Cupola d’Oro: il nuovo “scudo” statunitense contro i missili balistici

Confermando la sua predilezione per ambiziosi progetti aerospaziali, già dimostrata nel suo primo mandato mediante la fondazione, nel 2019, della US Space Force, il presidente americano Donald Trump vuole legare indissolubilmente il suo secondo mandato al conseguimento di uno storico obbiettivo, ovvero dotare il Nordamerica di uno scudo antimissile teoricamente impenetrabile ed esteso su tutto il territorio.
Lo ha annunciato fin dai primi mesi del 2025, chiamandolo, con una delle sue trovate propagandistiche “Golden Dome”, “Cupola d’oro”, in modo da evocare idealmente l’Iron Dome israeliano, etichetta sotto cui Trump intende complessivamente tutto il sistema combinato di difesa a strati che assicura a Israele una copertura pressoché totale del suo territorio.
Ma se Israele è una piccola nazione, relativamente facile da proteggere, per un’America di dimensioni continentali la sfida è ardua. Perciò uno dei cardini sarà, pare, la messa in orbita di una rete di “intercettori basati nello spazio” che costituiranno la linea di difesa più avanzata, potendo sorvolare ogni parte del globo e colpire i vettori nemici nella fase iniziale, ascendente, del loro volo.
Altrettanto ardua sarà la sfida sotto il profilo della rapidità di sviluppo dello scudo che Trump vuole anche presentare come la concretizzazione dell’SDI sognato da Ronald Reagan quarant’anni fa. Il presidente punta ad arrivare a un primo test operativo “entro la fine del 2028”, per sfruttarne il risultato tecnico nella prossima campagna elettorale per la Casa Bianca.
Si capirà allora se davvero il programma Golden Dome sarà davvero stato impostato seriamente come una sorta di “nuovo progetto Manhattan”, con mobilitazione di centinaia di aziende aerospaziali, oppure se si sarà rivelato solo un bluff o, più semplicemente, uno dei classici “passi più lunghi della gamba”.
Da quando si è reinsediato alla Casa Bianca di Washington, nel gennaio 2025, per il suo secondo mandato, il presidente statunitense Donald Trump ha messo in bella mostra nello Studio Ovale un grande ritratto di un suo illustre predecessore, Ronald Reagan, che guidò gli USA per due mandati consecutivi dal 1981 al 1989.

Egli pose le basi per la sostanziale vittoria incruenta degli americani nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica e lasciò in eredità al partito repubblicano quello stile decisionista che ne ha fatto agli occhi di Trump un idolo e un modello al pari di un altro grande “uomo forte” della federazione nordamericana, quel Theodore “Teddy” Roosevelt, inquilino della Casa Bianca dal 1901 al 1909, alle cui linee strategiche, specie in fatto di rivendicazioni territoriali nell’emisfero delle due Americhe, l’attuale presidente mostra pure di ispirarsi.
Dagli eventi degli ultimi mesi ben si capisce che Trump intende presentarsi erede di Reagan in particolare nel realizzare il vecchio sogno di uno scudo antimissile integrale per fermare ordigni nucleari diretto sul Nordamerica. L’attuale presidente USA vuole presentarsi come colui che realizzerà ciò che sotto Reagan era rimasta un’idea limitata a studi sulla carta e a esperimenti nei laboratori, ma senza applicazioni pratiche.
Di fatto, è noto che il programma SDI, Strategic Defense Initiative, annunciato nel 1983 da “Ronnie”, fu in sostanza un bluff strategico per convincere l’Unione Sovietica di aver perduto la sua deterrenza atomica, insinuando a Mosca il sospetto che gli americani sarebbero stati presto in grado di eludere la minaccia dei missili sovietici. I russi furono così spinti a dissanguare ulteriormente la loro disastrata economia comunista per un’impossibile rincorsa, accelerando la crisi interna che portò nel 1991 al collasso dell’URSS.
Architettura complessa
Trump, che già nel 2019 ha dimostrato notevole interesse per il teatro di guerra spaziale fondando le US Space Forces, USSF, come forza armata indipendente dedicata alle operazioni al di fuori dell’atmosfera terrestre, ha evocato vagamente il progetto di una difesa antimissile continentale nella campagna elettorale del 2024.
Mantenendo l’impegno, fra i suoi primi atti da presidente neo-eletto, il 27 gennaio 2025 ha firmato il decreto che impegna il Dipartimento della Difesa (ora ribattezzato “della Guerra”) a sviluppare uno scudo antimissile che, inizialmente è stato chiamato “Iron Dome for America”.
Era evidente fin dal principio il richiamo propagandistico allo scudo antimissile di Israele, sebbene l’espressione Iron Dome si applichi in realtà a uno solo, per giunta quello di bassa quota, dei segmenti delle difese antiaeree antimissile multistrato della nazione ebraica.
Passando per buona l’estensione approssimativa, in senso lato, della definizione Iron Dome all’intero “ombrello” di Israele, Trump ha voluto significare l’ambizione di proteggere l’America del Nord con uno scudo altrettanto fitto e integrale di quello ebraico, dando l’illusione che si potesse semplicemente “pantografare” su scala continentale soluzioni il cui successo è dovuto anche alla facilità di coprire una nazione molto piccola come Israele.

In verità, le analogie con l’lron Dome sono vaghissime poiché il fattore più importante del progetto americano è costituito dall’idea di dislocare in orbita in modo permanente non solo satelliti con sensori, ma anche veri e propri satelliti intercettori, idealmente armati con piccoli missili ipersonici, che possano ingaggiare e distruggere i vettori nemici fin dalla fase ascensionale della loro traiettoria, la “boost phase” come dicono gli anglosassoni.
Ciò per evidenti vantaggi di varia natura. Anzitutto, gli intercettori in orbita costituirebbero la più avanzata linea di difesa, quella su cui più si appunterebbero le speranze di Washington, per fermare il maggior numero di missili avversari il più lontano possibile dalle frontiere statunitensi, magari perfino nella stessa porzione di cielo, stratosferico o esoatmosferico, del paese aggressore, o vicino a esso. Inoltre, la fase ascensionale offre, di risulta, una maggior visibilità ai sensori, dato che rappresenta l’inizio del volo balistico del missile, in cui i motori del primo e secondo stadio del razzo sono in funzione e il loro fiammeggiare offre una magnifica traccia termica all’infrarosso.
Per giunta, all’inizio del volo le eventuali testate ipersoniche dei vettori nemici sono ancora racchiuse nell’ogiva e non possono dispiegare i loro vantaggi in termini di velocità estrema, brusche correzioni di rotta per ingannare gli antimissile e, non ultima, la sostanziale “scudatura” di plasma, ossia gas ionizzato ad alta temperatura, che formandosi attorno al guscio della testata ipersonica la scherma dal punto di vista elettromagnetico rendendola di fatto “invisibile” ai radar.
Questo sistema dalla complessa architettura, tuttora molto vaga, è stato per la prima volta definito “Golden Dome”, “Cupola d’Oro” da Trump il 4 marzo 2025, quando ne ha parlato nel suo primo discorso di fronte al Congresso in seduta comune fra Camera e Senato.

Inizialmente si era ipotizzato che i primi finanziamenti dovessero essere attinti dal fondo di 50 miliardi di dollari di risparmio sulle spese militari che il capo del Pentagono Pete Hegseth (nella foto sopra) ha accantonato da tagli in altri settori.
Il 20 maggio Trump ha affidato la supervisione del programma al generale Michael Guetlein, vicecapo delle operazioni spaziali della US Space Force e contemporaneamente, è stato preventivato un costo di 175 miliardi di dollari, con test e operatività da raggiungersi nel 2028-2029, entro la fine dell’attuale mandato. In realtà questi obbiettivi, di spesa e di tempistica, sembrano troppo ottimistici, anche tenendo conto dell’eventuale utilizzo di tecnologie già sperimentate.
Il Congressional Budget Office, o CBO, che analizza le spese previste dal bilancio federale, ha stimato la spesa per il Golden Dome spalmata sui primi vent’anni di operatività variabile fra 542 e 831 miliardi, per la maggior parte dovuti alla rete degli intercettori basati nello spazio, o Space Based Interceptors, SBI, sul cui numero nulla si sa e filtrano solo stime comprese tra 1000 e 2000 navicelle spaziali.

Quanto all’entrata in azione di questa difesa integrale, il Center for Strategic and International Studies, CSIS, valuta più realisticamente il 2035 come anno della raggiunta operatività.
Dal 5 al 7 agosto scorsi, a margine di un simposio di esperti sulla difesa antimissile tenutosi al centro Von Braun di Huntsville, in Alabama, il Pentagono e la Missile Defence Agency hanno chiamato a raccolta circa 3.000 aziende del settore aeronautico e spaziale, fra grandi nomi e piccoli e medi subfornitori, per mobilitarle secondo lo slogan “Go fast, think big!”, richiamando uno sforzo degno del progetto Manhattan, la grande mobilitazione scientifica e industriale che dal 1942 al 1945 consentì agli Stati Uniti di realizzare la bomba atomica.
Alla guida del programma per il Golden Dome si candidano i colossi dell’aerospaziale, come Lockheed Martin, Raytheon, Boeing e Northrop Grumman, e dei sistemi elettronici e satellitari, come L3Harris, oltre all’israeliana IAI, che offre collaborazione per ricambiare il generoso aiuto finanziario statunitense che negli anni passati aveva favorito la creazione dell’Iron Dome.
Anche se l’elemento principale, innovativo, del Golden Dome è la rete degli intercettori orbitali tutta da costruire, come linea avanzata, nel sistema verrebbero integrati sistemi più convenzionali, già esistenti o di imminente realizzazione, per gli strati successivi della difesa antimissile.
Infatti, se per la fase terminale delle traiettorie dei vettori nemici ci si affiderà alle ultime versioni dei collaudati Patriot e THAAD, per la fase media, ancora fuori dall’atmosfera ma ormai vicino al territorio metropolitano, ci sono i GBI, Ground Base Interceptor di Raytheon e Boeing, schierati nelle basi di Fort Greely, in Alaska, e Vandenberg, in California. E dopo il 2028 arriveranno i loro sostituti, i nuovi missili NGI, o Next Generation Interceptor, sviluppati da Lockheed con un appalto da 17 miliardi assegnato nel 2024.

Gli NGI rimpiazzeranno gli attuali missili in Alaska e California, ma è prevista anche una nuova base nel Midwest, per coprire il cuore continentale del Nordamerica.
Al Golden Dome sono inoltre collegati gli appetiti di Washington per la Groenlandia, poiché è nella base americana di Pituffik (ex-Thule) che Trump vuole nuovi radar spaziali per coprire il versante artico.
Avanti adagio
Nelle ultime settimane si sono intensificati gli indizi che confermerebbero come il Golden Dome, pure sottotraccia e senza che vengano rivelati dettagli precisi, e prematuri, sulla sua ipotizzata struttura e organizzazione, procede a tappe graduali. In particolare, il 7 ottobre 2025 è stato confermato che la “cupola” comprenderà anche il Canada, riproponendo il concetto di difesa aerospaziale unificata per il Nordamerica che fin dagli anni Cinquanta aveva portato alle barriere radar congiunte USA-Canada nell’Artico e alla costituzione del NORAD, il comando specifico della difesa dei cieli nordamericani.
Nello Studio Ovale della Casa Bianca, infatti, Trump ha ricevuto il premier di Ottawa, Mark Carney, dichiarando: “Una cosa su cui stiamo collaborando molto strettamente è il Golden Dome. E’ un meccanismo protettivo e vedete come lavora, è incredibile! E’ molto importante, se vedete ciò che accade nel mondo. Noi vogliamo avere questa protezione”.
Nelle stesse settimane si sono tuttavia intensificati i moniti da parte di Russia e Cina, che criticando la corsa in avanti unilaterale degli Stati Uniti verso sistemi antimissile di massa, minacciano contromisure affini. Il 22 settembre il presidente russo Vladimir Putin ha legato abilmente la questione al nodo del rinnovo del trattato New START, quello che limita vettori e testate nucleari strategici di Russia e America e che scade nel febbraio 2026.

ll capo del Cremlino ha fatto capire che Mosca è disposta a proseguire l’osservanza dei limiti del New START, ovvero 1550 testate e 800 vettori per parte, solo a patto che gli USA non romperanno l’equilibrio. Ha detto Putin: “La Russia è pronta, dopo il 5 febbraio 2026, a continuare a rispettare le restrizioni del trattato New START.
Ma solo se gli Stati Uniti agiranno in maniera analoga e non prenderanno misure che minino o violino l’attuale rapporto di capacità di deterrenza”. E poi, affinché non ci fossero dubbi, lo “zar” ha fatto un indubbio riferimento al Golden Dome: “I piani per aumentare le componenti strategiche della difesa missilistica degli Stati Uniti, compreso il posizionamento di intercettori nello spazio, sono destabilizzanti e annullerebbero i nostri sforzi per lo status quo nelle armi strategiche.
Reagiremo di conseguenza”. In altre parole ha evocato possibili corrispettivi di una simile difesa, integrata con il miglioramento delle tecnologie, soprattutto spaziali, di attacco.
Anche i cinesi hanno iniziato a evocare la propria reazione, tanto da parlare già di una sorta di “prototipo” di un loro possibile apparato difensivo simile al Golden Dome americano.
Il 30 settembre, il noto giornale South China Morning Post ha riportato che un team di ricercatori cinesi avrebbe collaudato un sistema di gestione dei big data derivanti dal rilevamento radar di centinaia di oggetti ostili osservati nello spazio circumterrestre.
Gli studi, condotti dall’ingegner Li Xudong del Nanjing Research Institute of Electronics Technology di Nanchino starebbero sfociando in quella che viene definita una “piattaforma big data per il rilevamento e l’allerta precoce distribuita” in grado di tracciare mille obbiettivi contemporaneamente.
Ovvero, in teoria, l’equivalente di un attacco massivo con testate nucleari MIRV sparate da un avversario della stazza degli Stati Uniti. Secondo la stampa cinese, la squadra di ricercatori avrebbe comunicato di essere riuscita a “integrare uniformemente i dati dai nodi di livello superiore dei sistemi di allerta precoce e rilevamento”, ovvero tutti i parametri relativi a “tracciamento del bersaglio, immagini di rilevamento del bersaglio, avvisi di lancio, avvisi di minacce in arrivo e identificazione del bersaglio”.
E così s’è arrivati a “un’aggregazione unificata, una governance e un’applicazione condivisa dei dati” che rende un chiaro e completo quadro della situazione in un contesto di “allerta precoce globale”.
La notizia è stata ripresa il 3 ottobre da Newsweek, che ha persino titolato, un po’ provocatoriamente: “La Cina potrebbe aver battuto gli Stati Uniti nella difesa Golden Dome”.
Ciò era probabilmente anche dovuto alla polemica politica che pure negli Stati Uniti imperversa sulla fattibilità e soprattutto sui costi del progetto. Il 1° ottobre si è tenuta una sessione a porte chiuse della Commissione Forze Armate del Senato americano (United States Senate Armed Services Committee) in cui sono emerse divisioni e perplessità, soprattutto da parte dei senatori democratici.

Secondo Mark Kelly, senatore dell’Arizona ed ex-pilota dell’US Navy: “Questo è un sistema estremamente costoso e tecnicamente difficile. Le sfide di fisica sono enormi e la resa deve essere molto alta. In base alla mia esperienza, sono profondamente scettico. Abbiamo bisogno di più informazioni prima di impegnare centinaia di miliardi di dollari”.
Per il senatore Richard Blumenthal del Connecticut le stime del Pentagono sui costi divergono troppo da quelle di osservatori indipendenti e Tim Kaine della Virginia parla di “questioni irrisolte di budget”. Per la parte repubblicana, il senatore Kevin Cramer del North Dakota ritiene che la stima di 175 miliardi di dollari di costo sia in linea con le previsioni dell’amministrazione Trump, mentre Dan Sullivan dell’Alabama sostiene che occorra accelerare i lavori per il “Dome” passando al più presto possibile a una fase di esperimenti reali anziché simulazioni.
Guetlein fa rapporto
Il generale Guetlein, nominato il 20 maggio da Trump a capo dell’Office of Golden Dome for America e confermato in tale carica dal Senato USA il 17 luglio, ha preparato un primo rapporto sull’inizio del progetto, a cui seguirà un ulteriore aggiornamento attorno a metà novembre.
A quanto si sa, Guetlein ha riferito al Congresso il 15 settembre, delineando lo schema complessivo del sistema, poi il 17 settembre, alla scadenza dei 60 giorni dalla conferma ufficiale del suo incarico, ha presentato un rapporto riservato al vicesegretario alla Difesa Steve Feinberg, che è il più alto funzionario civile del Pentagono a cui Trump abbia affidato la supervisione del programma.

Nulla di sicuro è stato rivelato e una nota del Dipartimento della Guerra ha semplicemente rimarcato: “Il 17 settembre 2025 segna 60 giorni dalla conferma del generale Guetlein e dalla creazione dell’Ufficio del Golden Dome per l’America.
Il Dipartimento della Guerra ha rispettato la scadenza per lo sviluppo iniziale dell’architettura”. Si è solo lasciato intendere vagamente che il programma comprende, oltre a satelliti da rilevamento precoce, anche satelliti intercettori, che in teoria dovrebbero sparare proiettili ipersonici, ma non si esclude possano imbarcare cannoni laser, e missili antimissile con base a terra per gli strati a distanza ravvicinata. Il numero e la tipologia dei satelliti intercettori sono ancora avvolti nel mistero, mentre per quanto riguarda gli intercettori con base a terra circolano ipotesi su “11 batterie missilistiche a corto raggio distribuite tra gli Stati Uniti continentali, l’Alaska e le Hawaii”.
Maggiori dettagli Guetlein dovrebbe darli a metà novembre, in occasione di un nuovo rapporto comprendente “un piano di implementazione” che delineerà meglio la rete satellitare e quella delle basi terrestri.
Qualche mese prima il generale Guetlein si era espresso sulla fattibilità del Golden Dome in occasione del forum Innovate Space: Global Economic Summit, organizzato dalla Space Foundation ad Arlington lo scorso 22 luglio. In tale occasione, l’ufficiale della USSF aveva dichiarato che le tecnologie necessarie alla parte più ambiziosa dello “scudo”, i satelliti intercettori, erano praticamente già disponibili, il che avrebbe favorito il raggiungimento dell’obbiettivo cronologico indicato da Trump, ossia il 2028-2029, suppergiù per la fine dell’attuale mandato presidenziale. Nelle sue parole:
“Credo fermamente che la tecnologia di cui abbisogniamo per consegnare il Golden Dome esista. Non è mai stato affrontato il problema della protezione della patria, né è mai stato affrontato sotto questa forma”.
L’intervento di Guetlein, seppure avaro di dettagli è comunque prezioso perché può dare un’idea precisa del lavoro dietro le quinte e delle problematiche poste dal complesso progetto.
Spiegava il generale, rilevando che i maggiori problemi potrebbero essere più economici e organizzativi che puramente tecnologici: “La vera sfida tecnica è costruire i gli intercettori basati nello spazio. Questa tecnologia esiste. Credo che abbiamo collaudato ogni elemento della fisica che possiamo far lavorare. Ciò che non abbiamo provato è, in primo luogo, posso io realizzarlo economicamente, e in secondo luogo, posso farlo su larga scala? Posso io costruire abbastanza satelliti per arginare la minaccia? Posso io espandere la base industriale abbastanza velocemente per costruire questi satelliti? Ho abbastanza materie prime? Eccetera. Eppure ne abbiamo bisogno, Russia e Cina stanno costruendo missili ipersonici capaci di viaggiare a oltre 6000 miglia all’ora (circa 10.000 km/h) e di manovrare nella fase finale. Stanno costruendo satelliti o armi che sembrano satelliti al momento del lancio, volano attorno alla Terra e possono navigare fino a ogni punto della superficie terrestre che essi vogliano”.

Per Guetlein un simile cimento richiede un lavoro di squadra: “Come posso acquisire capacità che sono state realizzate in ‘tubi da stufa’ (gioco di parole anglosassone che significa il lavorare isolati senza collaborare con gli altri, n.d.r.) per differenti aree di missione, tra servizi differenti, agenzie differenti, e radunarle insieme come un’architettura integrata?”. Secondo Guetlein è necessaria una maggiore condivisione di informazioni fra la Space Force, e in generale il Pentagono, e le aziende private chiamate a concorrere alla “cupola d’oro”, poiché “lo spazio è troppo grande perché la Space Force venga lasciata da sola”.
Al medesimo summit, ha fatto eco al generale della USSF l’amministratrice delegata di Northrop Grumman, Kathy Warden, che ha riferito agli investitori del colosso aerospaziale che la compagnia sta già sperimentando tecnologie utili al Golden Dome: “A parte capacità correnti, come sistemi radar e altri progetti segreti, il Golden Dome includerà innovazioni, come gli intercettori spaziali, che stiamo testando adesso”.
Fra le più recenti novità relative all’avanzare del progetto, interessante è stato, il 2 settembre 2025 l’annuncio di Trump sulla decisione di trasferire il quartier generale dell’US Space Command, il comando integrato americano per tutte le operazioni nello spazio, inteso come quote superiori ai 100 chilometri dalla superficie terrestre, dall’attuale collocazione nella base Peterson della US Space Force a Colorado Spings, nell’omonimo stato del Colorado, ad Huntsville, in Alabama, presso l’Arsenale Redstone.

Là dove in pratica nacque il programma missilistico e spaziale americano, oltre 70 anni fa, grazie agli esperimenti guidati dal genio tedesco Werner Von Braun, reduce, dopo la cattura nel 1945, dai successi con il razzo V-2 del Terzo Reich. Il presidente USA ha così presentato l’importanza del trasferire la sede centrale del Comando Spaziale americano nella Hunstville battezzata “Rocket City”: “Ciò risulterà in oltre 30.000 posti di lavoro in Alabama, e probabilmente anche molti di più, e centinaia di milioni di dollari di investimenti.
Ma, cosa più importante, questa decisione aiuterà l’America a difendere e dominare la ‘altra frontiera’, come la chiamano”. Cioè la frontiera spaziale. Ma Trump ha anche ricordato che Huntsville era stata prevista come sede del Comando Spaziale fin dal suo primo mandato: “Noi avevamo inizialmente selezionato Huntsville come quartier generale per lo Spacecom. Ma questi piani sono stati erroneamente ostacolati dall’amministrazione Biden”.

L’US Space Command, infatti, ha alle spalle una storia articolata. Formato una prima volta nel 1985 per coordinare tutte le attività extraatmosferiche delle forze armate statunitensi, e anche sull’onda dei proclami di Reagan sull’SDI, sopravvisse alla fine della Guerra Fredda ma venne nel 2002 fuso con l’US Strategic Command.
Fu Trump, nel suo primo mandato, a volerne la ricostruzione, nell’agosto 2019, pochi mesi prima che nel dicembre 2019 venisse creata la US Space Force. L’originaria sede di Colorado Springs era da intendersi “provvisoria” e nel 2021 l’US Air Force ribadì in una sua relazione che il trasferimento ad Huntsville sarebbe stato quello ottimale, tuttavia la nuova amministrazione Biden decise nel 2023 di mantenere il quartier generale spaziale alla base Peterson.
Mentre si discuteva su quale potesse essere il reale onere economico per il Golden Dome, il 4 settembre CBS News ha riportato che il Pentagono sarebbe pronto perfino a svendere alcune parti di Camp Pendleton, base dei Marines in California, estesa per 125.000 acri (oltre 500 km quadrati) per ricavare tramite il mercato immobiliare fondi da riutilizzare espressamente per il futuro scudo antimissile.
L’idea è comprovata da una ispezione che in quei giorni è stata fatta nell’enorme base, che occupa anche spiagge utilizzate per le esercitazioni di sbarco, dal segretario alla Marina John Phelan, che ha sorvolato in elicottero vaste zone dell’area. Un portavoce di Phelan, il tenente Courtney Williams, ha riconosciuto che la visita del Navy secretary a Camp Pendleton includeva “conversazioni iniziali su possibili opportunità commerciali per il Dipartimento della Difesa”.
Prove generali?
La fiducia, apparentemente azzardata, che Trump ripone in una realizzazione del Golden Dome relativamente veloce, entro il 2028-2029, si basa probabilmente sul fatto che recenti attività spaziali delle forze armate USA sembrano già inquadrarsi in una fase preliminare di collaudo tecnologico che tornerebbe utile per l’agognato “scudo”, accorciando i tempi di transizione dalla stagione sperimentale alla stagione operativa.
Fra gli esempi più importanti, il 21 agosto 2025 la US Space Force ha lanciato in orbita per una delle sue tipiche missioni segrete lo spazioplano Boeing X-37B, il famoso, piccolo, shuttle-drone senza equipaggio, lungo 8,9 metri per un apertura alare di 4,5 metri e un peso di 5 tonnellate, che a partire dal 2010 è spesso impegnato in lunghi voli spaziali che durano anche più di un anno, potendo trasportare carichi (tipicamente satelliti) di varia natura, il più delle volte “classificata”, per un peso massimo dichiarato di 227 chili, ma che si stima possa arrivare a 900 kg, contenuti nella sua stiva lunga 2,1 metri e larga 1,2 metri.
La navetta, lanciata dal poligono Kennedy Space Center della Florida con un razzo Falcon 9 della società SpaceX di Elon Musk, è stata immessa su un’orbita enormemente eccentrica dal perigeo bassissimo, appena 323 km di quota, e dall’apogeo di ben 38.838 km dalla Terra, oltre l’orbita geostazionaria. Si tratta di una tipica orbita del tipo Molnija, dal nome di vecchi satelliti sovietici da sorveglianza, che è particolarmente adatta alla ricognizione e pattuglia della maggior porzione possibile dell’emisfero boreale della Terra.

La missione è stata catalogata OTV-8, da Orbital Test Vehicle, la siglia ufficiale assegnata ai voli del programma X-37, ed è quindi l’ottava compiuta in totale dai due esemplari di X-37B costruiti, che ora hanno quindi accumulato 4 missioni ciascuno.
Quello in volo dallo scorso agosto è proprio il primo, ben collaudato, esemplare, in attività dalla prima missione OTV-1, durata dall’aprile al dicembre 2010, mentre il secondo esemplare, la il volo OTV-2, esordì in orbita nel marzo 2011 per tornare sulla Terra, atterrando alla base di Vandenberg, nel giugno 2012, dopo oltre un anno di permanenza nel cosmo. La missione attuale, compiuta sotto l’egida della Forza Spaziale, è stata anche classificata come USSF-36 e sui dettagli il Pentagono mantiene uno stretto riserbo.
Ma è stato fatto trapelare che l’X-37B ha a bordo non meglio specificati sistemi che possono risultare come importanti tessere del mosaico Golden Dome. Anzitutto, “sistemi di comunicazione laser con altri satelliti”, che, oltre a sperimentare la resilienza delle comunicazioni spaziali delle forze USA, potrebbero essere anche utili, di risulta, per imparare a collimare e colpire eventuali satelliti nemici in orbita, nonché testate balistiche nella fase suborbitale della traiettoria, qualora il raggio laser, anziché modulato in bassa energia come segnale di telecomunicazioni, fosse potenziato a un livello energetico distruttivo. E poi un sistema di navigazione astrale basato non su giroscopi o GPS, bensì su un “apparato inerziale quantistico” in grado di rilevare e controllare la rotazione degli atomi e quindi indipendente dalla rete di satelliti GPS e non influenzabile, in teoria, da emissioni di disturbo elettronico.
I comunicati ufficiali della Space Force sulla missione, ricordando che agli esperimenti contribuiscono l’Air Force Research Laboratory della base di Wright-Patterson (Ohio), l’unità di ricerca dell’Aviazione, e la Defense Innovation Unit di Mountain View, nella californiana Silicon Valley, ente del Pentagono per l’innovazione tramite tecnologie a doppio uso militare/civile, si limitano a dire: “La Missione 8 contribuirà a migliorare la resilienza, efficienza e sicurezza delle architetture di comunicazione statunitensi basate nello spazio, conducendo dimostrazioni di comunicazioni laser coinvolgendo reti proliferate di satelliti commerciali in orbita bassa.
Le comunicazioni laser sono parte integrante delle future comunicazioni spaziali in quanto la più corta lunghezza d’onda della luce infrarossa aumenta la massa di dati che può essere inviata a ogni trasmissione. In aggiunta, sono più sicure che le tradizionali frequenze radio, data la natura più mirata dei raggi laser. L’uso di reti diffuse incrementa la resilienza delle architetture spaziali USA assicurando che non abbiano punti deboli”. Il capo delle Operazioni Spaziali, generale Chance Saltzman ha rimarcato l’importanza dell’esperimento per la “diversificazione e ridondanza delle architetture spaziali”.
Sull’altra tecnologia provata in questo periodo dall’X-37B, la Space Force ha dichiarato: “E’ il più prestante sensore inerziale quantistico mai usato nello spazio. Tale dimostrazione fornirà un’accurata e non assistita navigazione nello spazio mediante il rilevamento di rotazione e accelerazioni di atomi senza riferimento a reti satellitari come il tradizionale GPS. Questa tecnologia è utile per la navigazione in ambienti a diniego di GPS e di conseguenza rafforzerà la resilienza dei veicoli spaziali USA di fronte a minacce esistenti ed emergenti”.

Di più, non si dimenticano i vantaggi in termini navigazione astronautica anche a grande distanza dalla Terra: “Così come i sensori inerziali quantistici sarebbero utili alla navigazione nello spazio cislunare (ovvero lo spazio orbitale vicino alla Terra, circoscritto dall’orbita della Luna che dista dal nostro pianeta in media 380.000 km, n.d.r.), essi promettono anche di spingere le frontiere tecnologiche dei viaggi ed esplorazioni spaziali a lunga distanza”. Al di là di ciò, null’altro si sa degli esperimenti condotti dall’X-37B, la cui attività è gestita dal 5° Space Operations Squadron dell’USSF insieme all’Air Force Rapid Capabilities Office.
La capacità di scambiare informazioni con altri satelliti, ed eventualmente anche con basi a terra, in condizioni di cielo terso, mediante laser sarebbe fondamentale di per sé per gli scambi di informazioni tra i satelliti da sorveglianza e quelli da intercettazione precoce del Golden Dome.
Ma poiché un laser, a differenza della normale diffusione delle onde radio, è un fascio direzionato che richiede un allineamento preciso con l’oggetto a cui è destinato, è automatico che simili esperimenti siano funzionali anche al proiettare un raggio su un bersaglio nemico in movimento, raggio in quel caso potenziato e reso distruttivo.
E come il mantenimento dell’allineamento per la trasmissione dati deve essere garantito per quel minimo necessario a esaurire il carico del messaggio, allo stesso modo il mantenere collimato un oggetto ostile da distruggere deve essere garantito per il tempo necessario affinché il laser convogli sul bersaglio energia termica bastante a distruggerlo o almeno danneggiarlo gravemente, un’energia valutabile dai fisici in termini superiori a 1 Watt al centimetro quadrato per un tempo di almeno 5 secondi, a crescere a seconda della robustezza del guscio esterno dell’ordigno o anche dell’eventuale autorotazione attorno al proprio asse longitudinale (o “spin”) che un missile o una testata possono eventualmente attuare per smaltire su una superficie più ampia l’energia di un raggio ostile.
Anche il sensore quantistico di navigazione lascia intuire applicazioni militari poiché satelliti, sia di sorveglianza, sia di intercettazione, potrebbero contare in tal modo su un apparato autonomo e non disturbabile (per quel che si sa) di localizzazione.
Non è certo una novità la sperimentazione di nuove tecnologie, tenute rigorosamente segrete, sull’X-37B e, anzi, ciò conferma che la decisione trumpiana di avviare il Golden Dome sia stata presa sulla base di un retroterra di esperienze già nutrito. Anche nell’evoluzione del programma X-37 si è notata una tendenza di lunga data.

Se per le prime sei missioni, compiute dal 2010 al 2022, i due esemplari dello spazioplano avevano sempre operato in fasce di orbita bassa comprese fra 280 e 410 km di quota, già la missione OTV-7 aveva compiuto il salto di qualità con un’altissima orbita di tipo Molnija dai parametri simili a quella della missione in corso, cioè un apogeo di ben 38.838 km e un perigeo di soli 323 chilometri.
Quella missione, decollata il 28 dicembre 2023 e conclusasi pochi mesi fa, il 7 marzo 2025, aveva fra gli scopi probabili sorvegliare in orbita lo spazioplano cinese Shenlong, lanciato nello stesso periodo, ma anche collaudare tecnologie segrete definite di “Space Domain Awareness”, ovvero “consapevolezza del dominio spaziale”, probabili versioni potenziate dei sistemi già incorporati nei satelliti da sorveglianza Hornet, detti anche Geosynchronous Space Situational Awareness Program, GSSAP, costruiti da Orbital Sciences Corporation e Northrop Grumman e messi in orbita geostazionaria, attorno ai 36.000 km di quota, in numero di sei fra il 2014 e il 2022, più altri quattro previsti entro il 2027.
Satelliti in grado di osservare e tracciare con precisione i movimenti dei veicoli spaziali altrui, se necessario manovrando fino ad avvicinarsi ad essi a distanze relativamente brevi, in termini spaziali, non diversamente dai satelliti “ispettori” russi.
Fra le iniziative più recenti reputate in qualche modo fondative del Golden Dome c’è stata anche la messa in orbita, il 10 settembre 2025, dei primi 21 satelliti T1 di trasmissione dati costruiti dalla York Space Systems per la Space Development Agency, o SDA, che risponde direttamente alla US Space Force. Si tratta di un progetto di ampio respiro, parte del programma Proliferated Warfighter Space Architecture (PWSA), che mira a mettere in orbita fino a 154 satelliti, in versione trasmissione dati e anche tracciamento per missili nemici, a una quota di circa 1000 km. Una rete che verrà gestita dalla base di Grand Forks, nel North Dakota, e dall’Arsenale di Redstone, in Alabama, per offrire supporto alle forze armate USA ma anche alla difesa antimissile.
La Space Development Agency costituisce uno dei nodi fondamentali per le origini del progetto Golden Dome, poiché fu fondata nel 2019, sotto la prima amministrazione Trump, dall’allora Sottosegretario alla Difesa per la Ricerca e l’Ingegneria Michael Douglas Griffin, che ricoprì la carica dal febbraio 2018 al luglio 2020.

In precedenza Griffin era stato direttore della NASA dal 2005 al 2009, ma in gioventù era stato viceresponsabile tecnologico per il programma SDI del 1983, le “guerre stellari” di Reagan. Fin da allora si era detto fautore della massiccia presenza nello spazio orbitale di satelliti da intercettazione, cioè che sarebbe poi diventato noto come l’abortito programma Brilliant Pebbles, nonché della capacità degli Stati Uniti di porre in orbita a tamburo battente un altissimo numero di satelliti tramite vettori riutilizzabili come lo sperimentale Delta Clipper DC-X collaudato negli anni Novanta.
Ciò che poi sarebbe stato realizzato su ampia scala da Elon Musk coi lanciatori della sua Space X. Con la riproposizione di una difesa antimissile orbitale, in sostanza, l’attuale amministrazione USA spera di recuperare le idee del passato dando loro quella forma attuabile che 40 anni fa era stata loro negata principalmente per problemi di costi e complessità tecnologiche oggi, forse, superabili.
Trump vs Reagan
Il collegamento diretto fra le ambizioni di Reagan e quelle di Trump mostra chiaramente come il Golden Dome rappresenti il segmento attuale, e dell’immediato futuro, dell’ossessione statunitense per l’invulnerabilità a un’offensiva nucleare strategica, il che, di fatto, fa saltare il banco della MAD, la Mutua Distruzione Assicurata e annulla, o almeno deteriora molto, il principio della deterrenza reciproca. Come se l’America, cerchi in sostanza di recuperare, seppur sotto forma surrogata e parziale, quel monopolio della forza atomica di cui aveva goduto dall’agosto 1945, quando il presidente Harry Truman decise di incenerire le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki con la leggerezza di chi sapeva che l’avversario non avrebbe potuto rispondere con una rappresaglia proporzionata, fino all’agosto 1949, quando l’Unione Sovietica fece esplodere la sua prima bomba atomica sperimentale nel poligono di Semipalatinsk, nelle steppe dell’attuale Kazakhstan.
In seguito, dopo decenni di rincorsa serrata fra USA e URSS, si addivenne a un equilibrio propiziato dal trattato ABM del 1972, che limitando le, peraltro allora rozze, difese antimissile, era inteso a salvare la deterrenza e dunque l’equilibrio che impediva la tentazione del ricordo al nucleare.

Ma il proclama di Reagan nel 1983, originato dalla concezione dell’avversario sovietico come “l’Impero del Male” a cui non andava riconosciuta parità, segnò l’inizio del sogno americano dell’invulnerabilità. Sogno rimasto finora tale, sebbene studi ed esperimenti siano poi sfociati nella limitata difesa antimissile con base a terra dislocata in Alaska e California col pretesto di una misura rivolta solo contro missili di “stati canaglia”, in prospettiva Corea del Nord e Iran. Difesa di “mid course” extra-atmosferica che per potersi esplicare richiese nel 2002 all’amministrazione di George Walker Bush la denuncia del trattato ABM, strappo unilaterale dell’America in cui si può già rintracciare una delle radici, insieme all’espansione a Est della NATO segnalata da Vladimir Putin fin dal 2007, del riemergere di una nuova Guerra Fredda.
Se analizziamo l’ordine esecutivo che Trump ha emanato il 27 gennaio 2025 (consultabile integralmente a questo link), dando il via all’attuale programma, cogliamo tutto il senso di una continuità col passato, dando a intendere che una idea ereditata dalle precedenti amministrazioni potrà infine essere realizzata ora che molte tecnologie sono mature.
Ha sentenziato “The Donald”: “La minaccia di attacco da missili balistici, ipersonici e da crociera e altri attacchi aerei avanzati, rimane la più catastrofica minaccia affrontata dagli Stati Uniti. Il presidente Ronald Reagan si sforzò di costruire una difesa effettiva contro attacchi nucleari e sebbene questo programma fosse sfociato in molti avanzamenti tecnologici, esso fu cancellato prima che il suo obbiettivo potesse essere realizzato. E da quando gli Stati Uniti si ritirarono dal Trattato sui Missili Anti Balistici nel 2002 e iniziarono lo sviluppo di una limitata difesa missilistica metropolitana, la politica ufficiale USA per la difesa missilistica della patria è rimasta solo quella di tener testa a minacce degli stati canaglia o a lanci di missili accidentali e non autorizzati. Negli ultimi 40 anni, la minaccia da armi strategiche di prossima generazione, anziché diminuire è diventata più intensa e complessa, con lo sviluppo da parte di avversari pari e quasi pari (Russia e Cina, n.d.r.) di vettori di prossima generazione e di proprie integrate difese antiaeree e antimissile”.

Il decreto di Trump proseguiva già delineando scopi e struttura, di massima, della “cupola”: “Gli Stati Uniti provvederanno alla difesa comune dei loro cittadini e della Nazione dispiegando e mantenendo uno scudo di difesa antimissile di prossima generazione.
Eserciteranno la deterrenza e la difesa dei cittadini e delle infrastrutture critiche contro ogni attacco aereo straniero sulla Patria e garantiranno la loro capacità di secondo colpo di ritorsione.
Entro 60 giorni dalla data di questo ordine il segretario alla Difesa sottoporrà al presidente un’architettura di massima, requisiti basati sulle capacità e un piano d’implementazione per lo scudo antimissile di prossima generazione. L’architettura includerà, come minimo, piani per:
- Difesa degli USA da missili balistici, ipersonici e missili da crociera avanzati e altri attacchi aerei di prossima generazione da parte di avversari pari e quasi pari e stati canaglia;
- Accelerazione del dispiegamento della rete di sensori spaziali per l’avvistamento di balistici e ipersonici (Hypersonic and Ballistic Tracking Space Sensor);
- Sviluppo e dispiegamento di intercettori spaziali proliferati capaci di intercettare nella fase di boost;
- Dispiegamento di capacità di intercettazione di livello inferiore e di fase terminale preparate a sconfiggere un attacco di controvalore;
- Sviluppo e dispiegamento di uno strato di custodia del Proliferated Warfighter Space Architecture;
- Sviluppo e dispiegamento di capacità per neutralizzare attacchi missilistici prima del lancio e nella fase boost;
- Sviluppo e dispiegamento di una sicura catena logistica per tutte le componenti con sicurezza e resilienza di nuova generazione;
- Sviluppo e dispiegamento di capacità non-cinetiche per aumentare il contrasto cinetico a missili balistici, ipersonici e missili da crociera avanzati e altri attacchi aerei di prossima generazione”.
Come emerge dalle parole stesse dell’attuale presidente statunitense, l’approccio al Golden Dome è un approccio sistemico, ad ampio respiro, che promette di essere assai più fattibile, rispetto al pionieristico SDI di Reagan, perché volto all’integrazione di componenti già esistenti, nella fattispecie per le fasce di media corsa e fase terminale dei vettori nemici, con sistemi nuovi, in particolare gli intercettori orbitali, dedicati all’azione precoce sulla boost phase, sistemi nuovi i quali sono teoricamente già possibili con le tecnologie attuali, specie in termini di velocità di trasmissione e analisi dei dati balistici utili alle intercettazioni, con supporto più o meno ampio dell’intelligenza artificiale.

La maggior parte del discorso di “Ronnie” toccava il problema dell’aumento a dismisura dell’arsenale sovietico, sia tattico sia strategico, rimarcando la necessità per gli Stati Uniti di proseguire un riarmo che assicurasse a Washington la capacità di trattare con Mosca da una posizione di forza.
Ma anche sostenendo che rivoluzionarie capacità difensive antimissile potessero essere più efficaci dell’azzardo della pura deterrenza.
I passaggi fondamentali per le “guerre stellari”, verso la conclusione del discorso, erano questi: “Non sarebbe meglio salvare vite, piuttosto che vendicarle? (…) Dopo consultazioni coi miei consiglieri, compreso lo Stato Maggiore Congiunto, credo ci sia un modo. Lasciatemi condividere con voi una visione del futuro che offra speranza.

E’ il nostro imbarcarci in un programma per contrastare la minaccia dei missili sovietici con misure che sono difensive. Lasciateci rivolgere alla reale forza della tecnologia che ha generato la nostra grande base industriale e che ci ha dato la qualità di vita di cui godiamo oggi. E se i popoli liberi potessero vivere al sicuro, nella consapevolezza che la loro sicurezza non si basa sulla minaccia di una immediata ritorsione statunitense per sventare un attacco sovietico. E che noi potessimo intercettare e distruggere i missili balistici strategici prima che essi raggiungano il nostro territorio o quello dei nostri alleati? So che è un compito tecnico formidabile, che potrebbe non essere assolto prima della fine di questo secolo.
Tuttavia la tecnologia corrente ha raggiunto un livello di sofisticazione tale che sia ragionevole per noi iniziare questo sforzo. Richiederà anni, forse decenni, di sforzi su molti fronti. (…) Mi appello agli scienziati che ci diedero (agli USA, n.d.r.) le armi nucleari, affinché rivolgano i loro grandi talenti alla causa dell’umanità e della pace mondiale, affinché ci diano i mezzi per rendere queste armi nucleari impotenti e obsolete. Stasera, compatibilmente coi nostri impegni sotto il trattato ABM e riconoscendo il bisogno di una serrata consultazione coi nostri alleati, sto facendo un primo importante passo. Sto dirigendo un intenso e completo sforzo per definire un programma di ricerca e sviluppo a lungo termine per iniziare a raggiungere il nostro obbiettivo ultimo di eliminare la minaccia posta dai missili strategici nucleari. Ciò potrebbe preparare la strada a misure di controllo volte a eliminare le armi stesse”.
In due epoche pur diverse, Trump e Reagan (coi loro rispettivi consiglieri e funzionari) hanno entrambi individuato nella creazione di capacità difensive efficaci contro i vettori nucleari nemici una garanzia ulteriore di sicurezza per l’America, giudicando insufficiente il principio della deterrenza reciproca alla luce dell’inatteso rafforzarsi degli avversari.
In ambedue i casi gli Stati Uniti si sono trovati di fronte un rafforzamento strategico dei potenziali nemici tale da far temere che la deterrenza da sola non sarebbe bastata.

Nella fattispecie, nel 1983 Reagan rimarcava il costante incremento, in quantità e qualità, degli armamenti sovietici, che a partire dagli anni Settanta ormai superavano quelli statunitensi sotto il profilo numerico. Oggi, nel 2025, Trump si riferisce alla nuova panoplia della Russia e anche della Cina, due colossi al momento attuale alleati contro gli USA. Panoplia che comprende in particolare ordigni ipersonici, sia sotto forma di testate plananti, come l’Avangard, sia come missili da crociera, sistemi di bombardamento frazionato orbitale FOBS e perfino quell’incredibile sistema che è il missile da crociera russo Burevestnik, a propulsione nucleare, dalla durata del volo indefinita.
Per entrambi i presidenti americani, a distanza di 40 anni l’uno dall’altro, l’introduzione di una variante nell’equilibrio del terrore, ovvero una promessa, fattibile o presunta tale, di invulnerabilità strategica per il Nordamerica che nelle loro intenzioni sarebbe stata funzionale a costringere gli avversari a sedersi al tavolo delle trattative per ridefinire da una posizione di forza i limiti al riarmo.
All’epoca di Reagan il proclama delle “guerre stellari” fu presentato più come uno spauracchio, ben sapendo che per una realizzazione pratica sarebbero occorsi moltissimi anni, ma nell’incertezza generale l’Unione Sovietica finì col ritrovarsi sfiancata dalla corsa agli armamenti, tanto da crollare nel 1991.
Oggi Russia e Cina sono entrambe potenze economicamente più solide della vecchia URSS e i loro sistemi potranno minacciare i cieli americani ancora per molto tempo a venire. Viceversa, a differenza dell’SDI, il Golden Dome potrebbe essere realizzato in tempi brevi sfruttando tecnologie già mature, sebbene permanga il dubbio sulla sua reale efficacia.
Difesa precoce
Come abbiamo già rilevato, la vera novità del sistema Golden Dome sarebbe costituita dagli intercettori basati nello spazio, dato che le fasi di intercettazioni di medio corso e di fase terminale verrebbero affrontate da sistemi già esistenti e previsti a breve. Il concetto si baserebbe su una sorta di riedizione, a grandi linee, di un filone di studi originatosi già fra gli anni Ottanta e Novanta sull’onda del programma SDI.
In particolare il sistema Brilliant Pebbles (nell’immagine sotto). L’idea venne sviluppata inizialmente fra il 1986 e il 1987 dal fisico Edward Teller, il “padre” della bomba H americana e da Lowell Wood nei laboratori Lawrence Livermore National Laboratory (LLNL) come alternativa ad altri progetti paralleli delle “star wars” di Reagan, come i laser istantanei a raggi X prodotti da testate atomiche in orbita o le armi a fasci di particelle.

Si trattava di porre in orbita bassa un alto numero di piccoli satelliti ciascuno contenente un missile dotato di sistemi di puntamento laser e telecamere a luce visibile e ultravioletta, destinato a raggiungere, impattare e distruggere con la sua energia cinetica i missili nucleari sovietici appena usciti dall’atmosfera.
Le stime sul numero di Brilliant Pebbles necessari per una difesa impenetrabile erano molto variabili, da 7000 fino addirittura a 100.000, ma a un certo punto si pensò che il sistema potesse essere ridimensionato a soli 750-1000 veicoli.
Nel 1991 il presidente uscente George Bush lo definì GPALS, acronimo di Global Protection Against Limited Missile Strikes, ovvero mirato a fermare attacchi limitati, più che russi, provenienti da “paesi canaglia”.

Nelle intenzioni del progetto i missili dovevano essere relativamente piccoli, lunghi meno di un metro (0,91 m) e contenuti in un guscio protettivo orbitante dotato dei sistemi di comunicazione e data link necessari, alimentati da un pannello solare a mo’ di vela.
Una limitata fase prototipica venne raggiunta agli inizi degli anni Novanta e furono compiuti tre test, rispettivamente il 25 agosto 1990, il 17 aprile 1991 e il 22 ottobre 1992, con lanci dal poligono di Wallops Island, in Virginia, con alcuni di questi sistemi lanciati a quote fino a 200 km insieme ai rispettivi bersagli, ma non funzionarono a dovere.
I problemi tecnici, uniti alla vulnerabilità ai sistemi antisatellite russi e alla constatazione che per una copertura efficace e costante dei cieli sopra la Russia, dato il ridotto tempo di permanenza dovuto all’orbita bassa e all’alta velocità relativa dei satelliti, ci sarebbe voluto un grande numero di Brilliant Pebbles, superiore a 10 intercettori per ogni missile intercontinentale avversario.
Il programma fu infine cancellato, ma il suo principio di fondo è sopravvissuto fino a oggi e costituisce l’ossatura di ciò che potrebbe essere la rete degli intercettori orbitali del Golden Dome, integrati con i moderni progressi nell’elettronica e nell’intelligenza artificiale.

Un altro sistema progettato sulla scia dell’SDI e che venne cancellato, ma lasciò una traccia concettuale poi maturata in altra forma fu il prototipo di razzo vettore riutilizzabile Delta Clipper (nella foto a lato) costruito dalla McDonnell Douglas fra il 1991 e il 1992 su impulso della Strategic Defense Initiative Organization (SDIO).
Scopo era quello di disporre di un veicolo che potesse immettere in orbita bassa, fino a una quota di 457 chilometri, carichi per un massimo di 1361 kg, per poi atterrare di nuovo sulla Terra posandosi in verticale.
Esattamente come oggi i razzi vettori della SpaceX di Elon Musk! Il Delta Clipper, immaginato come un razzo a sagoma conica, doveva servire, fra vari scopi, a lanciare celermente, con ripetute missioni, satelliti militari di vario tipo, da ricognizione, da sorveglianza e probabilmente anche da intercettazione, fosse andato in porto il Brilliant Pebbles.
Il prototipo, designato DC-X (Delta Clipper X) era in scala 1:3 del veicolo definitivo, alto 12 metri e del peso al decollo di 18 tonnellate. Esso e un ulteriore prototipo migliorato, il DC-A, vennero collaudati per un totale di 12 lanci dal 18 agosto 1993 al 31 luglio 1996, toccando quote massime limitate in piena atmosfera, solo fra 2000 e 3000 metri, dato che l’intento principale era sperimentare il recupero del vettore con atterraggio verticale.
Costi e inconvenienti tecnici, fra cui un incendio, segnarono la fine del programma Delta Clipper, ma dopo un trentennio osserviamo che la tecnologia del recupero di vettori spaziali ad atterraggio verticale è divenuta una realtà coi sistemi di SpaceX.
Allo stesso modo è possibile arguire che esperienze e studi, in gran parte ancora riservati, che erano stati compiuti negli Stati Uniti in ambito SDI possano essere facilmente riadattati alle odierne possibilità tecniche favorendo una costituzione del Golden Dome in tempi brevi quanto auspicati dal presidente Trump.
Questo, almeno, in teoria, ma molteplici sono le incognite. Esperti dell’American Physical Society sostengono che dovrebbero orbitare attorno alla Terra ben 16.000 intercettori per avere la garanzia di poter tracciare e abbattere soli 10 missili intercontinentali.
E che il compito è reso ancor più arduo dal fatto che il rilevamento di un missile ICBM in “boost phase” deve avvenire entro 45 secondi dal lancio, mentre il calcolo della traiettoria successiva non deve richiedere più di ulteriori 20 secondi.
Il Golden Dome è stato perfino definito “progetto mangiasoldi” da Fabian Hoffmann, del Centre for European Policy Analysis. Il 13 settembre 2025 un rapporto indipendente di Todd Harrison, esperto dell’American Enterprise Institute, ha stimato che il Golden Dome potrebbe costare lo sproposito di 3.600 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi vent’anni, di cui 2.400 miliardi solo per lo strato di difesa avanzata degli intercettori orbitali, appunto la parte più ambiziosa e difficile da realizzare nei termini di un’altissima efficacia.
E considerando che russi e cinesi potrebbero, con una spesa enormemente più bassa, semplicemente aumentare il numero dei vettori strategici, Harrison conclude mestamente: “Quanta difesa antiaerea e antimissile del territorio nazionale è sufficiente? Nessuna architettura può provvedere una protezione totale da ogni minaccia. E il costo del Golden Dome dipende dalle sue ambizioni”.

Quando all’inizio di agosto s’è tenuto il già citato simposio di Huntsville, in Alabama, sulla difesa antimissile e sul progetto Golden Dome, il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha chiesto ai partecipanti di non divulgare dettagli, escludendo inoltre rappresentanti della stampa dal parallelo convegno fra i rappresentanti delle industrie interessate.
Ciò ha fatto nascere più di un sospetto, tanto che David Wright, fisico ed esperto di controllo degli armamenti accreditato presso il Massachusetts Institute of Technology ha considerato questa sostanziale omertà sotto la peggiore luce:
“Il Pentagono ha di recente fatto molte cose per diminuire la supervisione su questo sistema, come l’eliminazione dell’ufficio che avrebbe supervisionato i test del Golden Dome e l’esenzione del programma dalle consuete regole del ‘vola prima di acquistare’, volte a ridurre la spesa per acquisizioni illusorie. Senza tali garanzie si rischia di sprecare un mucchio di soldi costruendo roba che non funziona”.
La freddezza di molti esperti appare più che giustificata. Poiché alla storia è già stata consegnata l’illusione dello scudo spaziale di Reagan, mai realizzato e rimasto in sostanza un atto puramente politico, il dubbio che, nonostante l’attuale maturità tecnologica di molte idee e soluzioni che 40 anni fa apparivano assai più ardue, anche il Golden Dome segua lo stesso destino e serva in sostanza solo da spaventapasseri per le potenze rivali permane, ben fondato.
Immagini: Casa Bianca, PeteHegseth/X, Northrop Grumman, L3Harris, AP Dennis Cook, Boeing, USSF, US DFoD/DoW, McDonnel Douglas, The Time, Der Spiegel e Lawrence Livermore National Laboratory
Mirko MolteniVedi tutti gli articoli
Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.








