Se le parole hanno un peso

Le dichiarazioni del presidente del consiglio Mario Draghi nei confronti del leader turco Recep Tayyp Erdogan sono state oggetto in questi ultimi giorni di diverse interpretazioni.

C’è chi ha voluto cogliere gli indizi di un riposizionamento dell’Italia rispetto ai suoi interessi nel Mediterraneo nei confronti dell’espansionismo turco, chi ha interpretato quelle dichiarazioni come il segnale di un maggior ruolo di Roma all’interno della politica della Ue verso Ankara dopo l’imbarazzante scenetta che ha visto protagonisti Ursula von der Leyen e Charles Michel e chi ha voluto leggervi un avvicinamento allo stile franco e incisivo già utilizzato dal presidente statunitense Joe Biden che ha definito Vladimir Putin un “assassino”.

A proposito del cosiddetto “sofagate” Draghi ha espresso la solidarietà al presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen “per l’umiliazione che ha dovuto subire» aggiungendo che “con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese. Bisogna trovare il giusto equilibrio”.

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Una dichiarazione che ha fatto scalpore ma ha suscitato anche perplessità per come è stata espressa, innanzitutto perché è difficile accusare un capo di governo di essere un dittatore mantenendo al tempo stesso un equilibrio.

Certo è impossibile negare che il capo del governo turco sia un leader autoritario: penalizza i diritti delle donne e la libertà di stampa, attua dure repressioni contro curdi e militari non allineati, ha incarcerato giudici, soldati e intellettuali con l’accisa di essere golpisti, attua una spregiudicata aggressività miliare dalla Libia alla Siria, dal Mar Egeo al Nagorno-Karabakh e continua da anni ad avere rapporti ambigui con diversi movimenti islamisti del Medio Oriente. Tutto vero, ma è sufficiente per definirlo “un dittatore”?

Erdogan vince regolarmente le elezioni da quasi 20 anni (vittorie riconosciute anche dalle opposizioni), in Turchia vige ancora il multipartitismo ed esistono forze di opposizione.

Più appropriato sarebbe forse attribuire il termine “dittatore” a Kim Jong Un, o a Xi Jinping che tengono le redini di regimi comunisti dove non vige il multipartitismo né si vota e dove ogni dissidenza viene repressa, anche nel sangue: però la cautela imposta dalle relazioni economiche e dal peso della potenza cinese sembra aver fatto dimenticare a molti persino le gravi responsabilità di Pechino nella diffusione globale del Covid.

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Quanto a voto e a capi di governo rappresentativi della volontà popolare l’Italia si è trovata esposta alla reazione immediata di Ankara. “Condanniamo con forza le brutte affermazioni senza controllo del primo ministro italiano nominato Mario Draghi sul nostro presidente eletto Recep Tayyip Erdogan” ha detto il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu.

Certo la Costituzione italiana non prevede l’elezione popolare del capo di stato e di governo ma è un fatto che Erdogan sia espressione della volontà del popolo turco mentre Draghi non guida un partito o una coalizione che abbia vinto le elezioni.

Inoltre l’uso della parola “dittatore” ha prestato il fianco a una ironica replica di Ankara dove nelle reazioni dei politici turchi sono abbondati, come prevedibile, i richiami al fascismo e a Mussolini.

Resta quindi da chiarire se definendo “dittatore” il leader di uno stato nostro alleato nella NATO, nostro partner commerciale e geopolitico in Libia oltre che interlocutore di grande rilievo in ambito Ue, il premier italiano abbia voluto ufficializzare un mutato atteggiamento nei confronti della Turchia, peraltro sostenuta (soprattutto in campo finanziario) dal Qatar, che è anche un grande partner economico e militare dell’Italia.

A giudicare dai tentativi di calmare le acque attuati soprattutto dal ministero degli Esteri questa ipotesi sembrerebbe da escludere.

Va però sottolineato che Draghi è uomo noto per parlare chiaro, in modo schietto e senza tanti fronzoli. Lo ha dimostrato anche recentemente nella visita a Tripoli (nella foto sotto) in cui ha avuto il merito e il coraggio di affermare che la Guardia Costiera libica soccorre e salva migliaia di migranti che cercano di raggiungere illegalmente l’Italia, per poi riportarli in Libia. Un’affermazione che ha fatto infuriare tutto il “fronte immigrazionista” che da anni lotta per ottenere il libero sbarco di ondate di clandestini nella Penisola.

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Se il governo italiano ha deciso di contrastare Erdogan e la crescente influenza turca nel Mediterraneo dobbiamo aspettarci rapidi mutamenti della nostra politica estera. Ankara infatti pretende scuse e rettifiche ed è potenzialmente in grado di farci molto male.

Ritorsioni commerciali come la ventilata rinuncia all’acquisto di 10 elicotteri prodotti da Leonardo e boicottaggio delle nostre aziende attive in Turchia sono solo gli esempi più immediati anche se avrebbero effetti deleteri anche sulla traballante economia turca..

Meglio poi non dimenticare che la visita ad Ankara di Ursula von der Leyen e Charles Michel era incentrata sul rinnovo dell’accordo concordato nel 2016 da Angela Merkel ed Erdogan per il pagamento di 6 miliardi di euro di aiuti europei alla Turchia in cambio del contenimento dei flussi migratori illegali verso isole greche e Balcani.

Accordo di cui Erdogan pretende oggi il rinnovo a suon di miliardi. Rispetto agli anni scorsi però la Turchia ha assunto di fatto e militarmente il controllo di un’altra rotta mediterranea delle migrazioni illegali dirette in Europa, quella che dalla Libia conduce direttamente in Italia.

Turchi addestrano militari libici

Consiglieri militari turchi istruiscono le forze di Tripoli (nella foto a lato) mentre la Guardia Costiera libica addestrata dalla Marina turca (oltre che da quella italiana) ha finora svolto un ruolo rilevante nel fermare migliaia di clandestini ma l’arma dei migranti resta saldamente nelle mani dei turchi che detengono la leadership indiscussa a Tripoli dopo l’intervento militare che ha fermato e poi respinto le truppe del generale Khalifa Haftar.

Se i turchi decidessero di ordinare ai marinai libici di lasciare in porto le loro motovedette (donate dall’Italia), barconi e gommoni tornerebbero a puntare indisturbati su Lampedusa.

Una minaccia che colpirebbe un’Italia già fin troppo esposta sul fronte migratorio, con sbarchi triplicati nei primi tre mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2020, anno in cui gli sbarchi furono il 300 per cento in più del 2019.

Meglio ricordare poi che la presenza italiana in Tripolitania, dalle due basi militari al ruolo dell’ENI e di altre aziende dipende oggi forse più dalla volontà dell’egemone Turchia che da quella del governo libico ad interim del premier Abdelhamid Dbeibah, volato ieri ad Ankara con 14 ministri.

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Per tutte queste ragioni criticare Erdogan e contrastarne la politica è doveroso ma occorre valutare in prospettiva le ripercussioni determinate dall’uso di termini che condizionano la necessità di mantenere relazioni bilaterali, a meno che non si sia davvero pronti e determinati ad affrontare un braccio di ferro con la Turchia.

Le parole hanno un peso e vanno messe sulla bilancia prima di pronunciarle tenendo presente che le affermazioni perentorie rischiano di risultare un boomerang proprio perché, come ha detto Draghi, si deve essere “anche pronti a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese”.

Con quale faccia Biden potrà incontrare “l’assassino Putin” a un summit internazionale in cui dovesse persino stringergli la mano? Quanto sarà imbarazzante per Draghi dialogare con il “dittatore Erdogan” al prossimo vertice dei capi di governo della NATO?

@GianandreaGaian 

Foto: Europa Today, Anadolu, Twitter e Governo  Libico

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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