Dietro il caso RWM, il tentativo di affondare l’industria della Difesa italiana

Dalle Fremm di Fincantieri all’Egitto alle bombe di RWM Italia ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti appare sempre più evidente la volontà di ampi settori dell’attuale (traballante) maggioranza di governo e del ministero degli Esteri di colpire al cuore l’industria della Difesa italiana nel momento in cui la crisi pandemica la rende particolarmente vulnerabile perchè ancor più dipendente dall’export per sopravvivere.Analisi Difesa si è già occupata in più occasioni dell’ambiguità di Roma circa questi temi con articoli ed editoriali ma a imporci di tornare a commentare gli eventi ha contribuito il recente ricorso presentato da RWM Italia contro la decisione del governo di cancellare i contratti siglati nel 2016 e 2017 da circa mezzo miliardo di euro con sauditi ed emiratini.

Il 22 dicembre 2020 la Commissione Esteri della Camera ha adottato una nuova Risoluzione, promossa da M5S e PD e votata senza opposizione dagli altri partiti, con la quale si chiedeva al governo di revocare le licenze in essere, di prorogare il blocco all’esportazione di missili e bombe d’aereo all’Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) in scadenza a fine gennaio 2021, di estendere tale divieto ad altre tipologie di materiali d’armamento e ad altri Paesi partecipanti alla Coalizione impegnata nel conflitto in Yemen.

Da gennaio 2021 il ministero degli Esteri ha applicato tale Risoluzione in assenza di una decisione del Governo e il 12 gennaio ha adottato un provvedimento di revoca dell’autorizzazione concessa a RWM Italia per l’esportazione di bombe di aereo verso l’Arabia saudita e gli Emirati Arabi, determinando la rottura dei contratti in essere.

Il 21 gennaio il sottosegretario Manlio Di Stefano (M5S) ha dichiarato che le licenze di esportazione per tutti i materiali di armamento verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono sottoposte a procedura “caso per caso”, creando così i presupposti per una paralisi dei contratti di export verso i due stati arabi della nostra industria della Difesa. Il giorno successivo una lettera del ministro Luigi Di Maio ha comunicato la revoca delle licenze a RWM alla Presidenza del Consiglio e ai ministri della Difesa e dello Sviluppo Economico.

 

La guerra yemenita

Anche altri paesi europei, come Germania, Spagna e Danimarca hanno sospeso alcune licenze di esportazione verso i due stati della Penisola Arabica e negli USA (principali fornitori di armamenti agli Stati arabi del Gulf Cooperation Council che mantiene stretti rapporti con la NATO), l’Amministrazione Biden ha congelato i contratti autorizzati da Donald Trump ma non ancora firmati,  incluso quello per fornire ad Abu Dhabi caccia F-35 e droni MQ9 Reaper.

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Una sospensione precauzionale e con ogni probabilità temporanea ma nessuno, a parte l’Italia, ha cancellato contratti già in essere.

Nel documento di revoca delle licenze a RWM la Farnesina “constata l’assenza di sviluppi concreti nel processo di pace nello Yemen” con una affermazione smentita dai fatti e che non tiene conto dei mutamenti avvenuti in quel conflitto e riconosciuti dalle stesse Nazioni Unite che nel 2020 hanno registrato un calo del 73 per cento delle vittime civili dei raid aerei rispetto all’anno precedente.

Nel suo rapporto sulla situazione nello Yemen del 16 giugno 2020, il Segretario Generale dell’ONU ha rimosso la coalizione a guida dell’Arabia Saudita dalla lista nera di coloro che hanno ucciso e ferito bambini nello Yemen, confermandovi invece il movimento scita Houthi e il Governo yemenita.

Del resto l’ONU ha denunciato in più occasioni gli Houthi per l’arresto degli osservatori dell’ONU e l’arruolamento di bambini-soldato. Al di là degli interessi economici non sorprende quindi che la Francia non abbia mai fermato l’export verso Riad e Abu Dhabi e che la Gran Bretagna abbia ripreso dal luglio 2020 le forniture di ordigni dopo un anno di sospensione.

 

Falsi moralismi

Le forze degli Emirati Arabi Uniti si sono quasi del tutto ritirate dallo Yemen e le forze aeree saudite hanno adottato regole d’ingaggio idonee a ridurre i “danni collaterali”. Vittime che certo non possono essere del tutto scongiurate specie in operazioni contro un nemico asimmetrico che occulta volutamente le sue postazioni in mezzo ai civili.

In questo ambito nessuna forza aerea è immune da errori. Con lo stesso metro di misura avremmo dovuto chiudere ogni rapporto militare con gli USA e con molti alleati NATO per i civili uccisi dai raid aerei su Mosul durante la campagna per liberare la città dallo Stato Islamico.

Certo nessun aereo italiano ha mai rischiato di provocare danni collaterali nei sei anni di operazioni contro l’ISIS dal momento che volavano e volano disarmati, ma se tutti i membri della Coalizione avessero partecipato al conflitto con le regole italiane le bandiere nere del Califfato sventolerebbero ancora su molte città irachene.    Inoltre, circa gli attacchi a obiettivi civili, i ribelli yemeniti Houthi non sono certo esenti da critiche tenuto conto dei missili e dei droni che hanno colpito le città saudite.

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Sul piano dei diritti umani le stesse critiche che vengono mosse a sauditi ed emiratini possono essere attribuite al Qatar, con cui invece l’Italia ha ampi accordi di cooperazione militare e di mega forniture militari, ma anche a tanti altri Stati in Asia e Africa con cui l’attuale governo italiano mantiene rapporti fraterni.

Forse anche troppo se parliamo del regime turco di Recep Tayyp Erdogan e del regime comunista cinese che vanta tanti fan nel governo italiano.

Meglio allora ricordare che gli Emirati sono  lo stato islamico più laico: ha accolto il Papa, non applica discriminazioni religiose e il 4 febbraio ospiterà ad Abu Dhabi la Giornata della Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune con la partecipazione del Pontefice, del Grande imam di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb e del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres.

In tema di diritti umani l’Arabia Saudita ha certo molta strada da percorrere e sarebbe interessante sapere se l’11 gennaio, durante la sua vista a Riad rimasta a basso profilo in Italia, il ministro Di Maio abbia sollevato la questione con il principe Mohamed bin Salman, protagonista di una svolta modernista che sta determinando qualche progresso.

Curioso poi che lo stesso ministro che blocca le forniture militari sia andato a Riad (nella foto sotto) a firmare un memorandum per consolidare rapporti economici che già vedono l’Italia tra i primi dieci fornitori dell’Arabia Saudita con un export annuale di 3,2 miliardi di euro.

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A proposito fi ambiguità, suscita qualche perplessità osservare che lo stesso ministero degli Esteri italiano che non digerisce le violazioni saudite ai diritti umani taccia sulle sparizioni di medici e  giornalisti cinesi che indagavano sull’epidemia di Covid a Wuhan o sulle repressioni a Hong Kong, in Tibet e nel Sinkiang.

Dov’era l’attenzione scrupolosa per i diritti umani quando il 10 e 11 dicembre al Consiglio Europeo l’Italia si espresse contro le sanzioni alla Turchia?

Peraltro con un voto che ci accomunò a Germania e Spagna, guarda caso altri stati europei indulgenti con Ankara ma che hanno sospeso l’export bellico a sauditi ed emiratini.

Qualora la volontà di penalizzare l’export militare italiano a Riad e Abu Dhabi avesse un valore politico, con l’obiettivo di schierare l’Italia con l’asse turco-qatarino in contrapposizione a sauditi ed emiratini, vale la pena ricordare che il 5 gennaio l’accordo di al-Ula ha riavvicinato il Qatar alle altre monarchie del Golfo al punto che Doha ha criticato pesantemente l’attacco missilistico su Riad del 23 gennaio rivendicato dagli Houthi.

Il contesto geopolitico e militare nel Golfo e nello Yemen non dovrebbe quindi giustificare l’iniziativa del governo italiano, a quanto sembra quasi “imposta” dalla Farnesina approfittando della crisi dell’esecutivo con il sostegno del M5S e di parte del PD.

“La decisione della Farnesina di bloccare definitivamente la vendita di bombe made in Italy ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti è una bellissima notizia, un importante gesto di civiltà il cui merito va al ministro Luigi Di Maio, al sottosegretario Manlio Di Stefano, al Movimento 5 Stelle che lo chiede da anni e alle campagne di pressione della società civile” recita una nota del gruppo al Senato di M5S in cui si evidenzia quale sua il vero obiettivo di questa campagna politica.

“Per questo riteniamo non più rinviabile rivedere in senso restrittivo la normativa italiana in materia di vendita di armamenti come previsto dal disegno di legge di riforma della legge 185/90 proposta dal Movimento 5 Stelle a prima firma del senatore Gianluca Ferrara”.

Una revisione che di fatto cancellerebbe per l’industria italiana la possibilità di esportare prodotti per la Difesa nei mercati oggi più ricchi e che più apprezzano il “made in Italy”.

In un contesto economico come quello attuale, dove la gran parte della produzione per la Difesa è destinata all’export, una simile revisione della Legge 185 significherebbe la fine del comparto industriale italiano. Specie in un momento in cui l’industria cantieristica e aerospaziale devono fare i conti con il tracollo delle commesse nel settore civile in seguito all’epidemia di  Covid.

 

Colpire l’industria della difesa italiana

L’offensiva contro l’industria nazionale non si fermerà alle bombe di RWM, anche se la chiusura dell’azienda provocherà gravissimi danni occupazionali in Sardegna, avvantaggerà sul mercato europeo i produttori francesi e comprometterà la credibilità complessiva dell’Italia come partner commerciale ben al di là del mercato della Difesa.

Lo stop all’export di bombe ha del resto già favorito i concorrenti stranieri, soprattutto turchi, sudcoreani, brasiliani e pakistani (come Analisi Difesa ha illustrato nel luglio scorso) che hanno incrementato a dismisura le commesse di bombe d’aereo a sauditi ed emiratini compensando il venir meno delle forniture di RWM Italia.

Quindi i cacciabombardieri di Riad e Abu Dhabi non hanno avuto meno bombe da sganciare ma in Italia abbiamo invece perso mezzo miliardo di euro di commessa e centinaia di posti di lavoro.

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Da quanto appreso da Analisi Difesa la Farnesina sembra voler puntare a bloccare anche la partecipazione italiana al programma aeronautico saudita EFA Salaam per l’ammodernamento dei caccia sauditi Typhoon acquisiti in Gran Bretagna ma prodotti dal Consorzio Eurofighter di cui fa parte anche l’Italia con la quota del 21 per cento detenuta da Leonardo.

Le iniziative governative, parlamentari e giudiziarie in atto (secondo quanto riferito il 17 gennaio da “Il Fatto Quotidiano” la procura di Roma ha chiesto informazioni circa la cessione delle due fregate FREMM all’Egitto con cui resta aperto il confronto per il caso Regeni), cui di aggiungono le storiche pressioni del mondo dell’associazionismo pacifista, sembrano convergere sull’obiettivo di incidere, compromettendoli, nei rapporti strategici dell’Italia con i Paesi del Golfo e del Nord Africa.

 

Rischi e conseguenze

Difficile comprendere come una simile iniziativa possa tutelare gli interessi nazionali. A meno che Di Maio e Di Stefano non abbiano trovato il modo per spostare la Penisola dal Mediterraneo ai Caraibi, l’Italia avrà necessariamente bisogno di mantenere strette relazioni politiche, economiche, strategiche e militari con egiziani, sauditi ed emiratini.

Anche tenendo conto che in quel “Mediterraneo allargato” che tutti sostengono rappresenti lo spazio di manovra geopolitica dell’Italia, nulla di buono potrà giungere dal compromettere i rapporti con chi controlla gli Stretti di Hormuz, Suez e Bab el-Mandeb e mantiene saldamente la leadership della Lega Araba.

Favorire e incoraggiare la diffidenza nei confronti dell’Italia in tutta la regione del Medio Oriente e Nord Africa avrà un impatto devastante sull’Italia e sul “made in Italy”, non aiuterà la nostra industria energetica e indebolirà pesantemente le nostre aziende della Difesa privandole di una parte importante del portafoglio clienti mettendo così in percolo decine di migliaia di posti di lavoro proprio nella fase più difficile della nostra Storia recente.

 

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Conseguenze di cui non possono non essere consapevoli le forze politiche che perseguono questo disegno tra le quali non sfugge la presenza di lobby vicine a interessi stranieri: francesi, tedeschi e cinesi in testa, a conferma di come in Italia non manchino i fans degli stranieri ma ci sia, semmai, una forte carenza di filo-italiani.

Indebolire le nostre aziende del settore Difesa privandole dei mercati di riferimento, pur se dietro paraventi ideologici e morali, costituisce il primo passo per poterle poi svendere a quei concorrenti stranieri che oggi soffrono il peso del “made in Italy” sui mercati anche se negli ultimi anni l’export nazionale ha registrato un continuo calo.

Una tendenza che potrebbe essere rapidamente invertita con i contratti miliardari in ballo con Egitto e Arabia Saudita (diverse fregate Fremm, qualche decina di caccia Typhoon e di addestratori M-346 con tutti gli equipaggiamenti e armamenti imbarcabili) che a Roma stanno facendo di tutto per compromettere a vantaggio della concorrenza.

Per queste ragioni è urgente che il prossimo governo, le forze politiche che hanno a cuore gli interessi nazionali, le aziende e le organizzazioni industriali e sindacali si mobilitino subito per scongiurare un disastro a cui non sarà domani più possibile porre rimedio.

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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