Il fermento arabo alla NATO Defence College Foundation

Quello arabo è un mondo variegato e in pieno rivolgimento, ove i cambiamenti sono determinati dai diversi attori e dalle dinamiche che questi innescano (o dalle quali vengono dominati o condizionati). Tali dinamiche sono quelle che forgiano i nuovi assetti regionali e che, allo stesso tempo, contribuiscono alla modifica degli equilibri mondiali.  Questo è il quadro generale emerso nel corso del secondo panel della prima giornata della conferenza: «Security in a no one’s world? Game changers» organizzata lo scorso 13 e 14 febbraio dal NATO Defense College Foundation e dalla NATO, in collaborazione con l’Istituto Affari Internazionali (IAI) ed il NATO Defense College.Al panel hanno partecipato autorevoli rappresentanti di diverse aree del mondo islamico, portatori di punti di vista tutt’altro che omogenei.
I panelist hanno affrontato gli argomenti-chiave inerenti e determinanti un possibile futuro cambio degli equilibri del Medio Oriente – e quindi, per un certo verso,  del mondo, almeno finché quest’ultimo dipenderà così tanto dai combustibili fossili. L’attenzione di tutti si è focalizzata anche e soprattutto  sui diversi aspetti storici, geopolitici, culturali che caratterizzano la regione. Da quanto emerso nel corso della conferenza, le variabili ed i processi di cambiamento che influenzeranno il mondo arabo sono innumerevoli e indifferenziati. Alcuni  di essi sono un’eredità del passato, come ha ricordato Mohammed Abdul Ghaffar, del Bahrain Center for Strategic, International and Energy Studies, mentre altri risultano del tutto (e incessantemente) innovativi.

Come evidenziato da Ahmad Khalaf Masa’deh, ex Segretario Generale della Unione per il Mediterraneo di Amman (foto a sinistra)  il primo problema  è costituito dall’ incognita sul futuro dell’Islam politico, ovvero dalla sua capacità di mantenere il potere ove lo detiene e di consolidarlo ove è necessario, risolvendo nel contempo  il difficile rapporto con il desiderio di democrazia manifestatosi un po’ ovunque. Dal punto di vista di Ahmad Masa’deh il problema dell’Islam – e di tutto il mondo arabo –  riguarda  essenzialmente la mancanza di democrazia. L’approccio metodologico e concettuale dell’Islam in relazione alla democrazia è difatti quello di: 1 uomo, 1 voto, 1 volta. Ovvero la democrazia islamica vale una volta sola. Un altro problema cruciale che affligge la regione è il secolare conflitto tra sunniti e sciiti, derivato, come ha ricordato Ahmad Masa’deh, da una divisione non tanto o non solo religiosa ma anche e soprattutto politica, che ha una forte influenza in ogni contesto istituzionale.
Altri elementi forieri di cambiamento sono costituiti dalla disintegrazione degli stati nazionali e dalla comparsa, in loro vece, di gruppi jihadisti ed altri attori non statali, fortemente ideologizzati,  nonché dal cambio o l’ammorbidimento di alcuni attori regionali particolarmente irruenti – si fa particolare riferimento all’Iran e alle contrapposizioni israelo-palestinesi – e dal mutamento di atteggiamento delle potenze estere tradizionalmente presenti nella regione. Tutti questi processi vanno ad agire sui vari attori dei cambiamenti regionali, talvolta sovrapponendosi e sempre interagendo fra loro.

Come ricordato, un primo gruppo di protagonisti del cambiamento è costituito da quegli stati che sono stati investiti dalle «Primavere Arabe». I relatori hanno affrontato il tema in termini generali, analizzando esiti ed implicazioni geopolitiche.
I vari rappresentanti dei diversi punti di vista hanno dimostrato di non avere una visione concorde dei fenomeni rivoluzionari. Ahmad Masa’deh ha preferito parlare di «risveglio arabo» invece che di «primavere» e si è soffermato sulle motivazioni che hanno spinto le popolazioni ad insorgere contro i vecchi regimi. Alle consuete aspirazioni di libertà, giustizia sociale, dignità, democrazia, sopravvivenza economica e lavoro (soprattutto in Egitto) Mohammed Ghaffar, dal canto suo,  ha aggiunto l’incapacità dei governi di prendersi cura dei giovani, di ascoltare le loro necessità e i loro bisogni.

I due relatori hanno spiegato che il fallimento di alcune rivoluzioni, lungi dal dover essere considerato una sconfitta definitiva, è solo una fase di un lungo processo. Come spiegato dall’Ambasciatore Sheikh Ali Bin Jassim Al-Thani, Ambasciatore del Qatar, ci vorrà molto tempo prima di riuscire a  creare un nuovo ordine che sappia pacificare la società realizzando, almeno in parte, le sue aspirazioni. Ma accadrà.   Sull’ opposto versante Abdul Sager, in quanto vicino alla visione delle tradizionali petro-monarchie del Gulf Cooperation Council (GCC)– e quindi della faccia più conservatrice del mondo arabo –  ha spiegato che, nonostante la tendenziale avversione dei paesi del Golfo verso tutto quello che turba lo status quo, non tutte le rivoluzioni sono state giudicate dai loro leader in un’ottica negativa. A questo proposito Abdul Sager ha riconosciuto le profonde modifiche che hanno avuto luogo nelle società dei paesi arabi, citando in particolare la crisi Libica del 2011  e il contributo che i paesi del GCC hanno fornito per il rovesciamento di Gheddafi. Ha spiegato che l’utilizzo dell’aviazione e delle forze speciali  da parte dell’UAE e del Qatar (affiancate al dispositivo NATO), è avvenuto solo dopo che il Ministro degli Esteri libico (della nuova giunta anti-Gheddafi, nda) l’aveva esplicitamente richiesto. Per inciso, la medesima operazione è stata giudicata da Ahmad Masa’deh come “l’apertura delle porte dell’inferno”.

Per quanto riguarda l’Egitto, secondo l’opinione dell’ Ambasciatore Mahmoud Karem, dell’Egyptian Council for Foreign Affairs del Cairo, il fallimento della prima e seconda rivoluzione e la successiva polarizzazione della società sono stati il frutto dell’assoluta inesperienza della neofita classe politica di matrice religiosa. I problemi dell’Egitto sono quelli di una democrazia giovane ed inesperta. Da un lato i Fratelli Musulmani, una volta giunti al potere, non avevano un piano politico efficace e credibile, né soluzioni operative atte a risolvere gli immani problemi di una società attraversata dai problemi gravissimi ed urgenti che si sanno. Dall’altro, l’impreparazione delle masse alla vita politica ha contribuito a determinare l’approvazione popolare di una Costituzione di parte, peraltro non corrispondente ai desiderata della maggioranza degli egiziani, con una mancata stabilizzazione del quadro istituzionale ed il conseguente precipitare della situazione. Secondo Ahmad Masa’deh la vicenda egiziana è stata la dimostrazione lampante di come l’islam non può, così com’è, essere “la soluzione”(e spesso è il “problema”).

L’Arabia Saudita dal canto suo, in passato forte sostenitrice di Mubarak, si mostra oggi più vicina ai militari egiziani che ai Fratelli Musulmani, confermando la sua propensione per un potere autocratico di derivazione militare. I paesi del GCC sono molto attenti alle questioni egiziane per via, soprattutto, delle potenzialità economiche dell’Egitto (un mercato di 80 milioni di persone) e per le sue ingenti risorse energetiche, in gran parte da sfruttare.
E’ stato ribadito che le sorti del Paese sono molto importanti anche dal punto di vista occidentale, date le dimensioni e la sua storica importanza nel mantenimento dell’equilibrio nella regione. In Barhain la rivolta, nata sulla scia di Piazza Tahrir, non ha avuto, secondo  Mohammed Ghaffar, presupposti analoghi a quelli degli altri Paesi. Prima della sommossa, difatti, esistevano partiti all’opposizione del governo, la situazione economica non era disastrosa e vi era un tasso di disoccupazione inferiore a quello dell’area. Una volta scoppiata l’insurrezione, sulla scia degli altri Paesi coinvolti, il Bahrein, come spiega Abdul Sager, ha “beneficiato” dell’intervento del GCC che, grazie soprattutto a stimoli economici  inviati come «solidarietà al re del Barhain», nonchè all’invio di un contingente militare, è riuscito a sedare la rivolta, soffocando sul nascere le velleità rivoluzionarie degli insorti.

Secondo Mohammed Ghaffar il problema del Barhain oggi rimane la presenza di gruppi estremisti, che cercano di destabilizzare la regione. Tra questi, egli ricorda il  Bahrain Movement, l’Islamic Action Society, etc.  La Tunisia è l’unico paese dove la transizione sembra essere riuscita. Come ha ricordato Ahmad Masa’deh, a Tunisi è avvenuto un fatto innovativo: per la volta il potere politico islamico ha lasciato ad altri il potere secolare. La costituzione approvata alla fine di gennaio sembra essere molto progressista, non solo per quanto riguarda la libertà in senso letterale del termine ma anche per ciò che concerne la libertà di religione e coscienza. Al contrario, come ha spiegato Abdul Sager la rivoluzione e la successiva transizione avvenute in Tunisia non hanno incontrato il favore dei paesi del GCC. Nonostante il non voluto cambio di regime, tuttavia, l’esito è stato accettato per fermare il massacro ed assecondare la volontà della popolazione.

Tutti i relatori hanno concordato sul fatto che l’Iran sia uno dei perni essenziale degli equilibri mediorientali. Come ha illustrato Ahmad Masa’deh, il suo avvicinamento all’Occidente e la promessa di seguire le direttive del Consiglio di Sicurezza, facendo marcia indietro  dalle precedenti prese di posizione sulla questione nucleare, potrà avere forti ripercussioni sugli equilibri della regione. Abdul Sager ritiene tuttavia che l’Iran debba essere sempre guardato con una giusta dose di diffidenza e sostiene che la dirigenza iraniana è tradizionalmente considerata dai vicini come insincera e subdola. Il rappresentante del GCC si augura, tuttavia che gli Emirati del Golfo  riescano ad intessere buone relazioni con il gigante dirimpettaio –  che rimane, in ogni caso, depositario e proprietario di grandi quantitativi di petrolio e di gas –contenendo nel contempo la crescita della sua influenza nella regione.  Sfruttando abilmente la questione nucleare, Teheran mostra, secondo Ahmad Masa’deh di avere delle ottime carte negoziali. Ha intenzione di sfruttarle al massimo sia per stabilire un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti che per conquistare una maggiore legittimità e presenza  nella regione, che corrispondono del resto al suo legato storico. Del resto, sin dai tempi dello Scià, la determinazione di tutte le dirigenze iraniane di “entrare nel club nucleare” era dettato dalla volontà di affermarsi come potenza regionale dominante.

Sotto quest’aspetto va visto anche il tentativo di Teheran di  instaurare una maggiore cooperazione regionale e integrare Hezbollah nella sfera politica del Libano. Secondo lo stesso Ahmad Masa’deh, la fine del sostegno al regime di Assad potrebbe essere il prezzo politico che l’Iran dovrà  – e forse “è disposto” a  –  pagare per raggiungere questi obiettivi.
Tutti i partecipanti hanno comunque concordato sul fatto che gli sviluppi della situazione iraniana costituiscono, a seconda del loro segno, un essenziale fattore di stabilizzazione o di destabilizzazione dell’area. Nulla sarà possibile contro Teheran. Tutto sarà possibile “con” Teheran. La guerra in Siria è stata definita da Ahmad Masa’deh come una catastrofe. Le forze in campo, appartenenti a decine di player, sono cospicue e composite: quello siriano è un calderone nel quale convergono non solo le armate di Assad ed i ribelli, ma anche sunniti contro sciiti e altri nuovi attori non statali. Ma la Siria è anche e soprattutto  terreno di scontro tra le potenze mondiali e il banco di prova per gli equilibri internazionali. Russia e Stati Uniti stanno provando a dominare e favorire gli interessi della regione a loro affini, principalmente i poteri che ci son sempre stati. Abdul Sager ritiene che per l’Occidente, e per l’America in particolare, sia stato un grande errore appoggiare i gruppi islamici.

La Russia, dal canto suo, come ricordato da Ahmad Masa’deh, sta cercando di usare la rivolta siriana per dimostrare al mondo che il sistema unipolare è finito e che nuove potenze si affermano (o si riaffermano) sullo scacchiere mondiale. Secondo il giordano, la comunità globale è una key-player per gli esiti della rivolta e, allo stesso tempo, la situazione di Damasco sarà la “gateway” per la stabilità regionale. Gli Stati Uniti stanno dimostrando un certo disinteresse per aree un tempo considerate cruciali. Abdul Sager ha usato parole critiche per l’amministrazione Obama, rea di non essere sufficientemente ferma nella lotta contro il terrorismo, come a suo tempo è stata quella di Bush. La Casa Bianca è da considerarsi  responsabile del disastro siriano.
In realtà, quello statunitense finisce per rivelarsi uno sganciamento progressivo e calcolato dalla regione, secondo Ahmad Masa’deh. Gli USA puntano a risolvere – o eventualmente delegare (non è chiaro a chi) – le vicende del Medio Oriente e del Golfo.  Obama cerca di smorzare la questione israelo-palestinese con la benedizione degli ayatollah e di guardare all’Iran ed oltre, verso Est, verso il Pacifico. Quindi, se da un lato si sta assistendo ad una ritirata statunitense dalla regione, dall’altro nuovi attori internazionali si vanno affermando. Secondo Abdul Sager il ruolo degli USA sarà rimpiazzato dalla Russia (i Russi hanno già fornito 3 miliardi di dollari in armamenti per supportare le operazioni militari di Assad), dalla Cina (per ora i cinesi si limitano a operazioni finanziarie), dall’India e forse, un domani, dall’Unione Europea.

In conclusione, la regione ha un estremo bisogno  di una sicurezza collettiva, che può essere ancora fornita principalmente dagli Stati Uniti e dalla NATO perché nessuno stato regionale è in grado di adempiere a tale ruolo. Tale sicurezza dovrebbe avere non solo aspetti militari ma  riflettere anche le formidabili questioni sociali sul terreno e le aspirazioni dei popoli. C’è bisogno anche e forse sopratutto di elementi di riforma politica che potrebbero essere forniti da una NATO con valenze innanzitutto “politiche” (o un’Unione Europea che abbia finalmente deciso cosa vuol fare da grande). In questo contesto si potrebbe delineare una nuova configurazione della regione, con una accentuazione dell’integrazione tra gli Stati e la crescente presenza degli attori non statali e organizzazioni internazionali.

Foto AP, Reuters, AFP

Nata a Bruxelles, ha conseguito la laurea magistrale con lode in Scienze Politiche, indirizzo Relazioni Internazionali, all’Università Roma Tre. Vive e lavora a Roma, dove si è occupata di comunicazione, relazioni internazionali e giornalismo. Ha collaborato con diverse testate e si occupa di geostrategia e storia contemporanea con particolare attenzione ai temi connessi alla Guerra Fredda e al terrorismo.

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