Striscia di Gaza: l’unica opzione per fermare la carneficina

 

La situazione intorno alla Striscia di Gaza non sembra offrire vie d’uscita alternative a un’operazione militare israeliana lunga e sanguinosa all’interno della Striscia di Gaza con l’obiettivo di eliminare i circa 25 mila combattenti odi Hamas, Jihad Islamica Palestinese e altre milizie minori palestinesi. Come abbiamo sostenuto più volte su Analisi Difesa la violenza dell’incursione di Hamas in territorio israeliano iniziata il 7 ottobre impone a Israele di dimostrare la propria forza e la determinazione a “vendicare” (verbo utilizzato dal premier Benyamin Netanyahu) i propri morti e i circa 200 ostaggi deportati all’interno della Striscia con un’operazione militare tesa a cancellare definitivamente Hamas e le milizie sue alleate.

Per Israele si tratta di un obiettivo che è necessario raggiungere per poter dichiarare una vittoria quanto mai necessaria per vendicare l’attacco subito e porre in sicurezza le regioni meridionali ma anche per rispondere alle feroci critiche rivolte dall’opinione pubblica al governo di Benjamin Netanyahu

Da un sondaggio realizzato dal Lazar Institute con Panel4All per il quotidiano Maariv, emerge che l’80% degli israeliani – compreso il 69% di coloro che hanno votato per il Likud alle ultime elezioni – ritiene che Netanyahu debba ammettere le colpe per l’attacco subito da Hamas. Inoltre, il 65% degli israeliani afferma di essere d’accordo sull’avvio di un’operazione di terra delle forze israeliane nella Striscia di Gaza, controllata da Hamas (contrario il 21%). E il 51% del campione di 510 persone interpellate è favorevole a un’operazione su vasta scala contro Hezbollah sul confine libanese (il 30% vorrebbe un’operazione ‘contenuta’). Infine il 49% ritiene che il miglior premier sarebbe Benny Gantz (generale oggi politico) contro il 28% di Netanyahu.

Al contrario Hamas, che ha già vinto sul piano politico-strategico poiché la reazione dello Stato Ebraico ha già bloccato il processo di pacificazione e riavvicinamento tra Israele e molte nazioni arabe, ha solo bisogno di sopravvivere per ergersi a vincitore di questa guerra. Infatti Israele sta chiudendo diverse ambasciate in Medio Oriente, incluse quelle in Turchia, Bahrein, Giordania, Marocco ed Egitto ma sarebbero almeno 20 le sedi diplomatiche destinate a chiudere o ridurre al minimo organici e attività.

Allo stato attuale, per conseguire pienamente i loro obiettivi, i miliziani palestinesi devono non solo continuare a combattere con tenacia ma anche mostrare mediaticamente al mondo un crescente massacro di civili e di distruzioni di case, scuole e ospedali con lo scopo di sollecitare l’opinione pubblica occidentale a imporre ai rispettivi governi di esercitare pressioni su Israele affinché fermi l’offensiva, come del resto è già accaduto innumerevoli volte.

A questo proposito non sono state ancora chiarite le responsabilità per l’ordigno che ha colpito l’ospedale di al- Ahli al di là delle reciproche accuse. Appare però improbabile che un numero così alto di morti (470 secondo Hamas, tra 100 e 300 secondo fonti d’intelligence statunitensi) possa venire provocato da un razzo Qassam o Grad lanciato contro il territorio israeliano ma andato fuori rotta e caduto sull’ospedale, anche ipotizzando che il combustibile del razzo abbia provocato un incendio.

Gli Stati Uniti, che mantengono un controllo capillare satellitare sulla regione, hanno escluso fin da subito che si sia trattato di un ordigno israeliano. Una valutazione analoga era stata espressa dagli USA anche un anno or sono quando un missile terra-aria cadde in territorio polacco uccidendo due civili: Kiev accusò per mesi i russi ma il Pentagono fece subito sapere di avere le prove che il missile finito fuori rotta era ucraino. Infine il fatto che le strutture degli edifici colpiti non siano collassate potrebbe indurre a ritenere che l’ordigno sia esploso a diversi metri d’altezza e non al suolo.

Di certo quanto accaduto all’ospedale ha esacerbato gli animi e se in Europa politica e media sembrano appiattite su posizioni filo-israeliane nel mondo arabo si registrano reazioni diametralmente opposte: scenario che non favorisce certo una mediazione nè la possibilità che Stati Uniti ed Europa possano mediare l’attuale crisi e impedire un’escalation che potrebbe vedere anche l’allargamento del conflitto a Siria e Libano. Un disastro per l’Europa che dopo aver rinunciato all’energia russa puntava sugli enormi giacimenti di gas del Mediterraneo Orientale per i suoi approvvigionamenti e si appoggia oggi per le forniture su nazioni nordafricane schieratesi senza alcuna esitazione al fianco di Hamas e della causa palestinese.

L’ipotesi caldeggiata da molti di sfollare i civili dalla Striscia di Gaza per metterli a riparo dall’offensiva israeliana, per ora solo aerea ma che presto potrebbe vedere l’invasione della Striscia, è stata già scartata soprattutto dalle nazioni arabe più vicine come Egitto e Giordania.

Il territorio del Sinai egiziano costituisce di fatto l’unico sbocco possibile per una simile iniziativa a cui il Cairo si oppone con determinazione. Il Senato egiziano ha votato per autorizzare il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al Sisi ad adottare tutte le misure necessarie per proteggere la sicurezza nazionale egiziana. alla luce “della volontà di Israele di sfollare i palestinesi presenti nella Striscia di Gaza nel Sinai”.

Comprensibile che l’Egitto non voglia portarsi in casa palestinesi che da 16 anni vengono “educati”, nelle scuole come nell’intera società di Gaza, al jihad mentre ad aumentare le preoccupazioni del Cairo contribuisce anche la dichiarazione resa il 17 ottobre dal ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen circa la volontà di ridurre l’estensione del territorio palestinese. “Alla fine di questa guerra, non solo Hamas non sarà più a Gaza, ma anche il territorio di Gaza diminuirà” confermando le voci circa l’obiettivo di costituire una “zona cuscinetto” all’interno dei confini della Striscia di Gaza per proteggere meglio le città del sud di Israele.

Neppure Amman, che già confina con la Cisgiordania palestinese, ha certo interesse a portarsi in casa parte della popolazione di Gaza indottrinata al jihad e certo ideologicamente ostile alla monarchia Hashemita alleata dell’Occidente e degli Stati Uniti come lo furono al-Qaeda e l’ISIS.

Per tutte queste ragioni politiche e strategiche, ma anche per ragioni squisitamente logistiche, l’unica ipotesi negoziale tangibile e credibile su cui lavorare per interrompere le ostilità o ridurne la durata, le vittime e le devastazioni è rappresentata dall’evacuazione dalla Striscia di Gaza dei miliziani di Hamas, Jihad Islamica Palestinese e altri gruppi minori presenti in quel territorio per trasferirli verso nazioni che sostengono tali movimenti e già ospitano formazioni e milizie ostili a Israele.

Escludendo la disponibilità all’accoglienza del ricco e piccolissimo Qatar (ben disposto a finanziare Hamas e a ospitarne i leader ma non certo i combattenti) i possibili candidati potrebbero essere l’Iran o più facilmente la Siria mentre il fragile Libano rischierebbe di sprofondare in una nuova guerra civile con l’innesto di una ulteriore milizia jihadista.

Un’operazione simile a quella attuata nell’agosto 1982 in Libano, quando l’invasione israeliana (Operazione Pace in Galilea) tesa ad eliminare la minaccia dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) che colpiva il territorio israeliano dal Libano, determinò una mediazione statunitense che con il contributo di truppe italiane, americane e francesi permise l’uscita da Beirut dei miliziani palestinesi e il trasferimento a Tunisi di Yasser Arafat e dei vertici dell’OLP.

Difficile ritenere che al momento attuale Hamas e le altre milizie siano disponibili a sloggiare dalla Striscia di Gaza ma la determinazione di Israele a chiudere i conti con loro e la progressiva intensificazione degli attacchi potrebbero indurre tra breve i leader di Hamas a cedere per evitare l’annientamento, anche avvalendosi della nobile motivazione di risparmiare le vite di tanti civili palestinesi (paradossale per un movimento jihadista che ha sempre esposto come scudi umani i civili).

Il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, ha espresso il 19 ottobre la valutazione che la miglior soluzione per una Gaza post Hamas sia il ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nella Striscia. “Penso la cosa migliore sia il ritorno a Gaza dell’ANP”- ha detto Lapid a Times of Israel – “non è l’ideale, ma se mi chiedete quale deve essere l’exit strategy, dovrebbe essere di aiutare la comunità internazionale” ad aiutare l’ANP a riprendere il controllo. “Non ci fermeremo finché Hamas non se ne sarà andato”, ma “combattiamo con Hamas, non con la gente di Gaza”, ha sottolineato.

Il tema di salvaguardare la popolazione da ulteriori sofferenze vedrebbe forse convergere anche parte del mondo arabo a sostegno di una simile iniziativa diplomatica, di certo gradita all’Egitto che allontanerebbe dai suoi confini un gruppo jihadista costola ideologica di quei Fratelli Musulmani che il Cairo ha posto fuori legge, ma pure alla Giordania che vedrebbe forse positivamente l’allontanamento delle milizie palestinesi più estremiste.

Per Hamas si tratterebbe di una sconfitta che non le impedirebbe di riarmarsi e riorganizzarsi altrove sotto l’ombrello dei suoi sponsor, compensata però dalla vittoria politica e strategica di aver compromesso l’avvicinamento tra Stato Ebraico e mondo arabo e dal fatto di sopravvivere alla furiosa risposta di Tsahal.

Per Israele la vittoria sarebbe “quasi completa” perché otterrebbe la resa e il disarmo di Hamas in cambio dell’evacuazione dei suoi miliziani garantendosi la sicurezza dei confini meridionali, obiettivo perseguito fin dal 2005 con il ritiro dalla Striscia di Gaza. Certo Hamas non verrebbe annientato ma pesantemente indebolito e allontanato dai confini meridionali israeliani.

Il territorio palestinese potrebbe tornare sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, entità certo debole ma che uscirebbe rafforzata da un simile accordo soprattutto se venisse previsto lo schieramento di una forza multinazionale dell’ONU (sulla falsariga di UNIFIL in Libano?) o composta da una “coalition of the willing” come la MFO presente in Sinai.

Daniel Pipes, fondatore e direttore del Middle East Forum, nell’articolo dal titolo “A Decent Outcome Is Possible in Gaza” pubblicato il 17 ottobre sul Wall Street Journal e in italiano da L’opinione delle Libertà, valuta che “molti dati suggeriscono che la maggior parte degli abitanti di Gaza non vuole fungere da pedine in un ossessivo e illusorio jihad contro Israele. I sondaggi rilevano un enorme sostegno tra gli abitanti di Gaza per la dichiarazione secondo cui “i palestinesi dovrebbero esercitare più pressioni per sostituire i propri leader politici con altri più efficienti e meno corrotti”. Pipes cita un sondaggio effettuato a luglio dal Washington Institute for Near East Policy da cui emerge che il 62 per cento degli abitanti della Striscia di Gaza vuole mantenere un cessate il fuoco con Israele e la metà vuole che Hamas smetta di invocare la distruzione di Israele.

Dati che dovrebbero incoraggiare iniziative diplomatiche che, abbinate all’offensiva israeliana, possano condurre al ritiro delle milizie jihadiste dalla Striscia di Gaza.

La composizione di un’eventuale forza di pace (o di interposizione tra i territori palestinesi e Israele) da dispiegare dipenderà anche da chi gestirà un ipotetico negoziato per raggiungere la smilitarizzazione della Striscia di Gaza e lo sgombero dei miliziani. A differenza di Beirut nel 1982, è difficile ritenere che possano oggi farlo gli Stati Uniti, troppo appiattiti sulla difesa di Israele e sulla ferma condanna di Hamas quale movimento terroristico mentre le ultime dichiarazioni del presidente Joe Biden, in cui tra l’altro ha messo sullo stesso piano Hamas e la Russia come “minacce alla democrazia” non aiuteranno Washington a rafforzare la sua credibilità come negoziatore.

Neppure quella interna a giudicare dalle dimissioni di Josh Paul, diplomatico americano responsabile del Bureau of Political-Military Affairs del dipartimento di Stato che ha lasciato l’incarico in contrasto con la decisione dell’amministrazione Biden di fornire ulteriore sostegno militare ad Israele a seguito dell’attacco di Hamas ricevendo molti messaggi di solidarietà da parte dei colleghi.

In un’intervista al Washington Post, il diplomatico ha ribadito “l’orrore per quello che ha fatto Hamas, e per questo temo la portata della risposta di Israele. Riconosco che il diritto di Israele di rispondere e difendersi – ha poi aggiunto – ma mi chiedo quanti bambini palestinesi debbano morire in questo processo”. Paul contesta il fatto che con il robusto invio di aiuti militari ad Israele, gli Stati Uniti abbiano di fatto autorizzato il governo israeliano a fare quello che vuole contro Gaza, a prescindere dalle vittime civili. E denuncia il fatto che non c’è la possibilità all’interno del dipartimento di Stato di avviare una discussione su questo: “non c’è spazio per un sostanziale dissenso, ed è questo che mi ha portato alla decisione” di dimettermi. Paul ha alle spalle una lunga carriera accademica e diplomatica concentrata sul Medio Oriente e ha “profondi legami personali con entrambe le parti nel conflitto”.

Anche in Europa politica, media e opinione pubblica si stanno spaccando tra quanti sostengono ogni iniziativa di Israele e coloro che ritengono troppo sbilanciata la risposta militare dello Stato Ebraico. Ieri  843 funzionari della Commissione e di altre istituzioni dell’Ue, con sede a Bruxelles o in delegazioni all’estero, hanno firmato una lettera inviata alla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen (che come Biden ha messo sullo stesso piano Russia e Hamas), in cui si criticano duramente quelli che vengono definiti come “il sostegno incondizionato” a Israele da parte dell’Esecutivo comunitario, e la sua “apparente indifferenza dimostrata nei giorni scorsi riguardo ai massacri di civili in corso nella Striscia di Gaza, in spregio dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario”.

Non sembrano dunque esserci al momento le condizioni per ipotizzare un’energica e credibile azione diplomatica da parte della Ue o di qualche nazione europea per mediare la crisi.

Il vertice di pace che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha indetto per oggi al Cairo potrebbe però costituire una buona occasione per prendere in esame l’espulsione di Hamas da Gaza. Una mobilitazione in tal senso potrebbe giungere delle Nazioni Unite o da potenze neutrali, come l’India; buone carte  per poter tentare un negoziato le potrebbe avere la Turchia, vicina alla causa palestinese e ad Hamas, membro della NATO ma critico nei confronti della massiccia presenza americana in Medio Oriente e nel Mediterraneo Orientale con ben 2 gruppi navali guidati da portaerei.

Oppure la Russia che al di là del conflitto in corso in Ucraina ha mantenuto ottime relazioni con tutto il mondo arabo e con Israele al punto che l’ambasciatore israeliano a Mosca ha dovuto smentire seccamente le illazioni emerse in Europa e USA circa l’appoggio della Russia ad Hamas.

Considerando il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale emesso nei confronti di Vladimir Putin potrebbe essere il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov a mediare la soluzione della crisi di Gaza anche se, considerato l’ostracismo nei confronti di Mosca, il candidato più quotato per negoziare il ritiro di Hamas da Gaza resta senza dubbio la Cina, già artefice di uno storico accordo che ha permesso di riavvicinare dopo 40 anni di “quasi guerra” l’Iran e le monarchie sunnite del Golfo.

Israele ha duramente criticato Pechino per la mancata condanna dei terroristi di Hamas ma è evidente che Pechino, ben lontana dall’avere simpatie per i movimenti jihadisti (presenti da molto tempo anche nel Sinkiang), si è garantita così una posizione di equilibrio che la rende il perfetto mediatore della guerra di Gaza oltre che potenzialmente, il contributore più rilevante della forza di pace che dovrà presidiare la Striscia a supporto dell’ANP e a garanzia della sicurezza di Israele.

Del resto 450 caschi blu cinesi sono da molti anni inseriti nella missione UNIFIL (la foto sopra risale al 2010) in Libano e nelle missioni dell’ONU in Congo, Siria/Israele (UNTSO) Mali, Sudan, Sahara Occidentale e Sud Sudan.

Certo a Washington e in Europa un ulteriore successo diplomatico di Pechino verrebbe digerito a fatica ma indipendentemente dalle rivalità tra le potenze globali e regionali occorre mettere in campo ogni sforzo per fermare un conflitto che minaccia di allargarsi e infiammare di nuovo il Medio Oriente.

@GianandreaGaian

Foto: IDF e G. Gaiani

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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