Les Italiens ne se battent pas

Les Italiens ne se battent pas (gli Italiani non si battono) era una frase ricorrente nei circoli politici e militari europei nella seconda metà del XIX secolo per denigrare in modo insolente le (ritenute scarse) virtù militari nazionali, in un’epoca in cui tra gli Stati (europei) queste qualità erano il principale criterio di giudizio dell’identità di un popolo.
Sull’autore della famosa frase le fonti storiche sono discordanti: chi ritiene sia da attribuire al Generale francese Louis Juchault de Lamoricière (1806-1865), che nel 1860 assunse il comando dell’esercito pontificio e fu sconfitto dal generale Cialdini nella battaglia di Castelfidardo (1860); chi al politico, storico e avvocato francese Adolphe Thiers (1797-1877); chi infine al Generale polacco Wojciech Chrzanowski ( 1793–1861) che comandò l’Armata Sarda in occasione della sconfitta nella battaglia di Novara (1849).
Questo pregiudizio, quali ne siano state le origini, risale tuttavia a secoli prima. Già nel XVI secolo, in occasione delle guerre in Italia (1494-1559), si era diffusa la diceria, soprattutto per opera dei Francesi e dei Tedeschi, che gli Italiani fossero un popolo debole che aveva perduto le sue tradizioni guerriere, anche a causa della divisione della Penisola in una serie di piccoli Stati e una parte del territorio sotto il dominio straniero, che aveva portato la popolazione ad una marcata forma di “indolenza”: O Franza o Spagna purché se magna.
Tale diceria, che sembrava attribuirsi non a carenza di coraggio individuale, ma ad una mancanza di solidità e disciplina delle formazioni italiane, continuò a perpetuarsi nel tempo negli ambienti stranieri con parole più o meno simili sino al XX secolo (e talvolta ancora oggi), i quali ritenevano che gli Italiani fossero inadatti al mestiere delle armi.
Una visione volutamente denigratoria che negava il valore italiano delle compagnie che al comando di capitani italiani combatterono nelle fila spagnole nelle guerre in Italia (1494-1559) e le truppe italiane, ben inquadrate e ben condotte che si distinsero nelle campagne napoleoniche di Spagna e di Russia, come riconosciuto dallo stesso Imperatore.
Riconoscimenti di tali virtù provenienti anche da parte degli stessi avversari.
L’Arciduca Giuseppe, ad esempio, Comandante il VII Corpo d’Armata Austro-Ungarico sul Carso, scrive nel settembre 1916: “[…] dobbiamo notare come degni di ammirazione e di grande ardire lo slancio degli italiani. Un coraggio meraviglioso che – anche se nemici – si deve ricordare col più profondo rispetto”.
Lo stesso Kriegsberichte austriaco è costretto a riconoscere che le fanterie italiane “mostravano un notevole spirito offensivo nell’avanzata e un gran valore nel corpo a corpo”.
Anche nel Secondo Conflitto Mondiale, malgrado l’evidente impreparazione e comandanti non sempre all’altezza della situazione, gli Italiani seppero combattere con valore su tutti i fronti, dall’Africa alla Russia e nei Balcani.
Un esempio su tutti la carica di Cherù in Africa Orientale che ottenne l’ammirazione degli stessi Inglesi che consideravano gli Italiani “inetti in battaglia”: Il 21 gennaio 1941, a Cherù sulle pendici dell’acrocoro eritreo, ottocento cavalieri amhara, eritrei e arabi, alla testa del Comandante Diavolo (Amedeo Guillet), caricarono con il lancio di bombe a mano le truppe corazzate e i cannoni inglesi che irrompevano dal Sudan per assicurare al Generale Orlando Lorenzini ventiquattr’ore di tempo necessarie per imbastire l’ultima linea difensiva a Cheren.
Una maldicenza, che come accade spesso, si è diffusa nella convinzione nazionale ed è stata enfatizzata dopo la 2a Guerra Mondiale, secondo le tradizionali speculazioni autolesionistiche di chi ha voluto cancellare e negare il nostro passato anche per reazione alla rovinosa sconfitta nel conflitto, quale “misura” contro il ritorno di revanscismo o bellicismo del popolo italiano.
Se poi si aggiunge che figure di vertice istituzionale in occasione di visite/incontri internazionali, ritenendo di dare un’immagine positiva, hanno “dipinto” l’Italia come il Paese della mafia, pizza e mandolino!
Indubbiamente le nostre Forze Armate hanno sofferto tragiche sconfitte, come ad Adua (1896) ed a Caporetto (1917) che, grazie al retaggio della diffamazione antinazionale, sono state utilizzate come “unità di misura” per valutare la nostra recente storia militare.
Altri Paesi, che hanno subito disfatte ancora più disastrose, come i Francesi a Dien Bien Phu (1954) contro i Viet-Minh o gli Inglesi nella battaglia di Isandhlwana contro gli Zulu (1879), hanno invece esaltato il coraggio e lo spirito combattivo dei propri soldati in quei tragici eventi.
Noi, invece, ci identifichiamo nei film “Mediterraneo” e ne “Il Mandolino del Capitano Corelli”, senza dimenticare la serie delle proiezioni con il colonnello Buttiglione, con le dottoresse, infermiere ed altro in caserma degli anni ’70 ed ’80.
Forse aveva ragione Curzio Malaparte quando ne “La pelle” scriveva: «L’8 settembre 1943, quando avevamo dovuto buttare le nostre armi e le nostre bandiere ai piedi dei vincitori […] v’erano anche le bandiere di Vittorio Veneto, di Trieste, di Fiume, di Zara, dell’Etiopia, della guerra di Spagna. Erano bandiere gloriose, fra le più gloriose della terra e del mare. Perché dovrebbero essere gloriose soltanto le bandiere inglesi, americane, russe, francesi, spagnole? Anche le bandiere italiane sono gloriose. Se fossero senza gloria, che gusto avremmo trovato a buttarle nel fango?»
La narrazione degli Italiani imbelli continua ancora oggi, per ignoranza o per gratuito spirito oltraggioso, da parte di persone che ritengono di apparire spiritose nel “deridere” la nostra storia militare, come se si trattasse di pubblicizzare arredi da salotto, senza pensare di offendere cosi i nostri Caduti e le famiglie che hanno perso un loro caro.
Un atteggiamento che manca di rispetto soprattutto ai 170 Caduti registrati nelle operazioni all’estero dopo il Secondo Conflitto Mondiale, ai quali si aggiungono i feriti ed i mutilati che portano sul proprio corpo i segni di quanto sia arduo il “mestiere delle armi” e di quanto sia ipocrita chiamarle “missioni di pace”.
Non possiamo quindi stupirci se l’indagine CENSIS del 18 giugno 2025 riporta, tra l’altro, che gli Italiani tra i 18 e i 45 anni “sarebbero in larghissima maggioranza riluttanti a rispondere alla chiamata delle Forze Armate”, quando nel recente passato, per espressa volontà di alcuni Vertici politici del Dicastero, filmati ed immagini istituzionali mostravano soldati senza armi (a meno dei fucili da cerimonia dell’Accademia Militare) o mezzi da combattimento verosimilmente troppo evocanti la brutalità della guerra o forse per il timore di urtare le coscienze e disturbare il sonno illusoriamente tranquillo di ipocriti benpensanti.
Gli stessi benpensanti che dimenticano, forse volutamente, le poche, significative parole della nostra Carta costituzionale, che all’articolo 52 recita “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino“. non solo, quindi, del cittadino con le stellette.
Del resto, basta fare un confronto con la quotidiana ignobile caciara all’Altare della Patria, dove riposa il “Milite Ignoto”, con il cimitero militare di Arlington, dove viene onorato il “Milite Ignoto” statunitense!
Foto; Difesa.it
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Giorgio BattistiVedi tutti gli articoli
Generale di Corpo d'Armata (Aus.), Ufficiale di Artiglieria da Montagna, ha espletato incarichi di comando nelle Brigate Alpine Taurinense, Tridentina e Julia ed ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell'Esercito. Ha comandato il Corpo d'Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA), l'Ispettorato delle Infrastrutture e il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell'Esercito. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo nell'ottobre 2016.