Se il virus diventa l’alibi per smobilitare le missioni all’estero

L’epidemia di Coronavirus sta mietendo molte vittime e rischia di determinare anche un buon numero di “danni collaterali” inducendo i vertici politico-istituzionali nazionali ad assumere o proporre iniziative che potrebbero avere impatti brutali sulla credibilità dell’Italia.

Tra queste iniziative sta prendendo piede la richiesta di rimpatriare le truppe italiane schierate oggi oltremare nell’ambito delle missioni internazionali che impegnano oltre 7 mila militari italiani.

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“Per dare un ulteriore aiuto ai nostri medici e alle nostre forze dell’ordine, propongo di valutare l’immediato rientro in patria delle migliaia di militari italiani sparsi per il mondo, la cui permanenza in missione non sia assolutamente necessaria” ha dichiarato il senatore Gianluca Ferrara, capogruppo di M5S alla Commissione Affari Esteri di Palazzo Madama.

“Un rientro temporaneo, salvo per quelle missioni già in fase di ridimensionamento o conclusione. Come quella in Afghanistan, dove abbiamo quasi mille uomini, per i quali si tratterebbe solo di accelerare un ritiro già previsto a seguito dei recenti accordi di pace. In Iraq, dove l’Italia schiera un contingente analogo, già si valutava il ritiro delle nostre truppe per motivi di sicurezza e per la richiesta del governo locale. In Libia, dove la tregua sta reggendo, abbiamo altre centinaia di soldati, in buona parte medici militari che sarebbero preziosissimi in questo momento in Italia.

In Libano, dove abbiamo altri mille uomini, potremmo ridurre temporaneamente la nostra presenza. Per le tante missioni minori, potremmo semplicemente interrompere la nostra partecipazione. Nessuno avrebbe da obiettare perché è chiaro a tutti che in Italia in questo momento c’è una guerra contro un nemico invisibile che miete ogni giorno centinaia di morti, una guerra contro cui lo Stato italiano ha il diritto e il dovere di impiegare tutte le sue risorse umane, anche militari, oltre finanziaria.

Sì perché la sospensione delle missioni all’estero, che oggi ci costano 3,5 milioni di euro al giorno, comporterebbe anche di risparmiare risorse da impiegare a sostegno di famiglie e imprese in difficoltà per l’emergenza Coronavirus”.

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La proposta di rimpatriare tutti i militari all’estero impegnati in missione NATO, UE e ONU per poi ripristinare solo alcuni contingenti a fine epidemia si presta a molte obiezioni e ha il suo limite maggiore nella scarsa conoscenza degli aspetti tecnici, logistici e operativi delle missioni militari.

Togliere o aggiungere reparti da un teatro operativo richiede una attenta pianificazione, non è cosa che si possa attuare in pochi giorni, a meno che non si tratti di muovere contingenti simbolici come i 2 osservatori schierati al confine tra India e Pakistan, i 2 ufficiali assegnati alla missione ONU Minurso nel Sahara Occidentale o i 4 carabinieri dislocati a Cipro nell’ambito della missione delle Nazioni Unite.

Smantellare Camp Arena (Herat) che ospita i nostri militari in Afghanistan o le basi in Libano e Iraq richiederebbe mesi mentre ritirare le truppe oggi al di fuori da ogni pianificazione NATO (che pure sta prendendo corpo in vista del ritiro degli alleati nel 2021) sarebbe innanzitutto scorretto nei confronti degli impegni assunti con Kabul e gli alleati.

Più che giusto (e su questo web-magazine lo abbiamo fatto molte volte) dibattere sul significato politico e strategico e sui ritorni ottenuti dall’Italia dalle missioni in Afghanistan, Iraq, Libano, Niger, Kosovo, Libia….

Ragioni politica, strategiche e geopolitiche potrebbero e forse dovrebbero indurci a modificare o ridurre la presenza militare all’estero, ma rimpatriare i militari a causa del Coronavirus non avrebbe senso e ridicolizzerebbe l’Italia agli occhi degli alleati e della comunità internazionale.

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Chi presidierebbe le nostre basi e i settori operativi assegnati ai nostri militari in attesa che gli italiani ritornino dopo l’epidemia? Il virus dilaga ovunque, perché gli italiani dovrebbero ritirare le proprie truppe e le altre Nazioni no?

I francesi continuano a combattere i jihadisti nel Sahel con 5.100 uomini sul terreno e gli italiani dovrebbero ritirarsi a causa del virus da teatri operativi molto meno impegnativi in termini di combattimenti?

Abbiamo dovuto trattare molti mesi con Parigi e Niamey per dare vita alla missione italiana in Niger: se ora ci ritirassimo a causa del Coronavirus siamo certi che tra sei mesi le autorità locali saranno disponibili ad accoglierci di nuovo?

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Inoltre i contingenti alleati, appartenenti tutti o quasi gli Stati colpiti dal Coronavirus, dovrebbero coprire con ulteriori rinforzi il vuoto lasciato dai nostri militari.

Se tutte le nazioni rimpatriassero i propri militari le operazioni multinazionali cesserebbero ma non i problemi che ne hanno determinato la mobilitazione, che continueranno a costituire importanti sfide anche quando l’epidemia sarà cessata.

Sul piano pratico poi gli impegnativi e aspetti logistici legati al dispiegamento e al rimpatrio dei contingenti militari rischierebbero inoltre di aumentare il rischio di contagio nei reparti italiani che nelle rispettive basi hanno adottato misure per contenere i rischi.

Basti pensare che Usa e NATO hanno di fatto azzerato o ridotto in modo determinante le grandi esercitazioni “Defender Europe” bloccando la partenza di gran parte dei 20mila militari statunitensi che dovevano venire in Europa e rimpatriando un buon numero di quelli già sbarcati, proprio perché il movimento di interi reparti attraverso migliaia di chilometri è considerato un fattore di rischio di contagio.

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Spostare uomini e mezzi Afghanistan, Iraq, Libano e dagli altri teatri operativi, impiegando necessariamente navi e aerei cargo noleggiati per i contingenti schierati più lontano dalla Penisola, comporterebbe lo stesso rischio per il personale militare italiano.

Ammesso poi che sia oggi possibile effettuare operazioni simili con vettori civili a nolo considerato che molte compagnie aeree e marittime si rifiutano di utilizzare porti e aeroporti italiani e le nostre navi non sono autorizzate a entrare in molti porti stranieri.

Quanto ai medici militari presenti in Libia nella missione a Misurata (che è di tipo sanitario ma impiega oltre i due terzi dei 300 militari impegnati per compiti di sicurezza e logistica) o schierati a supporto sanitario delle altre missioni, il loro numero non è così rilevante da modificare la situazione nella lotta al Coronavirus in Italia, che già vede un forte impegno della sanità militare.

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Di fatto quindi richiamare i contingenti all’estero non produrrebbe evidenti vantaggi nella lotta al Coronavirus in Italia (tra l’altro il personale non sarebbe subito impiegabile in altre operazioni) né produrrebbe risparmi eclatanti, almeno sul breve periodo, a causa degli elevati costi logistici dei rimpatri ma determinerebbe un forte deficit di credibilità dell’Italia.

In termini più politici, il Coronavirus non può diventare un alibi per giustificare il disimpegno militare italiano. Impossibile poi non notare che proposte in tal senso vengono da esponenti di quel Parlamento che ormai da settimane non si riunisce per paura del contagio mentre in tutta Italia come oltremare migliaia di militari continuano a svolgere le mansioni loro assegnate, al pari di milioni di cittadini i quali, nonostante l’epidemia, continuano a recarsi tutti i giorni al lavoro permettendo alla Nazione di restare in piedi e tenere duro.

Foto: Difesa.it e G. Gaiani

@GianandreaGaian

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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