Afghanistan: il “mea culpa” di Londra mentre la Cina riconosce la leadership pakistana

 

 

Resa dei conti, o quasi, al parlamento britannico dove il 1° settembre i disastrosi sviluppi della crisi afghana hanno visto il ministro degli Esteri, Dominic Raab commentare quello che il presidente della commissione, Tom Tugendhat, tory che da ufficiale ha combattuto in Afghanistan, ha definito “il più grande singolo disastro di politica estera dalla Crisi di Suez” del 1956.

Raab ha ammesso che tutti gli alleati, USA in testa, hanno sottovalutato i talebani. “La valutazione cruciale sulla cui base abbiamo operato, sostenuta certamente dal Joint Intelligence Committee e dai nostri militari, era che il ritiro a fine agosto avrebbe provocato un deterioramento graduale della situazione, ma che la caduta di Kabul entro il 2021 fosse da considerare improbabile”. Convinzione “largamente condivisa dai partner della Nato”.

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La Cina ha invece annunciato il rafforzamento della cooperazione nel campo dell’intelligence con il Pakistan proprio per tenere sotto controllo gli sviluppi in Afghanistan. Lo ha dichiarato l’ambasciatore pachistano a Pechino, Moin ul Haque, in un’intervista al quotidiano cinese Global Times ripresa in Italia dall’Agenzia Nova.

Il diplomatico ha sottolineato come sia la Cina che il Pakistan desiderino “vedere una soluzione politica e la formazione di un governo inclusivo, ampio e partecipativo a Kabul”: a ben guardare gli stessi obiettivi auspicati anche da Russia, Occidente e in generale dalla comunità internazionale.

L’ambasciatore ha illustrato le misure assunte da Islamabad per mettere in sicurezza i 2.600 chilometri di confine attraverso una barriera di protezione completata al 90 per cento e un aumento della presenza militare. Il Pakistan è “a conoscenza della minaccia rappresentata dalle organizzazioni terroristiche, tra cui i talebani pachistani (Ttp), lo Stato islamico, il Movimento islamico del Turkestan (Etim) e altre che operano dall’Afghanistan”. L’ambasciatore a Pechino ha anche affermato che “nessun Paese è più desideroso di pace in Afghanistan del Pakistan. Allo stesso modo, anche la Cina desidera un clima pacifico e stabile”.

Come evidenzia Nova, il Global Times sottolinea che Cina e Pakistan si sono coordinati strettamente sul dossier afgano ed entrambi i paesi “monitorano” da vicino la situazione di Kabul.

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Al di là del linguaggio diplomatico Pechino pare essere da tempo ben consapevole che il Pakistan, suo alleato in Asia Centrale, è stato il vero motore e sponsor del successo della guerra lampo talebana come sembrano dimostrare anche gli incontri tra i leader talebani e il ministro degli Esteri cinesi pochi giorni prima dell’inizio dell’offensiva che ha fatto cadere in una settimana tutte le principali città afghane e la stessa Kabul.

Analisi Difesa ha raccontato per prima, fin dal giorno della caduta di Kabul, le iniziative assunte dai servizi segreti militari pakistani (ISI) per preparare il terreno alla vittoria talebana inviando emissari presso tutti i governi locali e i comandi militari afghani, istituzioni che infatti si sono arrese, spesso senza neppure opporre resistenza. Un’operazione d’intelligence capillare che non è stata “intercettata” dai servizi d’intelligence statunitensi e alleati che in Afghanistan avevano evidentemente perso gran parte delle loro ”antenne” sul terreno.  Non è superfluo rileggere oggi quanto scrivemmo su queste pagine il 15 agosto scorso.

 

Il trionfo del Pakistan

Gli sviluppi delle prossime ore dipenderanno dai colloqui riservati tra statunitensi e talebani e soprattutto dalle decisioni che verranno assunte in Pakistan, vero artefice politico e militare della “blitzkrieg” talebana che in una settimana ha travolto tutto l’Afghanistan, come hanno riferito ad Analisi Difesa diverse fonti solitamente ben informate.

La conferma indiretta giunge dal fatto che questo pomeriggio, appena dopo il decollo dell’aereo che ha portato in Uzbekistan il presidente Ghanì, una delegazione afgana di alto livello è arrivata nella capitale pakistana. Lo ha annunciato il rappresentante speciale del Pakistan per l’Afghanistan, Mohammad Sadiq. “Ho appena ricevuto una delegazione di alto livello tra cui Ulusi Jirga Mir Rehman Rehmani, Salah-ud-din Rabbani, Mohammad Yunus Qanooni, Ustad Mohammad Karim Khalili, Ahmad Zia Massoud, Ahmad Wali Massoud, Abdul Latif Pedram e Khalid Noor”, scrive Sadiq in un tweet.

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“Questioni di reciproco interesse saranno discusse durante la visita della leadership politica afghana” composta dai maggiori esponenti dei movimenti politici ed etnici anti-talebani.
Appare chiaro quindi che il Pakistan intende porre sotto la sua diretta influenza politica un nuovo governo afghano dominato dai talebani ma che offra garanzie anche agli oppositori e a tagiki e uzbeki che in passato hanno condotto una lunga e fiera guerra contro gli il regime degli “studenti coranici”.

Islamabad del resto ha pianificato da tempo con i servizi segreti militari (Inter Services Intelligence – ISI) la guerra-lampo da scatenare nell’imminenza del completamento del ritiro delle forze americane e alleate, rinforzando con propri combattenti provenienti dai reparti d’élite e dalle milizie tribali della Tribal Area pakistana le milizie talebane. Con tali forze gli attacchi talebani hanno potuto svilupparsi su più fronti contemporaneamente, aumentando la percezione presso le truppe governative di una indiscussa superiorità del nemico.

A velocizzare le operazioni offensive talebane hanno contribuito non poco le migliaia di veicoli governativi caditi nelle mani degli insorti tenuto conto che i soli 4×4 Humvee in dotazione all’esercito afghano sono (o meglio erano) 25mila.

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Il Pakistan avrebbe inoltre fornito ai talebani un’ampia copertura d’intelligence che sembra aver visto protagonisti numerosi agenti dell’ISI infiltrati nei comandi militari afghani e nei governi provinciali con l’obiettivo di indurre i reparti a cedere le armi o a non opporre resistenza.

Del resto la presenza di Anas Haqqani, fratello del vice leader talebano Sirajuddin Haqqani, segnalata oggi nei colloqui al palazzo presidenziale di Kabul che hanno portato Ghanì a lasciare Kabul, conferma indirettamente il pesante ruolo di Islamabad nella vicenda in atto dal momento che la “Rete Haqqani” ha sempre goduto del supporto militare e finanziario dell’ISI.

Sul piano politico e strategico la vittoria lampo dei talebani porterebbe consistenti vantaggi al Pakistan che consoliderebbe il suo controllo sull’Afghanistan influenzandone direttamente il governo e ponendosi come interlocutore di grande rilevanza con Cina e Russia, che temono il dilagare del jihadismo nel Sinkiang e nelle repubbliche centro asiatiche ex sovietiche.

Al tempo stesso con la vittoria-lampo talebana il Pakistan ha di fatto bruciato ogni iniziativa imbastita dal presidente Ashraf Ghani con India, interessata a sostenerne anche militarmente il governo per contenere i talebani alleati del rivale pakistano.

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Inoltre, quanto sta accadendo accentua il prestigio del Pakistan e dell’ISI, che ha reso “pan per focaccia” agli Stati Uniti non tanto per le accuse di sostegno al terrorismo islamico rivolte dalle ultime amministrazioni statunitensi ma soprattutto per il blitz ad Abbottabad del 2011 in cui venne ucciso Osama bin Laden, effettuato dalle forze speciali americane in territorio pakistano senza informare i servizi d’intelligence di Islamabad.

Infine, con la presa di Kabul, pakistani e talebani hanno ridicolizzato la Casa Bianca dove Joe Biden solo 48 ore prima dell’accerchiamento della capitale ne escludeva la caduta e parlava in conferenza stampa di 300 mila militari afghani ben equipaggiati in grado di contrastare 75 mila talebani. Uno smacco senza precedenti agli Stati Uniti e a tutto l’Occidente.

 

Il futuro di Kabul è nelle mani del Pakistan

Per approfondire il ruolo del Pakistan nel futuro dell’Afghanistan risulta molto utile leggere l’articolo pubblicato il 4 settembre su Formiche.net dal professor Antonio Teti, responsabile del settore Sistemi informativi e Innovazione tecnologica dell’Università G. D’Annunzio di Chieti Pescara, esperto di Intelligence e Cyber Intelligence, di cui riportiamo ampi brani che confermano, ampliano e arricchiscono di dettagli quanto riportato da Analisi Difesa tre settimane or sono.

Fonti attendibili, confermano che i legami “segreti” tra i talebani e l’ISI sarebbero molto più corposi di quanto si possa immaginare. Sembra inoltre che il servizio segreto pakistano, sin dalle prime ore della conquista delle aree del nord dell’Afghanistan da parte dei talebani, sia stato coinvolto finanche nel ruolo di “decisore” per la conduzione delle operazioni.

Durante le riunioni di pace svoltesi a Doha, nel Qatar, a febbraio del 2020, i funzionari dell’ISI avrebbero svolto un ruolo determinate in ogni fase delle trattative, assumendo decisioni che venivano poi accettate dai rappresentati talebani. Un esponente della rappresentanza talebana a Doha, che aveva presieduto alle riunioni, ha asserito “Un altro evento a cui ho assistito è quello dei componenti della rappresentanza talebana che si spiavano l’un l’altro per conto dell’ISI in cambio di alcune borse di studio e di carte d’identità pakistane. L’ISI ha assoldato le persone più insospettabili collocate lungo la nostra linea di frontiera come loro spie”.

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Sembra, inoltre, che il giorno prima della firma dell’accordo di pace, Baradar abbia ricevuto una telefonata in cui gli si imponeva di chiedere ai funzionari del Qatar preposti all’organizzazione della cerimonia del trattato di pace di invitare all’evento due generali dell’ISI, rispettivamente il generale Faiz Hameed, attuale direttore generale del servizio segreto e il generale Hassan Azhar Hayat, in forza alla sede dell’ISI di Islamabad.

Il 29 febbraio 2020, gli Stati Uniti siglano l’accordo di pace con i talebani a Doha dopo mesi di negoziati, per porre fine ad un conflitto durato più di 18 anni. Per la parte talebana, l’accordo di pace doveva essere firmato da Sher Mohammad Abbas Stanikzai, figura di spicco tra i leader talebani e attuale capo del Taliban’s political office a Doha, ma qualcosa va storto e a firmare l’accordo è proprio Baradar, in funzione di presunte pressioni esercitate dall’ISI su Maulvi Amir Khan Mottaqui, considerato un uomo “…che ha una grande influenza sull’ISI, considerato uno degli riferimenti principali dell’ISI e difensore dell’ISI”.

Per ironia della sorte Mottaqui è il leader talebano che giovedì 19 agosto scorso avrebbe concluso un accordo in un incontro a Charikar, capitale della vicina provincia di Parwan, con una delegazione del Panjshir, ultimo baluardo della resistenza contro i talebani in Afghanistan, per cercare di trovare una soluzione pacifica al loro conflitto. A confermare l’incontro è stato Fahim Dashty, stretto collaboratore di Ahmad Massoud (nella foto sotto), figlio di Ahmad Shah Massoud, lo stimato capo della guerriglia dell’Alleanza del Nord assassinato nel 2001.

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In buona sostanza, anche sull’accordo che dovrebbe sancire la conclusione del conflitto tra le milizie di Massoud e il nascente governo di Kabul spiccherebbe, ancora una volta, l’ombra dell’ISI. Vale la pena di ricordare che le organizzazioni terroristiche Lashkar-e Taiba e Lashkar-e Jhangvi, entrambe basate in Pakistan, avrebbero collaborato fattivamente con i talebani per la conquista di Kabul.

Secondo le ultimissime news diffuse dai media internazionali, sarebbe certa la nomina di Baradar quale leader del nuovo Governo. Assumerà un ruolo di rilievo anche Sirajuddin Haqqani, eccellente comandante militare e fidatissimo collaboratore dell’ISI. Com’era stato già annunciato da tempo, oggi, Faiz Hameed , si è recato in visita a Kabul. È il primo leader di un paese straniero a recarsi in Afghanistan, una visita che conferma, questa volta ufficialmente, quale sarà il ruolo del Pakistan nel futuro governo a guida talebana.

Ciò che sembra indubitabile, per i prossimi anni, è il ruolo decisivo che assumerà il Pakistan nello scacchiere mediorientale, grazie soprattutto al suo più affidabile ed efficiente braccio operativo: l’ISI. Il servizio segreto pakistano ha collaborato per anni, e in diversi modi, con la CIA per anni, ma nel contempo hanno “giocato” una partita su più fronti, contribuendo, ad esempio, al sostegno dei talebani contro le forze militari occidentali della coalizione.

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Non dobbiamo dimenticare che il primo ministro pakistano, Imran Khan, pochi giorni dopo la presa di potere dei talebani, aveva dichiarato che gli afghani avevano “rotto le catene della schiavitù”. Raoof Hasan, il suo special assistant, aveva scritto su Twitter che “il meccanismo che gli Stati Uniti avevano messo insieme per l’Afghanistan si è sbriciolato come il proverbiale castello di carte”.

Quando il presidente afghano Ghani fuggì dal paese, Hasan salutò quello che aveva definito “un passaggio di potere praticamente regolare” dal governo “corrotto” di Ghani al governo dei talebani. Per Islamabad la conquista del potere in Afghanistan da parte dei talebani, assume un valore ben più significativo del semplice cambiamento della geografica politica nello scacchiere mediorientale: è un duro colpo all’influenza dell’India, storico e acerrimo nemico del Pakistan.

Non è infatti un caso che il paese indiano, alleato dell’ex presidente Ghani, abbia frettolosamente chiuso i suoi consolati in Afghanistan mentre i talebani avanzavano. Nelle ultime settimane, secondo alcune fonti, il direttore della Cia, William Burns avrebbe effettuato una visita senza preavviso a Islamabad per incontrare i vertici dell’esercito pakistano e dell’ISI. Oggetto dell’incontro sarebbe stato l’aiuto del paese per le future operazioni statunitensi in Afghanistan.

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Secondo alcune fonti, durante i colloqui, i pakistani avrebbero imposto una serie di restrizioni in cambio dell’uso di una base nel Paese, tra le quali l’approvazione preventiva dei pakistani per ogni missione o obiettivo che la CIA o l’esercito intendesse condurre in territorio afghano.

Tutti questi elementi dovrebbero contribuire a indurre le potenze Occidentali a puntare sul Pakistan con l’obiettivo di influenzare la composizione e la politica del nuovo esecutivo afghano, ottenere garanzie circa il rispetto di minoranze e diritti umani, il controllo di eventuali flussi di profughi e l’astensione del governo talebano da ogni forma di cooperazione e complicità con i movimenti terroristici.  Non ultimo, anche per non lasciare il campo totalmente libero alla Cina.

@GianandreaGaian 

Foto: US DoD, ISI, UK MoD e Twitter

 

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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