Il Califfato dopo le (probabili) sconfitte in Siria e Iraq

dal nostro corrispondente

Tel Aviv – Probabilmente è solo questione di mesi: la guerra contro lo Stato Islamico che tiene il mondo con il fiato sospeso darà presto i suoi frutti, ma per l’Europa potrebbero essere frutti avvelenati. Nel 2016 l’Isis ha perso quasi un quarto del territorio in Siria e in Iraq, nel 2015 il 14 percento: i numeri parlano chiaro, la battaglia contro gli jihadisti si accelera, la vittoria sembra avvicinarsi ma il problema è che l’Isis non finirà né in Siria né in Iraq.

Probabilmente lo Stato Islamico si sposterà, avvicinando la minaccia all’Europa, più precisamente in Nord Africa. A fine 2016, Abu Bakr al Baghdadi aveva annunciato di aver spostato il cuore delle attività di comando e di comunicazione del Califfato in Africa. La Nigeria di Boko Haram e la Somalia di al-Shabaab sembrano troppo indipendenti per diventare il nuovo epicentro delle attività dello Stato Islamico. A dare problemi sarà più probabilmente il Nord Africa, e gli sviluppi degli ultimi mesi sembrano confermarlo.

In Libia la situazione non è delle migliori. Nonostante i colpi subiti a Sirte, lo Stato Islamico rafforza la sua presenza sul territorio a Nord e nell’Ovest; la presenza al confine con la Tunisia assicura ai militanti jihadisti un flusso continuo di “foreign fighters” e un canale di pianificazione di attacchi in Africa Settentrionale. Inoltre, un’eventuale ritirata dell’Isis in Libia potrebbe comportare il rientro di molti militanti in Tunisia, ormai collaudati in battaglia e quindi capaci di rafforzare il network tunisino e di creare una forza destabilizzante nell’area.

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Nonostante la strategia statunitense in Libia sia da rivedere, il paese non offre un terreno apparentemente fertile per una nuova base dello Stato Islamico. L’Isis non gode di supporto sufficiente da parte delle comunità locali, ma trae momentaneo vantaggio dall’assenza di un’autorità centrale stabile. È più probabile che lo Stato Islamico in Libia attragga i militanti provenienti da Siria e Iraq solo in un primo momento, per poi riorganizzarli altrove.

Sono sempre di più le prove del fatto che molti combattenti stanno spostandosi dalla Libia ai paesi vicini: a maggio 2016, le forze di sicurezza marocchine avevano arrestato un membro Isis del Ciad perché pianificava attacchi contro strutture turistiche nel paese. Da allora molti altri marocchini sono stati arrestati con l’accusa di collaborare alla pianificazione degli stessi attacchi. A settembre 2016, le forze di sicurezza algerine hanno dichiarato che almeno duecento combattenti dell’Isis stavano rientrando in Algeria e in Tunisia dalla Libia facendo uso di passaporti falsi.

La Tunisia, al contrario della Libia, offre più probabilità di sopravvivenza ai militanti dello Stato Islamico: è il primo paese esportatore di “foreign fighters” e la sua giovane e fragile democrazia non ha ancora gli strumenti legali necessari ad affrontare il loro rientro.

Inoltre, nonostante i progressi compiuti a livello istituzionale, il paese non ha ancora iniziato a lavorare su riforme chiave per combattere radicalizzazione ed estremismo: l’economia è fragile e la disoccupazione giovanile altissima, quindi la popolazione è suscettibile alla narrativa dei reclutatori dello Stato Islamico

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L’Algeria negli ultimi anni si è dimostrata particolarmente resiliente nei confronti della militanza jihadista. Le forze di sicurezza algerine sono riuscite a fronteggiare gli affiliati dello Stato Islamico attivi sul territorio e hanno colpito i loro leader ripetutamente: a giugno 2016 è stata annunciata la sconfitta e lo smantellamento di Jund al-Khilafah, una delle principali branche dell’Isis nel paese. L’intelligence algerina ha penetrato tutti i bacini di reclutamento dello Stato Islamico, sia online che offline, combinando strumenti di Signals e Human intelligence: sempre a giugno sono stati arrestati 332 individui sospettati di attività di reclutamento.

A creare ancora qualche problema è invece Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), che ha recentemente iniziato una campagna nota come “Munasahah” o “riabilitazione” con lo scopo di far tornare i militanti dell’Isis sotto l’egida di al-Qaeda e sarebbero almeno una decina i combattenti che hanno già aderito.

Nonostante la capacità delle autorità algerine e l’inospitalità del territorio, la possibilità che l’Isis si infiltri di nuovo in Algeria non è da escludersi perché il confine con la Libia è lungo e difficile da pattugliare. Uno scenario simile rafforzerebbe i quadri e le attività di AQMI sul territorio.

Ma è l’Egitto che al momento offre il terreno più fertile per l’afflusso di combattenti del Califfato. Nonostante l’impegno delle autorità egiziane nella lotta agli affiliati dello Stato Islamico nel Sinai, e nonostante la cooperazione con le forze americane e israeliane, la situazione sul campo sembra peggiorare.

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A metà marzo, sono state pubblicate delle foto che mostrano militanti Isis presidiare checkpoint e condurre perquisizioni ad el-.Arish, dove qualche settimana prima 133 famiglie copte avevano lasciato le loro case, consapevoli della minaccia.

Questo indicherebbe la profonda penetrazione dei miliziani a el-Arish. sulla costa del Mediterraneo. In generale, la provincia Isis in Sinai si è notevolmente espansa a Nord Est dove sta rafforzando la sua cooperazione con Hamas nella striscia di Gaza, da cui trae supporto finanziario e logistico.

Secondo le forze di sicurezza israeliane lo Stato Islamico in Egitto si sta considerevolmente espandendo: nel 2015 contava circa mille combattenti, oggi mancano stime che indichino se il numero sia davvero aumentato o no, ma secondo alcune fonti un primo afflusso di militanti dalla Siria sarebbe già arrivato dal confine con la Giordania.

Quello che è certo è che nonostante l’Egitto dichiari di condurre operazioni di successo, nell’ultimo anno l’Isis in Sinai ha portato a termine più di 700 attacchi, due al giorno, e 60 percento in più rispetto al 2015. Lo Stato Islamico mette in seria difficoltà l’esercito egiziano che in tre anni ha perso mille uomini tra morti e feriti.

Solo nell’ultima settimana gli egiziani hanno lasciato sul campo 12 soldati. La strategia di Abdel Fattah al-Sisi è considerata fallimentare perché, essendo troppo repressiva, contribuisce all’iper-radicalizzazione della società locale. Infatti, i membri dello Stato Islamico in Sinai sono principalmente egiziani che continuano a creare alleanze con le tribù beduine locali; queste ultime contribuiscono all’espansione del territorio controllato dagli jihadisti nell’area centro meridionale della regione.

La gravità della situazione ha convinto due senatori americani, John Cornyn e Amy Klobuchar, a far pressione sul Dipartimento della Difesa per classificare il Sinai zona di combattimento. Se l’Isis continuerà a perdere terreno nelle sue originali roccaforti, è probabile che le attività dei suoi affiliati egiziani aumentino ulteriormente.

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In generale, il fatto che la lotta all’Isis si sia concentrata principalmente in Siria e in Iraq ha aumentato le probabilità di “geopardizzazione” del fenomeno. Nonostante i duri colpi subiti, lo Stato Islamico continuerà a far parlare di sé.

Probabilmente le insurrezioni nel Nord Africa aumenteranno e il rischio che vengano stabiliti nell’area nuovi network e canali di reclutamento è molto alto, se non già in divenire. Il fenomeno potrebbe anche espandersi a nuovi paesi, perché la povertà e il malgoverno che caratterizzano l’Africa sono il terreno più fertile per la narrativa dell’Isis. La sconfitta dello Stato Islamico in Iraq e Siria potrebbe inoltre comportare seri rischi all’Europa, avvicinando il cuore della minaccia jihadista sull’altra sponda del Mediterraneo.

Foto Stato Islamico

Valentina CominettiVedi tutti gli articoli

Nata a Roma nel 1989, si laurea con Lode in Scienze Politiche e della Comunicazione alla Luiss Guido Carli. Ha frequentato diversi master di giornalismo e collaborato con diverse testate e con Radio Vaticana. Si occupa di sicurezza e geopolitica, ha seguito sul campo il conflitto ucraino e ha realizzato reportage nell'area balcanica. Attualmente vive in Israele dove è ricercatrice presso l'International Institute for Counterterrorism.

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