Gli ostacoli militari all’accordo turco-russo per “congelare” il conflitto libico

Dopo il ritiro delle forze dell’Esercito nazionale libico (LNA) del generale Khalifa Haftar dalla Tripolitania, frutto dei successi militari conseguito dalle forze turche che affiancano le milizie del Governo di accordo nazionale (GNA) del premier Fayez al-Sarraj, restano almeno consistenti ostacoli militari a impedire un’intesa pilotata da russi e turchi per chiudere o quanto meno congelare il conflitto libico.

Sul piano politico non sembrano esserci ostacoli insormontabili ad allargare ad alcuni esponenti della Cirenaica il Consiglio presidenziale di Tripoli riconosciuto dall’ONU per gestire in comune i proventi dell’export petrolifero pur mantenendo ben separata la gestione delle “due Libie”.

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Sul piano militare invece i punti di contrasto su cui potrebbe innescarsi una nuova escalation bellica sono legati al controllo di Sirte e al-Jufra.

Aree in mano alle forze di Haftar e ai contractors russi della società militare privata Wagner (circa 2mila quelli presenti in Libia sucondo fonti militari statunitensi) che il GNA vorrebbe espugnare prima di dare il via ai negoziati.

Mosca, che ha indotto Haftar a ritirarsi dalla Tripolitania per favorire un accordo con Ankara e a questo proposito ha conseguito risiltati rilevanti la visita a Mosca del vicepresidente del governo di  Tripoli, il misuratino Ahmed Maitig, che il 3 giugno ha incontrato il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov (nella foto sotto).

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La Turchia è ormai il vero e proprio “azionista di maggioranza” del governo di Tripoli ma la Russia ha rapidamente bilanciato la potenza militare turca in Tripolitania schierando tra le basi aeree di Tobruk e al-Jufra 14 cacciabombardieri Mig 29 e almeno 4 Sukhoi Su-24, velivoli senza insegne come sembrerebbero indicare anche le foto satellitari del Pentagono diffuse dal CSIS che illustrano questo articolo.

Aerei da combattimento che sarebbero già intervenuti per colpire una colonna di miliziani di Misurata che insieme a mercenari siriani assoldati dai turchi si stavano avvicinando a Sirte.

Un raid che avrebbe provocato almeno 60 morti scoraggiando per ora la tentazione delle forze di Tripoli di proseguire l’avanzata verso Sirte (si sarebbero ritirate a più a ovest nell’area di Abugrein) e, più a est, verso la cosiddetta “Mezzaluna petrolifera” del Golfo di Sirte.

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“Questi velivoli russi vengono utilizzati per supportare le compagnie militari private (PMC) sponsorizzate dal governo russo”, ha detto il 18 giugno il comando US Africa (Africom), presentando foto di un aereo russo che decolla da al-Jufra, in Libia e di un MiG-29 in volo nelle vicinanze della città di Sirte, in Libia.

“L’introduzione di velivoli d’attacco armati russi con equipaggio in Libia cambia la natura dell’attuale conflitto e intensifica il potenziale rischio per tutti i libici, in particolare i civili innocenti. “Si teme che gli aerei russi siano pilotati da mercenari inesperti, non statali, che non aderiranno al diritto internazionale; in particolare, non sono vincolati dalle leggi tradizionali dei conflitti armati “, ha affermato il generale di brigata Bradford Gering, direttore delle operazioni di Africom.

Più che temere la scarsa professionalità dei piloti russi in Libia, Washington sembra in realtà preoccupata che questi jet possano mutare gli equilibri nei cieli sul campo di battaglia, dominati nelle ultime settimane dai droni turchi, permettendo a Mosca di schierare basi permanenti in Libia. A supporto dei veivoli Mosca avrebbe schierato a Jufra anche batterie antiaeree Pantsir, un radar P-18R (Spoon Resrt D per la NATO) e sistemi di supporto come illustrano le foto.

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La città di Sirte, che ha dato i natali a Muammar Gheddafi, viene rivendicata dal GNA per almeno due ragioni. Innanzitutto si trova geograficamente in Tripolitania e quindi nell’ottica di una di spartizione del territorio sui base regionale Tripoli la rivuole sotto il suo controllo dopo che le forze di Haftar l’avevano espugnata senza combattere nel gennaio scorso grazie al supporto delle tribù locali.

La seconda ragione è legata al fatto che nel 2015 lo Stato Islamico occupò la città e ne fece la sua roccaforte in Libia e l’anno successivo le milizie di Misurata, legate al GNA, l’hanno espugnata al prezzo di centinaia di caduti e con l’appoggio britannico (forze speciali) e statunitense (forze speciali, cacciabombardieri ed elicotteri dei Marines).

Il controllo della città ha una rilevanza strategica anche per l’LNA: da lì è possibile minacciare con nuove offensive Misurata ma soprattutto è possibile sigillare l’area dei terminal petroliferi della Mezzaluna. Inoltre nell’aeroporto di Ghardabiya, scalo misto civile e militare a 20 chilometri a sud della città, pare che i russi vogliano istituire una base aerea permanente simile a quella di Hmeymim (vicino a Latakya) in Siria.

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L’istituzione di basi militari costituisce una parte rilevante delle intese tra Russia e Turchia in Libia e dimostra come entrambe le fazioni libiche abbiamo perso sovranità negli ultimi mesi a vantaggio dei loro sponsor esterni.

Un aspetto particolarmente evidente a Tripoli. “Vorrei sottolineare il forte apprezzamento e la profonda gratitudine da parte nostra nei confronti della Turchia, esemplare nell’intraprendere misure concrete contro l’aggressione” ha affermato al-Serraj lodando il sostegno fornito dal governo di Ankara nella guerra e spalancando le porte alle società e alle compagnie petrolifere turche.

I turchi utilizzeranno il porto di Misurata come base navale e schiereranno velivoli da combattimento, cargo e droni ad al-Watya, grande base aerea non lontano dal confine tunisino espugnata ad Haftar nel maggio scorso e che verrà impiegata a quanto sembra anche dalle forze statunitensi dell’Africa Command.

Il ministero degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu ha affermato il 20 giugno che turchi e americani collaboreranno in Libia poiché “Erdogan e Trump hanno visioni simili sulla Libia”, aggiungendo che la cooperazione bilaterale in merito al paese nordafricano sarà “importante per la stabilità regionale e per il futuro della Libia” e che Ankara e Washington “vorrebbero espandere ulteriormente i propri ambiti di cooperazione”.

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I russi invece puntano a utilizzare Ghardabya per i loro velivoli e il porto di Tobruk o della stessa Sirte come base navale. L’oasi di al-Jufra, la seconda aerea contesa che impedisce lo sblocco dei negoziati di pace o, per meglio dire, di stabilizzazione, si trova nell’omonima grande oasi capoluogo dell’omonimo distretto della regione meridionale del Fezzan che con Cirenaica e Tripolitania compongono la Libia.

Si tratta di una grande base aerea e logistica utilizzata come trampolino dalle forze di Haftar per la lunga e fallimentare offensiva durata 14 mesi contro Tripoli ed è oggi utilizzata dai “cacciabombardieri fantasma” russi che appoggiano le forze dell’LNA e i contractors della Wagner.

Il suo controllo assicura all’LNA la possibilità di riprendere in futuro l’offensiva verso il cuore della Tripolitania e garantirebbe al GNA l’opportunità di minacciare il Fezzan ancora in gran parte fedele ad Haftar. Lo stallo sta rafforzando il rischio di una ripresa delle ostilità su vasta scala.

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Il capo di stato maggiore dell’LNA, il tenente generale Saqr al Jurushi, ha dichiarato che la regione ad ovest di Sirte “che si estende da Wadi Jarif ad al Washka a ovest è considerata zona di operazioni militari” rispondendo al generale Ibrahim Bait al Mal, comandante della Sala operativa del GNA che aveva annunciato che la città di Sirte e la regione di al-Jufra verranno presto liberate affermando che la “presenza dei droni e velivoli russi, tra cui i MiG e Sukhoi, ostacolano il progresso delle nostre forze”.

A surriscaldare la situazione hanno contribuito le dichiarazioni del presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi che ha definito al-Jufra e Sirte “la linea rossa” il cui superamento “renderebbe legittimo” l’intervento militare egiziano visitando gli ingenti dispositivi meccanizzati e corazzati schieratri a sidi el-barrani, 110 chilometri dal confine libico (nella foto sotto)

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Tripoli ha definito la minaccia “un atto ostile ed una dichiarazione di guerra” ma il Cairo considera “una minaccia” la presenza turca in Libia e, per far comprendere che fa sul serio, al-Sisi ha visitato sabato le truppe che ha recentemente concentrato al confine con l’ex colonia italiana.

Oggi, il presidente del parlamento libico di Tobruk, Aguila Saleh, ha dichiarato che la Camera dei rappresentanti della Libia chiederà ufficialmente alle Forze armate dell’Egitto di intervenire militarmente nel caso in cui le forze del GNA  di Tripoli tentassero di attaccare Sirte.

“Se Sirte verrà attaccata, chiederemo ufficialmente alle forze armate egiziane di intervenire per sostenere l’Esercito nazionale libico (LNA). A quel punto, l’intervento egiziano sarà a favore della protezione dei nostri diritti. Se le milizie superano la linea rossa, l’intervento egiziano sarà legittimo e basato su un mandato del popolo libico poiché proteggerà la sua sicurezza nazionale”, ha continuato Saleh.ù

Nell’intervista all’agenzia di stampa egiziana MENA, Saleh ha criticato inoltre l’embargo delle Nazioni Unite sulle armi, sostenendo che sia solamente “imposto all’Esercito nazionale libico”, comandato dal generale Khalifa Haftar, considerato il continui afflusso di armi e mercenari alle forze del GNA davanti alla comunità internazionale “nonostante la capacità di quest’ultima di bloccare completamente i flussi”.

Incisiva, questa volta contro Ankara, anche la posizione del presidente francese Emmanuel Macron che il 22 giugno ha denunciato il “gioco pericoloso” della Turchia in Libia, considerandolo una minaccia diretta per la regione e per l’Europa. “Oggi ritengo che la Turchia stia giocando una partita pericolosa in Libia e stia violando tutti i suoi impegni presi alla conferenza di Berlino”, ha detto al termine di un incontro con l’omologo tunisino Kais Saied all’Eliseo.

Del resto nei giorni scorsi turchi e francesi sono arrivati molto vicini allo scontro armato sul mare quando una fregata francese di un dispositivo NATO ha interrogato il cargo Cirkin (battente bandiera della Tanzania che da un mese fa la spola tra i porti turchi e Misurata per trasferire armi e munizioni) vedendosi “illuminare” a chiaro scopo intimidatorio dal radar guida-missili di una fregata turca che scortava il cargo.

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In questo contesto emerge ancora più evidente la marginalizzazione dell’Italia, vittima soprattutto dell’inconsistenza  del governo e della “distrazione” dei suoi maggiori esponenti.

La visita ad Ankara di venerdì scorso del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio , rinviata da Ankara per permettere al ministro degli Esteri Cavusoglu di recarsi prima a Tripoli (nella foto sopra con il vicepresidente del GNA Ahmed Maitig), è apparsa come il tentativo disperato di non farci estromettere del tutto da quella che un tempo era la nostra “quarta sponda”.

Roma rischia quindi di subire il ricatto di Ankara, costretta a ricoprire il ruolo di “vassallo” dei turchi per sperare di conservare gli interessi dell’ENI in Tripolitania e scongiurare il rischio che Ankara incrementi i già consistenti flussi di immigrati clandestini rinnovando il ricatto all’Europa anche sulla rotta libica che punta direttamente su Lampedusa e la Sicilia.

Del resto se il premier Giuseppe Conte ha gestito il dossier libico senza mai andare oltre l’ambizione di ricavarne una “photo opportunity” con i leader delle due fazioni, anche il ministro Di Maio (oggi in visita a Tripoli) ha le sue responsabilità.

Basti ricordare che il 18 dicembre 2019 espresse “forti riserve” per la firma (a fine novembre) del Memorandum Turchia-Libia e annunciò la nomina di un inviato speciale italiano in Libia di cui a oggi, dopo oltre sei mesi,  non c’è ancora traccia . Un “dettaglio” a cui forse pochi hanno fatto caso in Italia ma che in Libia non è sfuggito a nessuno, evidenziando ancora una volta i sintomi di un’approssimazione e un’inadeguatezza che sta facendo perdere ovunque influenza all’Italia.

“Noi non ce ne siamo accorti, ma in questi mesi ci siamo persi la Libia” ha detto nei giorni scorsi l’ex premier Matteo Renzi a Forte dei Marmi aggiungendo che “siamo tutti a parlare di come si veste tizio o caio o della pochette del Presidente del Consiglio, ma nel frattempo abbiamo perso la Libia”.

Affermazione senza dubbio corretta ma curiosa se pronunciata da un leader della maggioranza che sostiene proprio quel governo che in questi mesi ha perso la Libia.

@GianandreaGaian

Foto US DoD/CSIS e GNA

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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