoccupati che i consiglieri del presidente, che non hanno avuto a che fare con il Cremlino durante la maggior parte della guerra, non abbiano compreso gli elementi principali di ciò su cui Putin insisteva.
Sempre secondo l’impietosa analisi del quotidiano statunitense, Trump ha rifiutato le tradizionali agenzie di sicurezza nazionale del governo, affidandosi invece a una piccola cerchia di consiglieri con un’esperienza limitata in politica estera.
Ha delegato gran parte dei negoziati a un amico di lunga data, Steve Witkoff, che lavorava in gran parte nello sviluppo immobiliare prima della decisione del presidente di nominarlo inviato in Medio Oriente e in Russia. “Trump ha schierato Witkoff in negoziati in conflitti complessi senza un grande staff”, ha detto James Rubin, ex consigliere del segretario di Stato di Biden Antony Blinken citato nell’articolo.
“Non l’ha mai fatto prima”. Ha chiaramente la fiducia di Trump, ma il presidente stesso ha mostrato dilettantismo pensando di poter porre fine a questa guerra in 24 ore, pensando che il rapporto personale di Putin con lui conti qualcosa.
Witkoff su Fox News ha descritto Trump come un leggendario negoziatore in possesso di “una straordinaria capacità di piegare le persone al suo modo di pensare sensato”. Sarà, ma quando in un’intervista gli hanno chiesto se ci fosse un metodo per i suoi negoziati con l’Ucraina e la Russia ha risposto affermando “ho un istinto, sai, e ho vissuto con il mio istinto”.
E, a giudicare dalla condotta dei negoziati, sin dall’insediamento della nuova amministrazione negli Stati Uniti, sembra proprio che l’istinto non sia sufficiente, non solo a porre fine al più devastante conflitto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, ma ad immaginare la futura architettura di sicurezza del nostro Continente.
Leo Tolstoy in “Guerra e Pace” faceva dire al principe Andrei: “I più forti di tutti i guerrieri sono questi due: il tempo e la pazienza”. Due elementi che ai russi non sono mai mancati e che ancora oggi giocano a loro favore, di fronte alle scarse capacità e agli “istinti” dei loro avversari.
Foto: Presidenza Russa, Presidenza Ucraina, TASS e ISW
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Maurizio BoniVedi tutti gli articoli
Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.