Rischi e vantaggi delle iniziative militari israeliane

Le operazioni militari israeliane a Gaza non rappresentano una novità negli obiettivi e nelle modalità di esecuzione (incursione aeree contro bersagli specifici e limitati) obiettivi mirati) ma sembrano rientrare in una strategia di respiro ben più ampio del confronto con Hamas e i gruppi jihadisti basati nella Striscia. Il governo israeliano si è preparato per tempo a gestire una ripresa delle ostilità contro diversi nemici e la fusione tra i partiti del primo ministro Benjamin Netanyahu e del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman in un’unica lista (Likud Beiteinu) annunciata il 26 ottobre, non sembra avere solo uno scopo elettorale in vista delle elezioni del 22 gennaio prossimo ma ha creato un saldo “gabinetto di guerra” idoneo a gestire crisi militari. Dopo i dissidi tra Gerusalemme e Washington (Obama e Nethanyau non si piacciono, né sul piano politico né su quello personale) sulla gestione della crisi nucleare iraniana, il governo israeliano ha atteso le elezioni presidenziali statunitensi per dare il via libera a Tsahal, le forze armate dello Stato ebraico considerate ancora le più forti del Medio Oriente. Oltre a Gaza sono state attaccate anche alcune postazioni lealiste siriane sul Golan dove gli attacchi ai ribelli hanno fatto cadere alcune granate in territorio israeliano anche se le prime avvisaglie di una certa “irrequietezza” militare dello Stato ebraico si erano avute già il 23 ottobre con il raid aereo (circa il quale Gerusalemme non ha mai rilasciato commenti) contro  il grande complesso industriale sudanese di Yarmouk, a 11 chilometri da Khartoum, nel quale vengono fabbricate armi iraniane in parte contrabbandate ai miliziani di Hamas a Gaza. Un raid che ha colpito un alleato di Teheran nel momento in cui molti osservatori ipotizzano che Israele avrebbe scatenato anche da solo (cioè senza gli Stati Uniti) l’attacco contro i siti nucleari iraniani.  I raids degli ultimi giorni hanno colpito Gaza non solo subito dopo la riconferma di Obama alla Casa Bianca ma anche a meno di un mese dalla storica e trionfale visita nella Striscia dell’emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa al-Thani. Al-Thani, primo capo di stato straniero nella Striscia di Gaza da quando nel 2007 il movimento islamico palestinese ne ha assunto il controllo, è ormai lo sponsor politico, militare e finanziario dei movimenti islamisti legati alla Fratellanza Musulmana impostisi con la “primavera araba” e alla testa della coalizione degli oppositori siriani al regime di Assad.  Quella Coalizione Nazionale Siriana costituitasi proprio a Doha domenica scorsa.  L’appoggio del Qatar ad Hamas (400 milioni di dollari appena stanziati) persegue il triplice obiettivo di premere sulla pacificazione con l’Autorità nazionale palestinese, di togliere dall’isolamento e sdoganare il movimento islamico e di strapparlo all’alleanza con l’Iran che in questi anni ha rifornito Hamas di dollari e armi. Uno scenario complesso che vede compattarsi un fronte sunnita guidato dai Fratelli Musulmani sponsorizzato dai petrodollari del Golfo e sostenuto dall’Amministrazione Obama e dagli europei. Un fronte certo nemico giurato dell’Iran e del regimo alauita (sciita) siriano ma visto con crescente preoccupazione a Gerusalemme dove il governo potrebbe essere tentato ad alzare la posta, come in una partita a poker, per “vedere” le carte di Washington.
L’ipotesi più volte balenata di un attacco militare su vasta scala a Gaza, simile per dimensioni all’operazione “Piombo Fuso” scatenata a fine 2008, pare confermata come imminente da almeno due considerazioni. Innanzitutto la presenza di ampi depositi di razzi inclusi i Fajr-5 iraniani (ma prodotti anche a Yarmouk, in Sudan)  in grado di raggiungere Tel Aviv. Nonostante i numerosi raids aerei i palestinesi non sembrano certo a corto di razzi (oltre 300 lanci su Israele in meno di tre giorni) mentre il secondo indizio di un’imminente invasione è rappresentato dalla mobilitazione di 16 mila riservisti più altri 14 mila già preallertati, quasi tutti appartenenti a unità di genio e fanteria, specialità chiave per un attacco in ambiente urbano dove sarà necessario eliminare trappole esplosive e rimuovere ostacoli.
Certo un attacco israeliano a Gaza determinerebbe forti reazioni internazionali e potrebbe costringere Obama ad abbandonare il “leading from behind” e prendere una posizione precisa al fianco o contro l’ (ex?) alleato storico. Il concentramento di truppe in atto nel sud di Israele sembrerebbe confermare i preparativi per un’operazione comunque ad alto rischio per Israele. Innanzitutto perché potrebbe accentuare la crisi con l’Egitto in una fase nella quale Gerusalemme ha accolto il nuovo regime del Cairo perseguendo l’obiettivo pragmatico di salvaguardare l’accordo di pace firmato dai due Paesi a Camp David nel 1978. Un assalto frontale a Gaza con l’impiego di truppe terrestri potrebbe compattare il mondo arabo intorno ad Hamas e infatti oggi l’Egitto ha riaperto il valico di Rafah per evacuare i feriti palestinesi all’ospedale di El Arish. Al di là dell’impatto sul mondo arabo una nuova operazione “Piombo Fuso” comporterebbe vittime civili con inevitabili ricadute negative per Israele sul piano politico e mediatico. Nel gennaio 2009 gli israeliani interruppero l’offensiva, sotto le forti pressioni internazionali, dopo aver inflitto perdite severe ad Hamas ma non annientandolo. Oggi un nuovo attacco su vasta scala presenterebbe probabilmente le stesse incognite ma avrebbe un senso solo se andasse fino in fondo spazzando via i miliziani di Hamas e degli altri gruppi attivi a Gaza non per ripristinarvi  il controllo israeliano ma per consegnarla all’ANP in cambio di garanzie concrete per la sicurezza del meridione israeliano.

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Foto: Mohammed Abed/AFP/Getty Images

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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