Serbia e Kosovo sono davvero vicini ad un accordo?

 

 

“Nulla è come appare”, una saggia massima da apprendere rapidamente e tenere in dovuta considerazione da parte di chi opera, ha operato o ritiene di poter svolgere un ruolo determinante nella risoluzione delle controversie balcaniche. Il riferimento si addice in particolare alla ultra decennale mediazione Ue, denominata “facilitazione del dialogo”, fra Serbia e Kosovo.

Ricordo come fosse ieri che l’aver appreso e applicato senza alcuna preclusione il saggio consiglio proveniente dagli stessi ambienti locali, portò a risultati sostanziali e al rispetto della mia funzione da parte dei contendenti durante il periodo in cui mi trovai a gestire un comune misto fra kosovari albanesi e serbi per conto dell’Onu subito dopo la guerra contro Milosevic. Sono passati oltre 20 anni eppure il principio resta immutato.

Purtroppo, a livello molto più importante di quello in cui mi trovai implicato, l’aver sottovalutato la saggezza popolare, ha prodotto enormi ritardi nei negoziati, rafforzato la mancanza di fiducia fra le parti e soprattutto la sgradevole impressione che i contendenti avessero poco rispetto, al punto di incrinarne la credibilità, per il facilitatore del dialogo, il mediatore.

Riprendendo il filo del precedente articolo sui Balcani e il ruolo dell’Italia apparso nel dicembre scorso su Analisi Difesa, quali sono state le evoluzioni del dialogo far Serbia e Kosovo, è opportuno cominciare a cantar vittoria sbandierando finalmente un accordo accettato dai contendenti basato sulla proposta franco-tedesca fatta propria dalla Ue e appoggiata dagli Usa?

Il 27 febbraio scorso si è tenuto a Bruxelles l’incontro fra il Presidente serbo Vucic e il Primo ministro kosovaro in cui entrambi hanno accettato il piano franco-tedesco. Accettazione verbale in presenza del Responsabile della politica estera e sicurezza Ue Josep Borrell. Nessuna firma congiunta e soprattutto rimandata al 18 marzo a Ohrid, in Macedonia del Nord, la discussione sull’allegato, parte integrante dell’accordo, che definisce l’applicazione esecutiva dello stesso.

Sarà dunque l’approvazione formale dell’allegato a sancire l’avvio operativo dell’intesa scaturita da un processo fin troppo lungo e tortuoso. Processo che senza l’incessante pressione degli Usa su Kosovo e Serbia, indirettamente anche sulla Ue, non avrebbe ottenuto il parziale esito positivo delle trattative.

Sembra quindi prematuro mostrare troppo ottimismo come si è già palesato in diverse dichiarazioni ufficiali. Quasi che le lezioni del passato non fossero state recepite.

“Nulla è come appare”. Il piano franco-tedesco infine approvato da tutti i Paesi Membri della Ue e sottoposto ufficialmente a Serbia e Kosovo, dopo alcune limature e mesi di trattative sulla bozza, con la formula prendere o lasciare, nessun articolo è ulteriormente negoziabile, presenta diverse ambiguità, funzionali a non creare troppo scontento fra le parti.

Non prevede che l’indipendenza del Kosovo venga riconosciuta ufficialmente, inaccettabile per i serbi nella cui Costituzione il Kosovo resta provincia serba, ma impegna la Serbia a non ostacolare l’ingresso del Kosovo nelle organizzazioni internazionali.

I due Paesi avvierebbero “relazioni di buon vicinato sulla base di uguali diritti” riconoscendo documenti, emblemi nazionali, passaporti e targhe automobilistiche emessi dalle parti. Scambiandosi “missioni permanenti”, formalmente non ambasciate, rifiuterebbero l’uso della forza per la risoluzione delle controversie in conformità con la Carta delle Nazioni Unite.

Tali disposizioni prevedono in sostanza la normalizzazione dei rapporti fra Serbia e Kosovo un riconoscimento reciproco de facto pur se volutamente viene evitata l’espressione formale. La Serbia dovrà dunque accettare un compromesso gravoso considerate le posizioni di partenza. Per il Kosovo altrettanto gravoso sarà accettare l’istituzione di una Associazione di Comuni a maggioranza serba con un “livello adeguato di autogestione” per la comunità serba in Kosovo.

Inizialmente negli accordi del 2013 fu prevista una autonomia dell’Associazione dei comuni a maggioranza serba, ratificata dal governo kosovaro dell’epoca ma poi rifiutata da un successivo governo kosovaro a partire dal 2015. Tale voltafaccia fu all’origine dello stallo dei negoziati e delle successive crisi fra le parti con il mediatore Ue incapace di far rispettare impegni siglati e sbloccare la situazione per ben 8 anni.

 

L’incontro di Ohrid del 18 marzo 2023, il negoziato sull’Allegato al testo dell’accordo.

Le cronache riportano 12 ore di estenuante negoziato fra il presidente serbo Vucic e il primo ministro kosovaro Kurti in presenza dei mediatori Ue Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera e difesa, e Miroslav Lajcak, inviato speciale europeo per il dialogo Serbia-Kosovo. Come osservatore presente anche Gabriel Escobar, inviato speciale Usa per i Balcani occidentali.

Obiettivo dell’incontro l’accettazione del documento allegato al Piano Ue, già approvato verbalmente dalle Parti il 27 febbraio 2023 a Bruxelles, contenente i dettagli esecutivi e temporali per la messa in atto.

Anche in questo caso non vi è stata alcuna firma ufficiale, per il rifiuto preannunciato dal presidente serbo Vucic, ma “impegno reciproco a rispettare tutti gli articoli dell’accordo di base e dell’allegato e ad attuarli in buona fede” come ha testualmente riferito al termine dell’incontro Josep Borrell. L’allegato di attuazione, che consiste in 12 punti parti integranti dell’accordo, è stato considerato adottato sulla base di intese verbali.

In sintesi per quanto riguarda il vero nodo di tutta la trattativa, in linea con il testo dell’Allegato e con l’articolo 7, il Kosovo si impegna ad avviare “immediatamente” con l’Ue i negoziati per garantire un “adeguato livello di gestione autonoma” all’ Associazione dei Comuni a maggioranza serba in Kosovo.

Quali gli sviluppi concreti e le garanzie offerte in attesa della formalizzazione delle intese? Dove si nascondono le insidie?

In questa importante occasione bisogna dare atto ai facilitatori del dialogo, sostenuti dalle decisive pressioni Usa, di avere infine previsto e fatto avallare alle parti riottose due impegni vincolanti a garanzia del buon andamento del processo di normalizzazione dei rapporti.

  1. Creazione entro 30 giorni di un comitato di monitoraggio composto da rappresentanti delle due parti e presieduto dall’Ue al fine di attuare tutte le disposizioni del Piano e dell’Allegato esecutivo.
  2. L’accettazione dell’accordo e relativo allegato esecutivo costituiranno parte integrante dei rispettivi percorsi verso l’adesione all’UE. Tutti gli articoli saranno attuati indipendentemente l’uno dall’altro. In particolare il mancato rispetto degli obblighi derivanti dall’Accordo, dall’allegato e dai precedenti accordi di dialogo, implicherà conseguenze negative dirette sui processi di adesione Ue di Serbia e Kosovo e sugli aiuti finanziari che ricevono e riceveranno dall’Ue. In sostanza l’Ue non dovrebbe effettuare alcun esborso prima di aver accertato la piena attuazione delle disposizioni dell’Accordo.

 

Le insidie

Pur se lungamente discussi, avallati e infine approvati da Serbia e Kosovo, il Piano e l’allegato esecutivo restano documenti non firmati, basati su intese verbali anche se, a differenza del passato, è stato accettato l’impatto concreto dell’esecuzione del Piano sui rispettivi percorsi di adesione all’Ue. La formalizzazione dell’Accordo resterà tuttavia un obiettivo da raggiungere a breve.

Raggiunta comunque un’intesa fra i contendenti, restano nodi rilevanti da sciogliere e molti interrogativi. Innanzitutto mancano i dettagli sui poteri dell’Associazione dei comuni a maggioranza serba del Kosovo.

Non è stato chiarito se i serbi rientreranno nelle istituzioni kosovare dopo il boicottaggio ancora in atto e parteciperanno alle elezioni locali. Ciò dovrebbe avvenire ma solo a seguito di una soddisfacente autonomia concessa all’Associazione dei comuni a maggioranza serba.

Sarà in grado l’Ue di far rispettare l’accordo anche in caso di difficoltà attuative? L’indipendenza del Kosovo sarà riconosciuta anche dai 5 Stati Membri Ue, Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia, Cipro, che non l’hanno ancora fatto? Riusciranno il premier kosovaro Kurti e soprattutto il presidente serbo Vucic a superare le contestazioni interne mantenendo inalterati i compromessi faticosamente raggiunti?

Aleggia poi a nostro modesto parere un elemento determinante per la riuscita del processo di normalizzazione dei rapporti e della stessa auspicata stabilità balcanica. Ne abbiamo già scritto nel precedente articolo su Analisi Difesa. In assenza di un coinvolgimento diretto o indiretto della Federazione Russa nelle trattative più ampie relative alla stabilità balcanica, sarà più difficile per la Serbia rispettare tutti gli impegni senza attuare probabili rinvii, invocare pretesti a fronte di altrettanto probabili rigidità kosovare.

 

Il ruolo italiano

L’Italia ha riassunto il Comando delle forze Nato in Kosovo ed è presente attualmente con il contingente militare più importante. In una fase di superamento delle crisi e inizio di un processo di normalizzazione dei rapporti fra Serbia e Kosovo, il comando italiano implica una rilevanza maggiore sia dal punto di vista militare che politico.

A seguito dell’iniziativa franco-tedesca da cui l’Italia e la stessa Ue erano state in pratica escluse, il nostro Paese ha finalmente puntato i piedi manifestando con il nuovo governo aperta contrarietà per iniziative non coordinate, inviando, fatto senza precedenti, due ministri di peso, esteri e difesa, in missione ‘congiunta in Serbia e Kosovo nel novembre scorso.

L’obiettivo dell’attivismo italiano è stato efficacemente sintetizzato da una dichiarazione del ministro deklla Difesa, Guido Crosetto: “Abbiamo deciso di portare a livello politico lo stesso peso che abbiamo qui dal punto militare”.  L’evento e il successivo Vertice sui Balcani occidentali del 6 dicembre 2022 hanno contribuito a riposizionare l’Italia nei Balcani, area più che mai prioritaria per il nostro Paese anche per l’incremento esponenziale dei flussi migratori su tale rotta. In effetti da inizio 2023 si è potuto riscontrare un ruolo italiano più dinamico e determinato soprattutto a livello politico poiché dal punto di vista militare l’importanza della nostra presenza non è mai stata messa in discussione.

 

Migranti e Mediterraneo orientale

In questo contesto pur volendo intravedere qualche nota positiva in sede Ue sull’annosa questione dei migranti illegali, sulle redistribuzioni, tuttora volontarie, fra Stati, sulla piena consapevolezza e volontà di voler tutelare le frontiere marine e meridionali dell’Europa come interesse comune, siamo ancora lontani da qualche decisione concreta, d’impatto, su una crisi i cui risvolti appaiono sempre più pericolosi. Non solo per l’Italia in prima battuta ma per tutti i Paesi Membri del fronte sud ovvero Spagna, Grecia, Cipro, Malta. La guerra russo-ucraina ha contribuito a peggiorare la situazione anche sulla rotta terrestre balcanica.

Restano pertanto sempre più incomprensibili l’approccio e le rigidità burocratiche di Bruxelles, le rivalità fra Stati dell’Europa del nord e del sud. O meglio si continuano a privilegiare gli interessi di parte anche di fronte a pericoli rilevanti per la sicurezza e la stabilità dell’eurozona. La Ue, come l’Onu del resto, non appare in grado di arginare né di intervenire operativamente nell’ambito di un’azione comune di politica estera e difesa che esuli dal sostegno all’Ucraina.

Il nostro Paese dovendo far fronte ai vincoli di bilancio, alle scadenze del PNRR, alle pressioni dei Paesi frugali, satelliti della Germania, ad una politica estera percepita dai nostri competitori come debole e subalterna, dovrà giocoforza agire con inusitata determinazione per uscire dagli squilibri del passato, eppure al tempo stesso dovrà ricorrere ad “acrobatici” equilibrismi per far valere le proprie ragioni senza rischiare un isolamento deleterio. E’ questa la sfida che il nuovo governo sembra abbia raccolto e che dovrebbe condurre al riposizionamento dell’Italia soprattutto nel Mediterraneo allargato.

I numeri sono impietosi, nei primi tre mesi dell’anno sono sbarcati in Italia oltre 27.000 migranti, il quadruplo di quanto avvenuto nel 2021 e 2022 nello stesso periodo temporale. Le proiezioni per fine anno indicano oltre 130.000 migranti da accogliere, il 90% circa dei quali sarebbero migranti economici o illegali.

Le stesse cifre quadruplicate dovrebbero imporre riflessioni meno ancorate alla demagogia e più al realismo. Dovrebbe risultare evidente che la crisi migratoria non possa più essere trattata esclusivamente come evento umanitario epocale. Non lo è mai stato. O meglio per coloro che fuggono realmente da eventi bellici, catastrofi naturali non vi possono essere restrizioni all’accoglienza e allo status di rifugiati.

Trattasi tuttavia della minoranza dei partenti. Accanto quindi alle indiscutibili partenze di carattere umanitario andrebbero considerate anche le strategie terroristiche, i traffici delle organizzazioni criminali, i palesi obiettivi per indebolire l’Europa, in particolare una media potenza di grande importanza strategica come l’Italia, considerata l’anello debole su cui fare affluire il massimo della massa d’urto creando tensioni interne nel Paese di primo sbarco ed infine fra gli stessi Stati europei.

E’ quanto sta avvenendo e quanto continuerà a prodursi con incrementi sostanziali in assenza di una risposta pragmatica attuata sia individualmente che auspicabilmente, collettivamente dagli Stati più coinvolti sul fronte sud del Mediterraneo e non solo. La guerra russo-ucraina e il parziale disimpegno francese dall’Africa sub-sahariana hanno, se possibile, accentuato il fenomeno, rendendo tuttavia più evidente un piano destabilizzante iniziato da almeno un decennio.

A seguito della incresciosa perdita di influenza Italiana in Libia, Somalia, Vicino oriente, Balcani a discapito della Turchia, della Federazione Russa e dei nostri competitori alleati, il nostro Paese è stato costretto a dotarsi, con colpevole ritardo, di una strategia africana entrata a regime solo da pochissimi anni ed attualmente rafforzata e resa ancor più operativa dal nuovo governo.

Da anni riportiamo su Analisi Difesa la necessità di attuare accanto ai programmi di stabilizzazione e sicurezza, un Piano Marshall per l’Africa sub-sahariana a livello Ue, la stessa Ue ne annunciò la preparazione addirittura nel 2017 senza poi concretizzare le montagne di carta scritte sull’argomento. Auspicammo anche una fase iniziale per l’Italia, realizzabile con fondi limitati, che si chiami ora Piano Mattei o altro al fine di promuovere una maggior penetrazione italiana, dare visibilità anche a piccole ma concrete azioni bilaterali, divenire attori riconosciuti e protagonisti e come tali essere considerati al momento della partecipazione al grande Piano di ricostruzione e sviluppo finanziato idealmente da Ue e Usa.

Una esecuzione iniziale del Piano, almeno dal 2018, avrebbe certamente creato posti di lavoro, impiegato mano d’opera giovanile africana, riducendo i reclutamenti da parte delle organizzazioni criminali, i traffici di esseri umani, contrastato più efficacemente la penetrazione russa in nord Africa, russa e cinese nel Sahel, ridotto la vistosa penetrazione turca, e dei fratelli musulmani, nel nord Africa e nel Sahel, evitato un ripiegamento francese fin troppo evidente e penalizzante per tutti in relazione alle nuove sfide sopramenzionate.

A fronte di crisi regionali sempre più gravi, incombenti, di guerre asimmetriche e guerre nascoste fra le sabbie desertiche, il nostro Paese dovrà probabilmente contare molto di più su azioni individuali, identificabili, seppure in un quadro che resterà multilaterale, a difesa degli interessi nazionali prioritari oltre che dei confini, in attesa che si concretizzino iniziative sul campo di politica estera e difesa comune Ue.

Un approccio pragmatico non potrà evitare l’uso della nostra Marina militare a fini non solamente umanitari bensì di presenza attiva, non aggressiva ma di contrasto e risposta alle azioni ostili, così come si è delineata la necessità operativa di un coordinamento sempre più stretto e produttivo con i francesi in Nord Africa e Sahel.

In sintesi l’Italia dovrà recuperare influenza, ceduta troppo remissivamente adottando una linea delegante al multilaterale rivelatasi purtroppo fallimentare negli anni, nelle aree per noi prioritarie. Recuperare il ruolo che compete al nostro Paese nel Mediterraneo assieme ad un’autorevole credibilità andrebbe visto e considerato da tutti non come una svolta aggressiva o sovranista, bensì semplicemente una doverosa necessità dettata dagli eventi.

Ancora una volta sembra opportuno ricordare che i Paesi a noi vicini alleati o meno, a maggior ragione in contesti di crisi, permettono ai rispettivi governi di agire in politica estera nell’interesse nazionale condiviso da maggioranze e opposizioni basandosi tradizionalmente su alcuni parametri ben definiti difficilmente rimessi in discussione da esigenze partitiche o elettorali del momento. Non offrono spunti per indebolire nei consessi internazionali la posizione del governo in carica il quale è tenuto a rispettare le priorità condivise. Un atteggiamento purtroppo non ancora assimilato da noi. Da cui deriva la percezione di una politica estera italiana debole, ambigua, mai del tutto affidabile.

L’esempio della gestione della crisi migratoria dovrebbe essere illuminante. I super democratici Paesi scandinavi adottano misure restrittive quasi draconiane per evitare accoglienze non desiderate e numeri considerati ingestibili, al pari dei Paesi del gruppo Visegrad i quali a loro volta accolgono centinaia di migliaia di ucraini in fuga. Per non parlare delle misure adottate da Francia, Spagna, Grecia a difesa delle rispettive frontiere.

L’agire ognuno per sé é dovuto finora essenzialmente alla incapacità del costosissimo apparato Ue la cui ultima rappresentazione ha sfiorato il farsesco. Nell’ultimo Consiglio europeo del 23-24 marzo scorso, su pressione italiana viene inserita in Agenda la Crisi migratoria. Giunti al punto in questione se ne riconosce l’estrema urgenza e priorità tuttavia per una verifica operativa se ne riparlerà a giugno.

Foto: Wiki, Difesa.it, Unione Europea e Frontex

Illustrazione di Nikola Jovanovic (via Telegraf.rs)

 

 

E' uno dei maggiori esperti italiani di operazioni internazionali di stabilizzazione, peacebuilding, cooperazione e comunicazione nelle aree di crisi. Dagli anni 80 ha ricoperto incarichi di responsabilità crescenti per l’Onu, la UE e il Ministero degli Esteri in Africa (13 anni), Medio Oriente e Balcani. Specialista di negoziati complessi, è stato Sindaco Onu in Kosovo della città mista di Kosovo Polje dal 1999 al 2001, ha guidato, primo non americano, il PRT di Nassiriyah in Iraq nel 2006 ed è stato Portavoce e Capo della comunicazione della missione europea di assistenza antiterrorismo EUCAP Sahel Niger fino al 2016. Destinatario di un’alta onorificenza presidenziale Senegalese, per l’editore Fermento ha scritto "Alla periferia del Mondo". Scrive su riviste specializzate ed è un apprezzato commentatore per radio e tv.

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