Riflessioni su una visione strategica per l’Italia

l’Italia, per la sua posizione geografica, è situata al centro di due grandi archi di crisi che trovano la loro sovrapposizione nella regione del Medio Oriente. L’arco di crisi orientale, caratterizzato dalle rivendicazioni territoriali nel Mar Artico, dalla conflittualità dovuta alla presenza delle minoranze russe nei Paesi Baltici e in Ucraina, dal rinnovato confronto NATO (USA) – Russia e dai Balcani, terreno di confronto soft di Russia, Turchia, Europa, USA.

L’arco di crisi meridionale, contraddistinto dalle ripercussioni delle primavere arabe, quali il terrorismo islamico, i flussi migratori incontrollati, i traffici illeciti, l’accesso alle risorse energetiche, i conflitti in Siria-Iraq, Libia, Yemen e Afghanistan, tutti tra loro collegati, con conseguenti tensioni e “manovre espansive” tra le potenze regionali. Uno scenario di oltre 6.000 chilometri che si estende dal Pakistan al Marocco, investendo l’intera porzione settentrionale del continente africano sino al Golfo di Guinea, e che ha come epicentro il (non più) Mare Nostrum, ponte tra Asia, Europa e Africa.

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L’arco di crisi meridionale risulta, senza ombra di dubbio, quello prioritario per l’Italia – prolungamento (e frontiera avanzata) dell’Europa e della NATO verso i continenti africano e asiatico – per la presenza di variegati interessi nazionali da difendere (anche da alcuni Alleati) che, incrociandosi con i fattori d’instabilità, generano avvenimenti esterni che finiscono per ripercuotersi anche all’interno dei nostri confini, con situazioni sempre più complesse e non più chiaramente delineabili.

Si tratta di una vasta area dove l’Italia è presente con numerose iniziative, quali un consistente dispiegamento militare navale e terrestre (Libano, Libia e Iraq), piattaforme petrolifere (Libia e Mediterraneo Orientale), missioni archeologiche, oltre ad una forte presenza turistica (prima del covid 19).

I fatti recenti dimostrano che anche la massima pressione economica e serrata azione diplomatica non bastano ad evitare un conflitto le cui sorti possono modificare confini e alterare irreversibilmente gli equilibri geo-politici, oltre che quelli economici.

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Il generale Philip M. Breedlove, Comandante Supremo delle Forze Alleate in Europa (SACEUR) nel periodo 2014-2016, ha recentemente asserito che “Bisogna essere consapevoli che, dopo 20 anni, le Forze Armate sono tornate ad essere uno strumento per cambiare i confini internazionalmente riconosciuti, soprattutto in Europa, come accaduto in Crimea e nel Donbass”.

L’Università svedese di Uppsala, che da oltre 40 anni registra i conflitti nel mondo, ha riportato 54 conflitti attivi nel 2019, per non parlare delle crisi regionali che da un momento all’altro potrebbero sfociare in un confronto militare aperto (esempio, crisi tra USA/Iran; USA/Cina, ecc.).

La diplomazia funziona se la negoziazione avviene da posizioni di forza, conseguite anche con le “baionette”, per ottenere migliori condizioni.

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Lo spregiudicato espansionismo della Turchia (neo-ottomanesimo), che cerca sempre di più di seguire una propria linea autonoma in politica estera, e il ritorno in forze della Russia in Siria (base aerea di Latakia e navale di Tartus) e in Libia (al momento sembra solo con mercenari della società Wagner) rendono il Mediterraneo allargato sempre più un’area di crescenti contrasti, spesso risolti con l’uso della forza.

È appena il caso di sottolineare che con l’accordo Libia-Turchia sulle rispettive ZEE, l’Italia (e l’Europa) confina sul mare – di fatto – con la stessa Turchia (e in futuro verosimilmente con la Russia).

Il venir meno della protezione statunitense (ribadito chiaramente più volte dal Presidente Trump ai nostri rappresentanti governativi) richiede (all’Italia) di assumere un ruolo di protagonista “sul fronte Sud” e non da comprimaria sempre in ricerca dell’ombrello protettivo degli USA o, più recentemente dell’Europa, cui rivolgersi e delegare la gestione di eventi o situazioni critiche di priorità nazionale, che oramai non trova più validità e credibilità in ambito internazionale dopo la fine della Guerra Fredda.

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L’Italia negli ultimi anni ha perso progressivamente “peso” e credibilità sullo scenario internazionale per gli effetti di una classe politica litigiosa e poco competente, molto più attenta a mantenere la propria carica/posizione istituzionale (o risolvere le beghe di partito) che a tutelare gli interessi nazionali, anche per la scarsa professionalità dei nostri rappresentanti presenti nelle varie sedi internazionali, soprattutto in ambito NATO e UE mentre le Nazioni Unite dopo le “primavere arabe” sono diventate di fatto irrilevanti a livello multilaterale.

La limitata rilevanza internazionale dell’Italia, dovuta all’incapacità politica di definire linee strategiche che si proiettino oltre i cinque anni (se va bene), è senz’altro uno dei fattori di debolezza che rende difficile sviluppare iniziative autonome, in scenari di profonde crisi e situazioni complesse come sono quelli dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente.

Sono dimostrazione del nostro scarso “peso” internazionale l’infinita saga dei Fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, la mancata assegnazione di un seggio temporaneo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (condiviso con l’Olanda), malgrado l’Italia sia il principale fornitore occidentale di Caschi Blu, e la vicenda della nave ENI, Saipem 12000, bloccata al largo di Cipro nel febbraio 2018 da unità della Marina  turca, senza che vi siano stati segnali di reazione da parte del Governo Italiano. Se non quello di interessare l’UE, salvo poi non solo non dare adeguata informazione a tale increscioso episodio, ma – peggio – di lasciare “cadere” la cosa in modo beffardamente codardo.

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Recentemente si aggiungono alla lista la mancata nomina per due volte di seguito del Chairman dell’International Military Staff della NATO (sebbene l’Italia abbia da anni un consistente impegno militare) e la fresca vicenda del respingimento di alcuni nostri militari all’aeroporto di Misurata per la mancanza dei visti d’ingresso, in un Paese al quale l’Italia fornisce da anni (in Patria e sul posto) assistenza militare, economica, sanitaria, ecc..

Nella visione strategica della NATO 2030, enunciata nel giugno 2020 dal Segretario Generale dell’Alleanza, non è menzionato il “Fronte Sud”. Una evidente dimostrazione delle priorità di sicurezza dell’Alleanza e del “peso” maggiore di alcuni membri: i Paesi dell’Europa Orientale (e gli USA) vedono come prevalente la tradizionale minaccia proveniente da Est. I Paesi dell’Europa del Nord sono più attenti alle problematiche connesse con il controllo delle rotte atlantiche e della regione artica mentre i Paesi mediterranei sono più sensibili alle minacce provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente (la Francia gioca a “tutto campo”).

Non è casuale che tra gli otto Paesi NATO che spendono quanto richiesto (2% del PIL, come concordato da tutti i membri dell’Alleanza nel Summit in Galles del 2014), sei appartengano all’Europa Orientale.

Nel 2019, oltre agli USA (3,42%) raggiungevano o superavano il  2% solo Bulgaria (3,25%), Regno Unito (2,14%), Grecia (2,28%), Estonia (2,14%), Romania (2,04%), Lituania (2,03%), Lettonia (2,01%) e Polonia (2%). Tutti gli altri erano sotto la soglia stabilita del 2%, alcuni di molto come Italia e Germania che si fermano rispettivamente all’1,22% e 1,38% mentre Belgio, Lussemburgo e Spagna non arrivano all’1%.

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Gli Stati dell’ex blocco comunista vivono ancora un forte sentimento di russofobia con il timore che la Russia li invada e li riduca allo status di province periferiche, come frequentemente avvenuto negli ultimi cinque secoli.

Nella memoria storica dei tre Stati Baltici e della Polonia, soprattutto, la minaccia russa è una costante, un aspetto fondativo della propria identità nazionale. Proteggersi dal vicino orientale è un imperativo della propria politica estera che vede la Russia rimanere il principale avversario.

Questa divergente attitudine genera un divario tra gli Stati dell’Europa Occidentale, tendenzialmente inclini a considerare conflitti e invasioni un aspetto del passato, e quelli dell’Europa Orientale che vivono ancora timori di guerre e invasioni rafforzati dagli eventi recenti di Crimea e Ucraina che impongono di non disinteressarsi delle questioni militari.

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La scarsa rilevanza attribuita dalla NATO al “Fronte Sud” è anche una conseguenza della scarsa capacità politica italiana in ambito Alleanza e della mancata volontà di assumere una credibile dimensione regionale, che richiede consapevolezza, volontà e capacità della classe politica (unite a conoscenza della Geografia): aspetti che al momento non sembrano essere presenti.

Una dimensione regionale che dovrebbe indurre il nostro Paese ad affrontare la situazione con cosciente visione dei propri interessi, coinvolgendo in modo sinergico il tanto decantato (a parole) “Sistema Paese”, costituito da Politica, Diplomazia, Forze Amate, indirizzi e scelte economiche, e che persegua obiettivi di lungo periodo, frutto di precise strategie condivise, con una coerente e incisiva politica estera.

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Il cardine è rappresentato dall’interesse nazionale che spinge a garantire la stabilità e la sicurezza del nostro Paese, punto di arrivo (e d’ingresso nel Vecchio Continente) del flusso energetico e commerciale tra Europa e Asia, di pipeline provenienti dal Nord Africa e dall’Asia e delle linee di comunicazione marittime, porti e altre infrastrutture critiche di valenza regionale, come dimostra anche l’interesse verso l’Italia mostrato dall’ambizioso progetto cinese della “Via della Seta”.

Questo contesto richiederebbe di agire contemporaneamente su più livelli (politico interno e internazionale, diplomatico e militare):

  • definire gli obiettivi (ora poco chiari o assenti), armonizzati nel contesto multinazionale delle alleanze (NATO e UE), da cui deve discendere la politica di difesa/sicurezza nazionale, la strategia da seguire e le risorse necessarie;
  • individuare con chi dialogare a livello locale (area Mediterraneo) e internazionale (Washington, Bruxelles, capitali europee, ecc.) per condurre una “campagna” di incontri da parte di rappresentanti nazionali credibili e di esperienza per rimarcare le nuove criticità presenti nel Mediterraneo quali l’aggressività della Russia e della Turchia e l’espansione della Cina (argomenti sensibili per gli USA), senza ricorrere al solito ritornello “no a soluzioni militari”;
  • mantenere rapporti bilaterali inseriti in un contesto multilaterale con gli attori più importanti della Regione per essere in grado di dialogare alla pari con interlocutori spesso più determinati;
  • impiegare lo strumento militare e stabilire razionali progetti (mirati) di distribuzione di risorse economiche, senza limitarsi a schierare il solito ospedale da campo e a consegnare aiuti umanitari a “pioggia” senza una visione strategica (come sta accadendo in Libano), tanto per giustificarsi nei confronti dei soliti “buonist”i con una forma di beneficenza a volte anche offensiva.

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Non acquisire (e mantenere) una posizione di interlocutore privilegiato della comunità internazionale significa rinunciare a governare i flussi migratori e le attività sempre più aggressive di “attori” statuali (Turchia, Qatar, ecc.) e illegali quali terroristi, pirati e organizzazioni criminali dedite a qualsiasi traffico illecito, dalla droga, agli esseri umani, agli organi.

L’impegno militare, in termini sia di mezzi sia soprattutto di volontà/credibilità, comporta un approccio anche combat che implica di accettare tutti i rischi correlati, compresa la perdita di vite umane, come fanno Francia e Regno Unito, che si sono guadagnati agli occhi della NATO (e degli USA) la reputazione, costruita e consolidata nel tempo, di Paesi pronti a osare per tutelare i propri interessi.

L’essere (stati) interlocutori privilegiati degli USA (status tutto da verificare ora in seguito alla sudditanza dimostrata verso la Cina) e allo stesso tempo amici della Russia costituisce un modo agevolato per esercitare una certa influenza nel Mediterraneo ed essere riconosciuti quali referenti favoriti dei Paesi che insistono e si occupano della vasta area che va dal Sahel all’Atlantico e al Golfo Persico.

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La minaccia più incombente per la NATO a Sud è l’estesa presenza russa nel Mediterraneo e con le basi militari in Siria e Libia. Uno schieramento che si raccorda, senza soluzione di continuità, con l’arco di crisi orientale (fronte Est), e fa sì che dall’Artico al Mediterraneo centrale, passando per l’Ucraina e il Mar Nero, e con l’alleanza con la Turchia, sia in atto un unico “fronte” russo di contenimento della presenza occidentale.

In estrema sintesi, qualsiasi azione italiana volta a “recuperare” influenza in ambito internazionale che consenta di far attribuire maggiore attenzione al Fronte Sud richiede:

  • una competente e credibile classe dirigente politico-militare;
  • la riduzione degli impegni non militari delle F.A., ritornando al concetto che esse sono state costituite e sono (almeno dovrebbero essere) preparate per la difesa dei confini, degli interessi nazionali e per la partecipazione alle missioni internazionali. Obiettivi forse attualmente troppo ambiziosi.

Foto: Difesa.it e Anadolu

 

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Generale di Corpo d'Armata (Aus.), Ufficiale di Artiglieria da Montagna, ha espletato incarichi di comando nelle Brigate Alpine Taurinense, Tridentina e Julia ed ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell'Esercito. Ha comandato il Corpo d'Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA), l'Ispettorato delle Infrastrutture e il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell'Esercito. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo nell'ottobre 2016.

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