“Shana ba shana” (spalla a spalla): gli interpreti afghani del contingente italiano

 Il generale Giorgio Battisti (nella foto sotto), veterano di molte missioni militari oltremare e con una lunga esperienza di comando in Afghanistan, commenta la vicenda degli interpreti e collaboratori afghani del nostro contingente e delle difficoltà ad accoglierli con i loro famigliari in Italia. La vicenda non è nuova a è stata recentemente di nuovo sollevata dalle inchieste giornalistiche di Fausto Biloslavo.

 

La notizia della morte di un soldato in operazioni provoca sempre un grande impatto emotivo sull’opinione pubblica; molto meno se è un interprete locale a subire la stessa sorte.

Non tutti sanno che ai comandanti delle unità sul terreno viene affiancata una persona che conosce sia la lingua locale sia l’inglese (o l‘italiano) con il compito di seguirli in ogni azione, rischiosa o semplice che sia, arrivando a condividere tutto: abitudini, vita e a volte anche il destino fatale.

Senza buoni interpreti o traduttori (all’atto pratico non c’è differenza) un contingente straniero dispiegato in un’area conflittuale è essenzialmente poco più che una presenza armata, la cui interazione con le comunità locali è, nella migliore delle ipotesi, estremamente limitata.

Sono gli occhi e le orecchie dei militari multinazionali e per questo sono costantemente bersaglio dei terroristi o degli insorti. Grazie alla copertura mediatica degli ultimi anni la loro situazione inizia finalmente ad emergere.

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Una dimensione che è sicuramente lontana dall’attraente immagine degli interpreti dei congressi internazionali o delle Nazioni Unite, cosi ben rappresentati da Nicole Kidman nel film The Interpreter (2005). Ho incontrato la figura dell’interprete per esigenze militari nella mia prima operazione in Somalia nel 1993.

In precedenza, pur avendo partecipato a diverse esercitazioni della Allied Command Europe Mobile Force (Land), Forza Mobile Terrestre del Comando Alleato in Europa (unità a livello Brigata leggera multinazionale di reazione immediata, creata nel 1960, da schierare in brevissimo tempo nelle aree di contingenza dei Paesi della NATO soggetto a una minaccia sovietica e sciolta nell’ottobre 2002), solo raramente avevo avuto la necessità di disporre di una persona che potesse mettermi in contatto con le realtà locali, in quanto le attività si svolgevano in ambito NATO e prevalentemente in Paesi europei, dove l’inglese e il francese erano abbastanza diffusi.

Gli interpreti, sino al quel momento, mi ricordavano gli scout indiani nei film western e le guide indigene delle operazioni coloniali.

In Turchia, negli anni ’80, durante un’esercitazione dell’AMF(L) ho iniziato a comprendere l’esigenza di un individuo che potesse agevolare la nostra presenza sul territorio e aiutarci a comprendere gli usi e i costumi locali. In occasione di quelle esercitazioni mi veniva distaccato un Ufficiale dell’Esercito Turco quale “Ufficiale di Collegamento” e, soprattutto, come traduttore: la lingua turca è veramente difficile e in quegli anni l’inglese non era molto diffuso sia tra i militari sia tra la popolazione.

Ricordo un collega britannico che pretendeva d’impartire – con il tipico stile imperiale – disposizioni in inglese a un conduttore turco, che ovviamente non era in grado di comprenderlo.

02 militari italiani e afghani presso la diga di Salma (2)

In Somalia (1993) il Comando della missione UNOSOM 2 (United Nations Operation in Somalia) aveva “arruolato” alcuni giovani che parlavano inglese per poter soddisfare le esigenze di contatto con la popolazione e per tradurre dall’inglese al somalo (e viceversa) le comunicazioni ricevute o rivolte alla gente locale.

In quel periodo ho realizzato quanto fosse rischioso questo mestiere in un’area dove i contingenti internazionali non erano sempre ben accetti e dovevano confrontarsi con avversari temibili, crudeli e determinati, che non avevano alcun rispetto per la vita umana.

Una mattina alcuni traduttori (uomini e donne) non si sono presentati come consuetudine alla sede del Comando UNOSOM 2 in Mogadiscio. Ho appreso successivamente che erano stati rapiti ed eliminati da elementi di alcune formazioni di banditi o insorti, in quanto considerati traditori e, ritengo, anche per dare un chiaro segnale intimidatorio verso altri potenziali collaboratori.

Nei primi anni ’90 del XX secolo, a seguito della fine della Guerra Fredda, gli interpreti hanno assunto un ruolo di sempre maggiore importanza con le operazioni in Africa (Somalia e Mozambico) e i conflitti nei Balcani per poi risultare fondamentali, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, con le guerre in Afghanistan e in Iraq.

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L’attività dell’interprete ha sempre rivestito una funzione vitale nel corso di tutta la storia umana, sin dall’episodio biblico della Torre di Babele, quando venivano impiegati per scopi commerciali e/o militari. Questa figura era già presente tra le tribù nomadi: la testimonianza più antica risale al 3000 a.C. ed è riportata su bassorilievi egiziani (Alan Gardiner, Egyptian Grammar, Oxford University Press, 1927).

Il problema di disporre di interpreti si presenta all’avvio di una missione, quando si è proiettati – normalmente con breve preavviso – in un Paese completamente diverso per cultura, tradizioni, storia e religione: sono l’unico collegamento diretto che i militari hanno con gli abitanti locali.

La comunicazione del militare (o civile) straniero viene elaborata e resa nella lingua del ricevente dall’interprete, il quale deve tener conto delle sensibilità dovute alle differenze culturali o dei malintesi che possono verificarsi con la traduzione; ciò rende quest’ultimo un “canale” di dialogo e, allo stesso tempo, un partecipe attivo al colloquio.

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Non esiste una procedura standard per il loro reclutamento: ogni Nazione segue una propria linea di condotta dettata dalle norme e dalle politiche nazionali. Essi sono normalmente civili senza una specifica preparazione che parlano le lingue necessarie per facilitare la comunicazione tra i militari e la popolazione.

Alcuni Stati, come gli USA, preferiscono ricercarli prioritariamente tra quelli di madrelingua che si sono trasferiti nel loro Paese, in quanto permette di verificarne sia la loro affidabilità attraverso i comportamenti avuti in precedenza sia quella delle famiglie di provenienza. In questo modo colui che viene scelto è consapevole che – non comportandosi secondo le aspettative – sono possibili ripercussioni sui propri cari e su sé stesso una volta rientrato in Patria.

Tuttavia, questa soluzione può presentare degli inconvenienti. Gli interpreti possono avere problemi nell’interagire con la popolazione in quanto la maggior parte di essi ha solo conoscenze linguistiche di base e ha difficoltà a percepire le sfumature dialettali della lingua.

Altri Paesi assumono direttamente sul posto tra quelli che si rendono disponibili o sono segnalati, da organizzazioni non governative, agenzie umanitarie, ambasciate, ecc., eventualmente già presenti in quell’area.

 

L’esperienza afghana

Quando sono arrivato a Kabul con il primo nucleo italiano, nel dicembre 2001, ho avuto la “fortuna” di incontrare Alberto Cairo – in Afghanistan dal 1989, dopo il ritiro sovietico, per conto del Comitato Internazionale della Croce Rossa – che mi ha indicato alcune persone di provata fiducia, le quali però parlavano inglese e non italiano, allora poco o nulla conosciuto.

La traduzione doveva passare quindi attraverso due lingue: dall’italiano all’inglese e all’afghano (e viceversa), anche se questa situazione presentava la possibilità che il senso delle comunicazioni potesse non sempre essere in linea con quanto detto (tra l’altro, le lingue in Afghanistan sono due, il Dari e il Pastho, oltre ad altre meno diffuse ma sempre parlate, specie nelle zone rurali).

Il riscontro sulla loro affidabilità tuttavia è complicato. In quelle zone pochi hanno un passato privo di compromessi poiché hanno dovuto sopravvivere a diversi cambi di regime adeguandosi, per sopravvivere, alla situazione del momento. In Afghanistan si sono succeduti in pochi anni tre regimi: quello comunista filo sovietico, quello dei mujahedin e quello dei Talebani.

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A missione avviata, la verifica sulla loro lealtà e affidabilità può essere condotta attraverso un controllo incrociato tra organismi d’intelligence dei Contingenti e analoghi organismi del Paese che ospita la missione (sempre che sia presente un Governo), le Ambasciate e altri contatti sul posto.

Laddove i compiti di un contingente sono limitati prevalentemente al mantenimento della pace (contesto relativamente tranquillo) o ad attività di polizia per il controllo/presenza sul territorio, i traduttori reclutati tra i nativi non sono normalmente soggetti a rischi. Ma l’Iraq e l’Afghanistan sono scenari ad alto livello di pericolosità per coloro che lavoravano e lavorano sotto continue minacce, per sé stessi e per le proprie famiglie, in quanto considerati dai terroristi e insorti alla stregua dei membri della Coalizione.

Lo screening può prevedere di controllare la provenienza etnica e/o tribale dell’interessato e della sua famiglia, dove risiede e come ha imparato la lingua straniera. Si verifica poi, se egli presenta un curriculum, con i referenti dove ha lavorato in precedenza. In ogni caso, all’inizio la fiducia non è mai completa e sono arruolati con riserva.

Occorre anche accertarsi, ove è fattibile, se queste persone sono inserite in qualche elenco di proscrizione per loro comportamenti precedenti. Ad esempio, la Russia aveva una lista di “criminali di guerra” per delitti perpetrati contro i propri soldati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan (1979 – 1989).

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Non sempre tuttavia è possibile disporre d’individui con un buon livello culturale, in quanto le organizzazioni governative e non governative reclutano la maggioranza delle élite locali che conoscono le lingue e hanno assimilato il modus operandi occidentale, con retribuzioni decisamente superiori a quelle medie del luogo.

Come primi incarichi si affidano mansioni di scarso rilievo per verificarne i risultati e i comportamenti; importante è anche conoscere i commenti degli altri collaboratori locali.

Di norma il cellulare, se l’interprete ne possiede uno, viene requisito all’inizio dell’attività e riconsegnato al termine, per evitare che possa passare eventualmente informazioni agli avversari (il cellulare viene sempre controllato per vedere i contatti). L’interprete può essere anche obbligato a risiedere per lunghi periodi nelle basi dei contingenti per evitare che possa relazionarsi con l’esterno.

Un altro aspetto da considerare è quello di evitare d’impiegare un individuo di origine etnica diversa da quella dell’area in cui si deve condurre un’attività. In caso contrario si rischia, come minimo, di non poter entrare in contatto con gli abitanti di quella zona, che rifiutano il dialogo, oppure di creare tensioni che possono sfociare anche in reazioni cruente.

Diversa è la situazione se queste persone operano in un Comando multinazionale. In tal caso la procedura da seguire è uguale per tutti i Paesi contributori ed è quella della Nazione leader o dell’organizzazione internazionale che guida la missione (ONU, NATO, UE, ecc.).

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Nonostante i rischi, essi sono anche utilizzati per altri compiti essenziali quali consiglieri culturali, traduttori di documenti presi a elementi ostili, interrogatorio di personale detenuto, partecipazione ad attività di propaganda.

Da tener presente, in ogni caso, che la fedeltà è un valore che cambia da cultura a cultura e non sempre si può avere una certezza di piena affidabilità (ma questo basta saperlo). Solo i periodi trascorsi assieme e i comportamenti dimostrati nelle situazioni di rischio, e in combattimento, possono confermare o meno la loro lealtà.

Con il tempo, e le successive verifiche, rimangono solo quelli che si sono dimostrati fidati; sarebbe assurdo – e pericoloso per la sicurezza – tenere sul “libro paga” individui svogliati, timorosi o ritenuti di dubbia attendibilità. Per chi rimane, dopo anni di attività comuni, spalla a spalla (Shana ba Shana in Dari e Hoka pa Hoka in Pastho), si creano legami e solide amicizie, tra persone che condividono la stessa vita, che superano barriere religiose e diversità culturali. Ancora oggi sono in contatto con alcuni miei collaboratori che, per l’affetto venutosi a creare, considero più che fratelli.

Indubbiamente la loro vita non è facile, anche se sono ben retribuiti, rispetto agli standard locali, poiché essi sono considerati collaborazionisti dalla loro stessa gente e traditori dagli insorti, soprattutto se appartengono al medesimo gruppo etnico. Talvolta queste persone sono costrette a usare una maschera per proteggere la propria identità, come è capitato in Iraq, per evitare di essere riconosciuti e aumentare quindi le possibilità di venire uccisi.

Ciò che li spinge a questa vita, oltre allo stipendio, sono motivazioni di attaccamento al proprio Paese e la promessa di espatriare con la famiglia al termine dell’operazione: speranza che non sempre viene soddisfatta. Essi sono spesso abbandonati dai governi che hanno stipulato con loro un contratto, anche quando le loro vite sono in pericolo.

La motivazione principale per respingere le domande di asilo o di protezione è che essi avevano libertà di scegliere se lavorare o meno al momento del reclutamento nel corso del quale erano stati informati dei possibili rischi.

L’interprete, tuttavia, è solo la figura di spicco di una realtà che ha visto, in questi vent’anni di lotta al terrorismo islamico, migliaia di cittadini autoctoni (cosiddetti local worker) prestare la propria opera in qualità di traduttori, personale amministrativo, addetti alle pulizie o altro a favore dei contingenti stranieri.

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L’esercito statunitense è stato uno dei più grandi reclutatori di collaboratori locali dall’invasione dell’Afghanistan (2001) e dell’Iraq (2003).

Una recente stima valuta in circa 70.000 Afghani e 100.00 Iracheni (incluse le rispettive famiglie) coloro che attendono una decisione circa la possibilità di espatriare negli USA.

A tal proposito, Washington ha creato un programma per gli Afghani e gli Iracheni minacciati per il loro lavoro chiamato Special Immigrant Visa, che prevede una “corsia preferenziale” per la concessione della cittadinanza statunitense e vantaggi come l’assistenza abitativa alla quale non hanno diritto altri immigrati negli Stati Uniti.

La concessione dell’asilo o protezione ai local worker impiegati nei Contingenti della Coalizione in Afghanistan è una questione prettamente nazionale, coerentemente con le disposizioni normative e le politiche di ciascun Paese in materia di protezione internazionale.

Richiamare responsabilità riconducibili a enti sovranazionali (ONU, NATO, UE, OSCE, ecc.) appare, tutto sommato, una comoda via d’uscita per chi non intende o non è in grado d’individuare le soluzioni più efficaci.

La NATO, nel caso specifico, non configurandosi quale entità statuale e sovrana non può garantire asilo o visti d’ingresso e soggiorno e non può interferire nelle politiche sull’immigrazione di ogni suo Stato membro. L’Alleanza Atlantica potrà, al limite, fornire linee guida di massima su come affrontare la situazione e una valutazione generale sul livello di rischio presente nel Teatro di Operazioni.

Non è detto, tuttavia, che tutti coloro i quali hanno lavorato a vario titolo nei contingenti multinazionali abbiano la necessità di chiedere asilo per questioni di sicurezza.

Ciò per tutelare, o quantomeno privilegiare, prioritariamente chi ha interagito con le truppe in operazioni, al fine di evitare un’eccessiva proliferazione di domande che potrebbero presentare motivazioni sostanziali diverse dalla minaccia (ad esempio, riconducili a bisogni di natura economica) e che inevitabilmente rischierebbero di vanificare l’efficacia dell’iniziativa.

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Con il rapido approssimarsi del totale ritiro delle forze straniere (maggio 2021?), a seguito degli Accordi di Doha (29 febbraio 2020) e dell’accelerazione imposta a tale processo dal Presidente Trump (se confermata dal neo Presidente Biden), queste persone e relative famiglie, che usufruiscono ancora di un certo (minimo) grado di protezione sino a quando ci sarà in Afghanistan una presenza militare straniera, si troveranno ben presto “abbandonate” al proprio destino che non si presenta sicuramente dei più “rosei”.

L’ambasciata USA a Kabul dovrebbe riprendere a breve ad esaminare le migliaia di domande di visto speciale – per gli Afghani che hanno operato con le forze statunitensi – bloccate per l’interruzione delle interviste a marzo 2020 a causa della pandemia cinese.

Alcune organizzazioni no-profit che assistono i richiedenti hanno stimato che almeno 1.000 di questi siano stati uccisi in Afghanistan e in Iraq mentre erano in attesa del visto (A. Gearan, Thousands of Afghans and Iraqis are under threat for helping Americans. Now they hope Biden will help them resettle in the United States, Washington Post, Dec. 30, 2020).

Ritengo che una Nazione come l’Italia, che fa dell’accoglienza un proprio principio fondamentale, debba soddisfare – senza ostacoli burocratici – tutti coloro che ne facciano richiesta, dopo gli opportuni controlli (incrociati) di sicurezza, per evitare che i local worker “italiani” di Herat e di Kabul diventino vittime invisibili del ritiro delle forze straniere.

Sono Afghani che non sono fuggiti dalla guerra, ma che hanno deciso invece di impegnarsi (e quindi compromettersi) a fianco dei militari dei contingenti NATO per combattere il terrorismo islamico e contribuire a creare le premesse necessarie per favorire la stabilità del proprio Paese.

Addestratori italiani Resolute Support agosto 2015.

Considero anche necessario ricordarsi di quelli che per vari motivi non intendono chiedere di emigrare in Italia garantendogli, attraverso l’Ambasciata di Kabul quando si presentino le condizioni, un’assistenza pensionistica sul modello di quella elargita ai nostri valorosi Ascari africani.

Mi preme ricordare, anche, che nel novembre 2018 tre collaboratori Afghani di Kabul sono stati portati in Italia in una sorte di “viaggio premio” quale riconoscimento del loro lavoro e della loro lealtà nel servire gli Italiani.

Proteggere coloro che hanno supportato la nostra missione in Afghanistan non è solo un imperativo morale, ma è anche una questione di credibilità. Se abbandoniamo ora queste persone, che hanno rischiato la loro vita e quella delle proprie famiglie, in futuro avremo sempre meno volontari disponibili a lavorare con noi.

Solo chi ha operato in Afghanistan (e si ricorda di esserci stato) può comprendere appieno la condizione di alto rischio che vivono i collaboratori locali, non solo a causa dei pericoli del conflitto ma anche per aver prestato servizio in supporto alle nostre truppe.

Concludo con una citazione di chiusura al film “Ultima Alba” (Tears of the Sun) del filosofo anglo-irlandese Edmund Burke (1729-1797):  “La sola cosa necessaria affinché il male trionfi e che gli uomini buoni non facciano nulla”.

Foto: ISAF, G. Gaiani e F. Biloslavo

 

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Generale di Corpo d'Armata (Aus.), Ufficiale di Artiglieria da Montagna, ha espletato incarichi di comando nelle Brigate Alpine Taurinense, Tridentina e Julia ed ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell'Esercito. Ha comandato il Corpo d'Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA), l'Ispettorato delle Infrastrutture e il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell'Esercito. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo nell'ottobre 2016.

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